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Kaleidoscope Anno 1 Numero 1 marzo-aprile 2009



"The meta-artists goes radical"

Chris Sharp

Goshka Macuga's complex and multilayered practice



a contemporary magazine


BACK TO THE MONUMENTAL On the Sculpture of Thomas Houseago by Michael Ned Holte

THE PERFECT MISFIT The Strangely Shaped Furniture of Martino Gamper by Emily King

THE PARTY IS OVER Allora&Calzadilla's Monstrous Art by Chris Wiley

MIND AT POINT BLANK A Philosophical Take on the Work of Melvin Moti by Thomas Michelon

MAIN THEME: THE EXOTIC An introduction, A Historical Outline, A Concerted Overview, A Themed Interview with Danh Vo, An Exotic Playlist (Quiet Village) curated by Alessio Ascari & Andrea Viliani

PORTRAIT: THE POST-PUBLISHER An Extravagant Interview with Felix Burrichter by Francesco Vezzoli

THE META-ARTIST GOES RADICAL Goshka Macuga's Complex and Multilayered Art by Chris Sharp

PIONEERS: THE EXPERIENCE MACHINE On the Utopian Visions of Stan VanDerBeek by Simone Menegoi

GENEALOGY OF THE FASHION ACCESSORY From Leopardi's Dialogue Between Fashion and Death by Paola Colaiacomo

ENIGMA N.1 solution by Becky Beasley

BERLIN'S EMPTY CENTER And the Temporare Kunsthalle in Schossplatz by Carsten Krohn

SEMIO-SEX New Wave Rock and the Feminine by Dan Graham

THE EPHEMERAL ACT OF PUTTING THINGS AWAY An In-Depth Look into the Art of Mark Manders by Andrea Wiarda

THE PAST IS TODAY An Impossible Interview with Tadeusz Kantor by Maurizio Cattelan

THE MECHANICS OF FORM On the Inter-Formality of Raphael Zarka by 220 Jours

PANORAMA: SCUOLA DI VITA Istituto Marchiondi Spagliardi, Milan by Alessio Ascari

WHATEVER HAPPENED TO THE LONDON NIGHT? by Francesco Pedraglio & Caterina Riva

MAPPING THE STUDIO: TANIA BRUGUERA Havana, Cuba by Luca Cerizza

ON EXHIBITIONS: THIS IS TOMORROW Whitechapel Gallery, London, 1956 by Paola Nicolin
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PLUS TIPS: RECOMMENDATIONS FOR WHAT/WHO NOT TO MISS
Sean Snyder, Buckminster Fuller, Pablo Leon de la Barra, Paiva & Gusmao, Giorgio Andreotta Calò, Raven Row, From Spain with Love, Felix Vogel, News from the Middle East, Daria Martin, Le Corbusier, The Old Brand New, Marcello Maloberti, Zak Kyes, New Museum, Trisha Donnelly, Objectified, Isabelle Cornaro, The Functions of the Museum, The Porn Identity, Cold War Fever, Martin Margiela & Hussein Chalayan, Nicolas Bourriaud, The Art of Writing, NABA, Gakona, Walter Pfeiffer, The Space of Words.
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Goshka Macuga
Untitled, 2008
Courtesy: the artist

Goshka Macuga
I Am Become Death(installation view), 2009
Courtesy: Kunsthalle, Basel
Photo: Serge Hasenböhler

Goshka Macuga
Haus der Frau 2
(installation view of the 5th Berlin Biennial), 2008
Courtesy: Kate MacGarry, London and Berlin Biennial for Contemporary Art

L’ARTISTA POLACCA, CANDIDATA ALL’ULTIMO TURNER PRIZE, ABOLISCE I CONFINI FRA ARTISTA, COLLEZIONISTA E CURATORE PER MEZZO DI UNA SOFISTICATA STRATEGIA CULTURALE.

Goshka Macuga sta rapidamente diventando, se già non lo è diventata, la meta-artista che sembra incarnare meglio il nostro tempo. Perché nella sua pratica ampia e multiforme tutte le principali metodologie (curatela, ricerca, archiviazione, collezione), le principali preoccupazioni (metodo, narrazione, epistemologia) e i principali interessi (Modernismo, architettura, misticismo, storia, museologia e archeologia) dell’arte dei nostri giorni, sembrano fondersi in una specie di crogiuolo postmediale. Dire che è una fantasista sarebbe impreciso: piuttosto, quella costruita dall’artista è un’intera, fluttuante cosmologia in cui l’artista è rappresentato come un impresario, ed entro la quale la tradizionale nozione di pratica artistica è resa incerta. Di recente,poi, il suo lavoro ha cominciato a mostrare segni di profondo cambiamento,virando verso una semplicità essenziale ed esplicitamente politica – più che mai evidente nella recente mostra alla Kunsthalle di Basilea, intitolata “I Am Become Death”, e nel suo prossimo progetto alla Whitechapel di Londra, la cui inaugurazione è prevista per aprile. È come se gradualmente l’artista stesse svuotando l’armadio zeppo di curiosità del passato, tirandone fuori tutto tranne gli oggetti indispensabili e le tensioni intellettuali.
In passato, con progetti come The Picture Room, allestito da Gasworks a Londra nel 2003, l’artista si era confrontata con il display museologico e la questione dell’autorialità.
The Picture Room consisteva nella ricostruzione di una stanza della casa-museo dell’architetto neoclassico Inglese Sir John Soane – un ambiente anacronistico, pieno di pareti pannellate e modulari, al cui interno erano esposti 40 lavori di 30 artisti storici e contemporanei. È questo un progetto che ha sfidato la convenzionale percezione dell’artista, del curatore e del collezionista, fondendole fino a renderle indistinguibili. Analogamente, l’acclamato contributo di Macuga alla 27ma Biennale di San Paolo, intitolato Mula sem Cabeça (2006) dove l’artista ha costruito un mini-padiglione sullo stile di quello di Oscar Niemeyer, rappresentava un’elaborazione ancora più complessa dell’appropriazione dei ruoli di curatore e collezionista: in una stanza all’interno di questa struttura era esposta una varietà di manufatti e materiali, dalle antichità ai libri alle stampe, tutti connessi in un modo o nell’altro al passato coloniale del Brasile e alla sua storia religiosa; sul fondo del padiglione, inoltre, c’era un giardino seminato con un’erba locale che si riteneva esercitasse un’azione protettiva rispetto agli spiriti malvagi. In un articolo pubblicato su Artforum nell’aprile 2007, Michael Wilson osservava che questa giustapposizione «incarnava la tensione tra il Modernismo brasiliano e le credenze religiose persistenti nel paese», e proseguiva apprezzando l’abilità di Macuga nell’amalgamare forze apparentemente così contrastanti come il modernismo e la metafisica – valutazione, questa, molto penetrante dell’incontro di polarità caratteristico della pratica di Macuga. Un’opposizione simile, quella tra spirituale e materiale, animava il progetto più ambizioso che Macuga abbia concepito finora: The Sleep of Ulro (2006), presentato alla Biennale di Liverpool di quell’anno. Allestita nella fornace della A Foundation, questa mostra articolata e imponente era una stravaganza derivata dalla collaborazione con If-Untitled Architects, i quali avevano costruito una struttura piena di corridoi, teche espositive (poi riempite dall’artista di bizzarrie, come campioni botanici e pezzi di meteorite), