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Segno Anno 32 Numero 220 luglio-agosto 2008



Esercizi di Revisionismo

Lucia Spadano

Conversazione con Demetrio Paparoni



Attualità internazionali d'arte contemporanea


Sommario Segno 220

2/25 anteprima mostre & musei
news/worldart - news italia-estero
a cura di Lucia Spadano e Lisa D’Emidio

26/33 Esercizi di revisionismo
Conversazione con DemetrioPaparoni,
a cura di Lucia Spadano

34/39 Quadriennale:Effetto tetris
di Paolo Balmas

40/43 La collezione Lambert a Villa Medici
di Antonella Marino

44/91 attività espositive
grandi mostre / recensioni documentazioni

Personali: Gordon Matta-Clark, Mario Schifano, Francio Bacon, Legnaghi-Morellet, Lucy & Jorge Orta, Giorgio De Chirico a Castelbasso, Roberto Barni, Ubaldo Bartolini, Carlo Bernardini, Gabriele Brucceri, Iginio Iurilli, Andrea Pazienza, Vittorio Corsini, Glen Rubsamen, Pep Llambias, BrunoBenuzzi, Claudio Abate, Gian Marco Montesano, Danilo Correale, Subodh Gupta, Alessio Delfino, Fred Forest, Alessandro Grimaldi, Mona Lisa Tina, Raimondo Galeano, Esther Janssen, Andrea Rossi Andrea, Piangiamore-Mazzi, Caterina Arcuri, Massimo Ruiu, Carla Viparelli, Monica Alonso, Hartung Meyer, Wanda Fiscina, Mimmo Rotella, David Bowes.
Group Show: YouPrison, The Absence of birds, Democrazia, Sistema Binario, Corrispondenze di frontiera, Con te o senza di te, Basilea 2008, Architetturesensibili, Arts Materials, Blu Blu Blu, TraCarte, Crazy Boys, Rec Mode, Dimensione Celeste, After Basel, Premio Vasto, Archeologie del futuro, Light Box, I labirinti della bellezza al Premio Michetti.
Letture critiche e documentazione a cura di Nicola Davide Angerame, Roberta Argenti, Antonio Basile, Enzo Battarra, Veronica Caciolli, Nicola Cecchelli, Dario Ciferri, Valerio Dehò, Matteo Galbiati, Linda Giusti, Laura Luppi, Maria Marinelli, Antonella Marino, Fuani Marino, Pietro Marino, Francesca Monti, Enrico Pedrini, Marco Pellitteri, Simona Pugliesi, Stefano Taccone, Antonello Tolve, Lucia Spadano, Stefano Verri, Giovanni Viceconte, Maria Vinella, Eugenio Viola.

92/95 arte e memoria
• Pietro Cascella e l’Abruzzo, intervista a Marcello Zaccagnini

96/98 leggere d’arte
• Libri e Cataloghi a cura di Lucia Spadano
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Foto di Valentina Glorioso
Da sinistra: Carmen Calvo, En el centro, 1996, 250 x 4000 400 cm
Jordi Bernadó, Manolete, 2007, 180 x 230 cm

Foto di Valentina Glorioso
Veduta parziale della mostra Espana 1957-2007 a Palazzo Sant'Elia
Da sinistra, Antoni Tàpies, Amor, A mort, 1980 (200,5 x 376 cm)
Antoni Tàpies, Creu negra y diagonal, 1973 (270 x 200,5 cm)
José Maria Sicilia, Black Flower, 1986 (270 x 270 cm)
Antonio Saura, Ponteja, 1962, 162 x 130 cm
Antonio Saura, Tani, 1962, 162 x 130 cm

Foto di Valentina Glorioso
Dionisio González, Elegia 1938, 2008
Txomin Badiola, All Redness into Blood, All Water Into Tears, 2005, 325 x 137 x 300.

La mostra di arte spagnola España 1957-2007 curata da Demetrio Paparoni a Palermo, a Palazzo Sant’Elia, è un progetto ambizioso nato dalla volontà del Ministro de Cultura Spagnolo César Molina quando questi era ancora direttore in capo del “Cervantes”. Le opere, tutte di valore storico e di grande formato provengono quasi esclusivamente dai maggiori musei spagnoli. Quando ha optato per Palermo come sede di España 1957-2007 (nell’idea originale il luogo prescelto avrebbe dovuto essere Milano) Paparoni ha posto la condizione che la mostra avesse un biglietto d’ingresso di sette euro (a poco meno di un mese dalla sua apertura sono già stati certificati diecimila visitatori paganti, un vero record in Sicilia). Purtroppo in Sicilia, dove non esistono ancora veri musei d’arte contemporanea regolarmente attrezzati e con un facility report in linea con le istituzioni espositive museali di tutto il mondo, non è scontato che si paghi per vedere una mostra. Questo spiega perché Paparoni, siciliano emigrato a Milano nel 1994, senza dubbio il critico che più ha fatto in Italia e all’estero per l’immagine della sua regione nel mondo dell’arte, abbia voluto che la mostra da lui curata avesse un biglietto d’ingresso. Questo senso di responsabilità Paparoni se l’è assunto ovviamente anche sul piano critico. Nella mostra España, piuttosto che dividere gli artisti e i loro linguaggi cronologicamente, per decenni – come normalmente avviene in questo tipo di mostre – ha individuato alcuni tratti comuni del loro lavoro e li ha accostati per tematiche. Le sezioni della mostra sono: Esistenzialismo barocco, Chisciottismo tragico, Misticismo pagano, Tenebrismo ispanico e Astrazione simbolico formale. In tal senso la mostra è il punto di arrivo di un percorso vigorosamente radicato nei secoli, che i grigi anni della dittatura franchista hanno a suo tempo parzialmente frenato in superficie, ma non certo arrestato o deviato. Perché è stato scelto un critico italiano per curare una mostra di arte spagnola?
Probabilmente in Spagna cercavano un critico che non fosse coinvolto in squadre, lobby o gruppi di amici, ma questa è solo una mia supposizione. L’incarico mi è stato dato per l’interesse che ha suscitato la mostra di arte italiana che ho curato al Tel Aviv Museum of Art. Per España ho avuto un supporto straordinario nel ministro Cesar Molina, in Xosé Luis Canido, allora direttore de cultura del Cervantes a Madrid, e in Anton Castro, allora direttore del Cervantes a Milano. È anche grazie a loro che ho potuto avere opere gigantesche come quelle di Tàpies o Millares, o di ottenere prestiti dal Reina Sofía e dai tanti musei coinvolti. Il limite quando curi una mostra è sempre lo stesso: non riuscire ad esporre le opere che vorresti.

La tua scelta di ordinare e presentare grandi artisti conosciuti in tutto il mondo ed altri un po’ meno noti, ma senza dubbio significativi se non irrinunciabili, entro raggruppamenti tematici non può certo essere detta un espediente espositivo, o una trovata curatoriale.

Anche la mostra di arte italiana al Tel Aviv Museum of Art non suddivideva gli artisti cronologicamente o per linguaggi. Attribuendo un ruolo centrale alla metafisica, la mostra comprendeva tre sezioni: Metafisica letteraria (che muove da Giorgio De Chirico), Metafisica analitica (che muove Giorgio Morandi), Metafisica ironico-tragica (che muove Alberto Savinio). Nell’opera d’arte il modernismo ha considerato il linguaggio (la sperimentazione linguistica) prioritario rispetto al contenuto. Ma sono almeno settant’anni che gli artisti rielaborano i linguaggi delle avanguardie storiche, riproponendoli in chiave diversificata ma non per questo sempre originale. Nella pittura degli anni ottanta questo fenomeno è stato reso evidente per stessa volontà degli artisti, ma l’arte dei decenni successivi, proprio perché aspirava a muoversi nuovamente nel solco tracciato dalle avanguardie storiche più sperimentali, ha preteso senza riuscirci di sviluppare linguaggi “innovativi”. Il vero elemento di novità è nel modo in cui l’arte risente degli effetti della rivoluzione telematica, cioè delle strategie di comunicazione di Internet e delle nuove concezioni di marketing rivolte al mercato globale. Ma come tutti sanno la cosiddetta avanguardia è diventata sempre più di massa, lo dimostra il fatto che la gente fa la fila per vedere una mostra di Matthew Barney o di Damien Hirst, che sono artisti bravi ma non innovativi. In questo contesto, in cui gli spostamenti linguistici sono minimi, il “contenuto” dell’opera assume la stessa dignità del linguaggio, che di sperimentale ormai ha ben poco. L’idea di una cultura globale tende a trasformarci tutti in nordamericani. Ma non è pensabile che la cultura di un popolo possa trasformarsi al punto da diventare estranea alla propria tradizione religiosa, alle proprie vicissitudini politiche, al pensiero dei propri artisti, narratori e filosofi. In Spagna l’arte di tutto il Novecento, così come quella dei nostri giorni, fa spesso riferimento al lavoro di Velázquez o di Cervantes, in Italia mai a nessun artista, che io sappia, è venuto in mente di riferirsi a Caravaggio, Dante o a Petrarca. Se si vuole trovare un riferimento in una figura del passato è a Machiavelli che dobbiamo guardare, ma più che altro per la sua idea della politica.

La tua è un’idea affascinante sulla quale ci sarebbe molto da discutere, anche per via delle sue implicazioni sociologiche.

Gli effetti della rivoluzione telematica sono entrati nella strategia delle ultime generazioni di artisti. In una logica da marketing concentrasi su tematiche culturali non paga, perché non “buca” in tv e non trova spazio sui giornali a grande tiratura. Anche una parte della critica, vecchia e nuova, si adegua: preferisce inventare e alimentare finti litigi che servono solo a mettere in primo piano gli autori e non le proprie idee. Il litigio e l’insulto sono stati sin qui troppo spesso la strategia che consente di far parlare di un libro o di una mostra. Queste polemiche sono vere e proprie armi di distrazioni di massa, servono a distogliere l’attenzione dalla mancanza di idee e dal fatto che spesso la maggior parte dei testi critici sono vuoti di contenuto o incomprensibili. Tutto questo ha screditato il ruolo del critico, al punto che una rivista come Arte, che è la più letta in Italia, quando recensisce una mostra di gruppo non cita il curatore. All’inaugurazione di España ne ho chiesto il motivo a Mario Pagani, caporedattore della rivista Arte. Quando gli ho chiesto come mai la sua rivista aveva pubblicato un servizio di sei pagine sulla mostra, entrando nel dettaglio del progetto correttamente senza però dire che la mostra è curata da me, Pagani mi ha risposto che tale scelta è dovuta al fatto che la rivista ritiene l’evento più importante di chi lo produce. Se ci pensi bene la tesi non è molto distante da quella di Bonami quando sostiene che è interessato alle singole opere e non alla visione complessiva dell'intera produzione del suo autore. A chi verrebbe in mente di recensire un romanzo o senza citarne l’autore o un film senza citarne il regista? E perché invece questo può avvenire per una mostra di gruppo? Il fatto che una rivista con una così alta tiratura segnali mostre con un progetto critico complesso senza citare chi le cura è un segno che dovrebbe farci riflettere. Anche perché aggiungere il nome di un curatore non cambia in niente nell’impaginazione di una recensione, dunque si tratta di un segnale che porta in sé una precisa visione del ruolo teorico della critica. Ruolo che, a quanto pare, viene considerato del tutto superfluo. La questione riguarda la perdita di credibilità della figura del critico. Se vuole tornare ad essere una figura credibile il critico deve porsi il problema della comprensibilità di quello che scrive. Personalmente detesto il ricatto delle avanguardie, basato sul principio che se la gente non capisce è perché è ignorante. La critica non è l’arte, il critico non gioca lo stesso ruolo dell’artista. Quando la gente non capisce un testo è perché il critico non è capace di farsi capire. Fare della scrittura una nebulosa impenetrabile è la strategia che consente di sottrarre al giudizio il contenuto dei testi. Bisogna riflettere sul fatto che se un romanziere non acchiappa il lettore può smettere di scrivere, mentre un critico d’arte può permettersi di scrivere qualunque cosa perché sa che i testi sui cataloghi sono considerati sempre più spesso semplici decorazioni.

Torniamo alla tua mostra España. Non c’è il pericolo che il tuo modo di procedere rischi di far diventare l’arte spagnola ancora più spagnola, dunque un po’ meno partecipe di un percorso sovranazionale i cui tratti salienti, al di la di ogni facile accusa di hegelismo, sono oramai universalmente riconosciuti e altrettanto persuasivi quanto le tue fascinose categorie spirituali?

La forza dell’arte spagnola sta nel suo continuo ripiegare su se stessa. Il periodo meno interessante dell’arte spagnola è quello legato agli anni Settanta, che sono gli anni del concettualismo. Sul piano della propria identità nazionale negli anni settanta gli artisti spagnoli diventano anonimi, diversamente da quanto accade nei decenni precedenti e successivi.

Tu sei sempre stato una persona coraggiosa. Dividere la mostra per temi e non per sezioni cronologiche indica una presa di posizione teorica dotata di una buona dose di intuitività creativa e fondata su una conoscenza approfondita della cultura non solo figurativa spagnola. C’è chi considera il curatore una sorta di nuovo soggetto, una sorta di figura monca in quanto incapace di dare una lettura critica dei fenomeni. Nel preparare España 1957-2007 ti sei sentito più un critico o più curatore?

In una mostra di questo tipo devi essere per forza le due cose insieme, altrimenti non puoi farla. Purtroppo l’aspetto curatoriale assorbe la maggior parte del tempo, non lascia molto spazio per scrivere un buon testo. La prima fase del lavoro è (dovrebbe essere) elaborare un progetto critico: se non hai un’idea di cosa cerchi è come andare a tentoni nella speranza dell’incontro giusto. Sono stato rinchiuso per più di un mese nella biblioteca del Reina Sofìa e ho parlato molto con gli artisti. È sempre una lotta contro il tempo, che porta a una sorta di cannibalismo tra l’energia che metti nell’elaborazione del progetto critico (che dovrebbe precedere la ricerca delle opere) e quella che metti nel lavoro curatoriale vero e proprio. Ho considerato l’incarico di curare la mostra di arte spagnola l’equivalente di una borsa di studio che mi ha consentito di occuparmi per un anno solo di questo. Una mostra implica sempre un grande impegno e tanta energia.

Cosa pensi della mostra di arte italiana curata da Francesco Bonami a Palazzo Grassi?

Penso che le scelte di un curatore vanno sempre rispettate, tuttavia questo non vuol dire che debbano essere per forza condivise. Bonami ha poco meno di cinquant’anni e ha sviluppato una visione critica originale (ma, insisto, non per questo necessariamente condivisibile). Affermando che il suo interesse è concentrato sulla qualità delle singole opere e non sul lavoro complessivo degli autori, Bonami fa un’affermazione forte. Egli crede realmente che l’opera vada giudicata nella sua singolarità, lo dimostra il fatto che nei suoi cataloghi e nelle sue mostre prevede schede di spiegazione delle singole opere che sono molto chiare e utili a tutti. Una scelta che dimostra rispetto per il pubblico, e che per questo è apprezzabile. Tuttavia, la sua visione curatoriale implica che egli non considera l’opera l’espressione di una visione del mondo ma un incidente felice nella vita dei singoli autori. Io sono tra quanti pensano invece che la storia è fatta da singoli uomini con un preciso progetto che abbraccia ogni loro gesto e scelta: il concetto di Storia implica contrapposizioni tra le diverse visioni del mondo. Nel modernismo il linguaggio è stato sempre l’espressione di una visione del mondo e il fatto che negli ultimi trent’anni sono venuti meno i vecchi sistemi ideologici non significa affatto che il lavoro degli artisti si sia di colpo estraniato dalla Storia. Non a caso l’arte degli ultimi decenni ha inglobato temi etici legati alla religione o alla biogenetica, che sono temi che dividono gli animi.

Da quello che dici si capisce che non consideri la scelta di Bonami – uso le tue stesse parole – un incidente.

Penso a lui come a una persona intelligente e per questo ritengo il suo un progetto lucido, inserito in un preciso contesto socio-politico. Con le sue scelte e con le sue dichiarazioni Bonami nega il ruolo centrale dell’artista e afferma che quel ruolo spetta oggi al curatore, cioè a chi ha il potere di scegliere. È chiaro che a suo avviso è il contenitore a conferire importanza al contenuto e non viceversa. Egli stesso accetta la tesi secondo cui c’è una distinzione tra il ruolo del critico e quello del curatore, e secondo cui i ruoli non necessariamente devono convivere. È da anni che con le sue scelte Bonami ci dà segnali precisi in tal senso. Il suo principale punto di riferimento è Cattelan, artista il cui lavoro sul piano formale è molto interessante. Cattelan ha sempre dichiarato che quello che fa è frutto di una strategia elaborata insieme a un gruppo del quale fanno parte anche Bonami e Gioni. Te l’immagini Jasper Johns o Michelangelo Pistoletto che dichiarano che il proprio lavoro è frutto dell’elaborazione strategica di un gruppo di lavoro? Una cosa del genere con quegli artisti non ti verrebbe mai in mente, e non perché questi non hanno avuto un’idea di marketing a sostegno del lavoro.

Qual è dunque secondo te il vero elemento di svolta tra le generazioni precedenti e la nuova?

Come ho già detto molti artisti dagli anni novanta in poi non si propongono di prevedere e progettare il futuro, ma seguono le indicazioni che vengono loro dalla società, dalla politica, dalla filosofia. Pensa al lavoro di Cattelan che mostra Hitler che prega in ginocchio. È un lavoro molto forte, visionario perché mostra una situazione assolutamente improbabile. Un Hitler di cera è da tempo esposto al Madame Tussaud di Londra ma non ha sollevato polemiche. La questione si è posta invece nel momento in cui se n’è voluto mettere uno anche a Berlino, nel nuovo museo delle cere di Madame Tussauds. Cattelan mostra Hitler in ginocchio mentre chiede perdono a Dio, nel museo delle cere di Berlino siede alla scrivania del suo bunker pensieroso, sconfitto. Alle sue spalle la mappa dell’Europa del ’44 indica che i russi stanno mettendo in scacco Berlino. È interessante notare che il museo ha deciso di includere la figura di Hitler sulla base di una ricerca di mercato che ha stabilito che la maggior parte dei tedeschi la voleva in mostra, ma in una luce negativa. Sbaglia quindi chi pensa a Cattelan come a un provocatore. Se fosse stato un provocatore avrebbe mostrato Hitler mentre brinda all’ennesima strage di ebrei, al posto del papa colpito da una meteorite ci avrebbe messo Khomeini. Il lavoro di Cattelan è invece strettamente correlato a quello di De Dominicis, Pistoletto e Boetti, è un lavoro fenomenologico.

Cioè?

Prendiamo come esempio i quadri specchianti di Pistoletto, costituiti da una figura scontornata incollata a una superficie di acciaio lucidata a specchio. La figura è l’elemento fisso, tutto ciò che si riflette nello specchio è l’elemento variabile attraverso cui lo spazio, il tempo, le persone e il loro comportamento vengono incluse nell’opera. In questo modo l’opera ingloba e studia i fenomeni. Consideriamo ora l’Hitler di Cattelan in rapporto a quello che è accaduto recentemente a Berlino: dalle diverse reazioni del pubblico, aiutate dal solito idiota perfettamente funzionale alla pubblicizzazione dell’evento, possiamo studiare il comportamento delle persone. Dunque sia la statua di cera del museo di Madame Tussauds di Berlino sia quella di Cattelan sono il pretesto per un’analisi fenomenologica dei comportamenti. Il giorno dell’inaugurazione del museo delle cere di Berlino c’è stato un tipo che ha fatto saltare la testa a Hitler urlando “Mai più guerre”. Ovviamente la notizia è finita su tutti i giornali e, manco a dirlo, sull’argomento sono stati invitati a esprimersi intellettuali e politici importanti. E più ne parlano i giornali più la gente ne parla. Questa dinamica, presente nel lavoro di Cattelan, rimanda fortemente al lavoro di Gino De Dominicis (basti pensare al ragazzo mongoloide da lui esposto alla Biennale di Venezia del 1972 ), ma anche a quello di Boetti, e dimostra che esiste in arte una precisa tradizione italiana.

In sostanza stai dicendo che Cattelan si muove nel solco della stessa tradizione di Pistoletto e De Dominicis.

Esattamente. Cattelan ha il merito di dare continuità una tradizione importante. Per questo non comprendo come lui, Bonvicini, Airò o Gennari possano accettare di esporre accanto ad Annigoni e Guttuso. Si può dire che, per la sua impronta fenomenologica, il lavoro di Cattelan sta a quello di Pistoletto come quello di Pistoletto, inglobando lo spazio nell’opera, sta a quello di Fontana. È proprio perché tiene in vita questa tradizione che mi sorprende il fatto che Cattelan abbia accettato di partecipare a una mostra accanto ad Annigoni, avallandolo e legittimandolo.

Ma la statua nel museo delle cere non è un’opera d’arte!

Perché no? Perché non è esposta in un museo d’arte e non è firmata? Chi l’ha realizzata ha studiato che espressioni dargli, ha fatto precisi studi di fisiognomica, ha costruito un’ambientazione capace di stimolare delle riflessioni. Ha agito cioè come un artista concettuale. Per non dire che sul piano formale l’installazione è impeccabile.

Va bene, ma questo cosa c’entra con le indicazioni che la politica dà all’arte?

C’entra eccome. L’Italia va a destra, l’occidente va a destra. E la destra da tempo ripete che bisogna riscrivere i libri di storia, che quelli in uso nelle scuole sono settari e maldestramente di parte, dunque falsano la verità degli eventi. Questa stessa richiesta sul piano dell’arte equivale a richiedere di riscrivere la storia dando un ruolo importante ad artisti come Annigoni. Nello stesso tempo, esporre Guttuso accanto a Kounellis equivale ad annullare le forti contrapposizioni formali che hanno caratterizzato un epoca. Non va dimenticato che mentre Kounellis o Pistoletto operavano sul linguaggio e sul contenuto in chiave sperimentale, Guttuso, con il suo picassismo di seconda mano dopo gli anni quaranta, è stato più funzionale al mercato che al dibattito culturale. Ma concentriamoci su Annigoni, che è un artista emblema, quanto meno tale è riuscito a farlo diventare Bonami tra giovani che prima che lui lo ripescasse non lo avevano mai sentito nominare. Con le sue scelte formali Annigoni si è messo fuori dal modernismo, ma lo ha fatto per nostalgia. Anche un artista come De Chirico ha dichiarato di voler stare fuori dal modernismo, ma nello stesso tempo la sua arte faceva riferimento alla psicanalisi. Ora, chiunque sa che la svolta modernista ci viene dagli effetti della rivoluzione industriale e dagli effetti della scoperta dell’inconscio. De Chirico non era affatto un nostalgico, ed infatti, quando purtroppo ha deciso di diventare la copia di se stesso, quando ha avuto nostalgia di ciò che era stato, ha perso ogni energia. Annigoni invece avrebbe voluto stare dentro il Louvre, ma per affermare che è possibile fermare il tempo, bloccando le variazioni dei linguaggi. Bada bene che ho detto “variazioni” e non “evoluzioni”. La questione non riguarda l’essere figurativi o astratti, usare la pittura o il video. Quello non c’entra nulla. La scelta di Bonami in tal senso è sottile, risponde a un progetto di revisione della storia dell’arte nello stesso modo in cui vorrebbe farlo la politica di destra oggi. Questo ritengo porterà a Bonami un consenso tra i politici di destra, e magari qualche incarico. Ma a quale prezzo per noi tutti? Soprattutto Bonami rischia di creare un brutto precedente che porterebbe a un grave danno alla libertà del critico.

Sarebbe a dire?

Io non sono affatto convinto che artisti che credono ancora fortemente in se stessi accetteranno di essere accostati ad altri che vedono come una sorta di nemico di classe. Se qualcuno di questi artisti dovesse adire alle vie legali per difendere la propria reputazione, da quel momento ognuno di noi nel curare mostre perderebbe una larga fetta di libertà.Una libertà che ci eravamo conquistati lavorando nel rispetto della dimensione culturale dell’artista.

Quindi secondo te il fatto che Bonami abbia escluso dalla sua mostra artisti come Paladino e inserito Annigoni o Guttuso, più che una scelta di qualità delle opere risponde a un progetto critico autorevole.

A rendere autorevole il progetto è la sede espositiva, Palazzo Grassi. Il discorso sulla qualità delle opere è un pretesto, o se preferisci una strategia critica. Penso che se questa mostra avrà luogo così come è stata progettata segnerà una svolta radicale avallata dal silenzio degli artisti coinvolti. Continuo a chiedermi com’è possibile che personaggi dello spessore di Kounellis, Pistoletto, Paolini, Anselmo, Penone o Cattelan possano accettare una cosa del genere. Continuo a chiedermi come avrebbero reagito Emilio Vedova, Mario Merz, Luciano Fabro, Gino De Dominicis o Alighiero Boetti. La Transavanguardia, invece, come ha sempre scritto Achille Bonito Oliva, non è stato un movimento ideoligicizzato, per cui il silenzio di Chia o Clemente non mi sorprenderebbe.

Bonami dice che prima di muovere qualunque critica sarebbe bene vedere la sua mostra.

Non ho bisogno di vedere una mostra per sapere che Annigoni, Guttuso o Emblema sono artisti che non mi interessano. La questione, come ho detto, non riguarda la qualità delle opere, perché ogni critico si prende la responsabilità di quello che espone e mi pare che Bonami questo lo stia facendo. Bonami ha diritto di fare le sue scelte come noi abbiamo il diritto-dovere di criticarle. A me per esempio non piace il lavoro di Margherita Manzelli, ed è giusto che non mi piaccia, perché io amo pittori come Jackson Pollock, Jasper Johns, Francis Bacon, Mimmo Paladino, John Currin e Jenny Saville. Le scelte di un critico sono in qualche modo dettate da coerenza. Per esempio, poiché mi sono occupato a lungo di arte astratta e sull’argomento ho anche scritto un libro, poiché sono interessato a Joseph Albers, Barnett Newman, Peter Halley e Domenico Bianchi è ovvio che mi interessi Patrick Tuttofuoco. E poiché sono sempre stato affascinato da artisti come Pistoletto, Anselmo o Penone è ovvio che mi interessino Francesco Gennari o Micol Assael. Ogni critico dovrebbe essere sempre in grado di inscrivere ogni sua singola scelta all’interno di un discorso complessivo che considera la parte in funzione del tutto.

Vuoi dire che Bonami non ha le idee chiare?

Al contrario. Sostengo che ha idee e obiettivi chiarissimi. A mio avviso sbaglia Bonito Oliva quando liquida Bonami dicendo che non ha idee, che manca di un progetto critico. Attendo con molta curiosità di vedere la mostra di Palazzo Grassi e di leggere il suo testo che, mi auspico, vista la complessità del progetto, sarà un testo chiaro e motivato. Certamente Bonami non se ne potrà uscire con quattro cartelle. Lo dico senza polemica e nel rispetto delle tesi altrui, perché un curatore a cui interessa la pittura di Margherita Manzelli e nello stesso tempo dichiara di non aver trovato una sola opera di Paladino che lo interessi ha il dovere di motivare criticamente le sue scelte soprattutto sul piano formale.

Ovvio che un curatore debba motivare le sue scelte.

Non è poi così scontato. Mi sono imbattuto in dichiarazioni di critici che mi sono sembrate strumentali. La valutazione del lavoro degli artisti non dovrebbe mai essere dettata dalle nostre miserie personali. Non si può attaccare Cattelan quando in realtà si vuole attaccare Bonami, così come si commette un gesto altrettanto ignobile se si attacca Paladino per colpire Bonito Oliva. Il concetto di qualità è soggettivo e non mi stancherò di ripetere che le scelte di un curatore vanno rispettate, però nelle scelte di Bonami per la sua mostra a Venezia c’è molta violenza.

Violenza?

Ma certo! Gente come Kounellis, Pistoletto, Merz, Paolini, Boetti, De Dominicis, Fabro e tanti altri hanno messo a rischio la propria intera esistenza con scelte che oggi sono di successo ma che in origine non necessariamente avrebbero potuto esserlo. Non hanno ritratto nude le dame della borghesia romana e frequentato salotti mondani e sedi di partito istituzionali per ottenere privilegi. Ci sarà pure un motivo per cui questi artisti hanno sempre preso le distanze da chi aveva una visione del mondo e una visione formale contrapposta alla loro. Mettendoli tutti nello stesso calderone Bonami chiede loro di rinunciare alla proprie connotazioni culturali. Se la mostra di arte italiana a Palazzo Grassi dovesse farsi così come è stata concepita, penso che veramente potremo affermare che gli ideali di intere generazioni non contano più niente. Quando era in vita Rothko rifiutava di partecipare a mostre di gruppo o esporre nelle sale dei musei perché riteneva che mettere le sue tele accanto a quelle di altri ne falsava la lettura. Morto Rothko chi ha il potere di farlo usa i suoi dipinti incurante della sua volontà. Mi colpisce anche il silenzio degli artisti più giovani. Particolarmente eclatante perchè tra loro ce ne sono cinque o sei veramente bravi e dunque si presuppone che abbiano una forte personalità e dunque la loro scelta di accettare Annigoni, Guttuso, Emblema e tanti altri minori come interlocutori è un segnale fortissimo su cui riflettere.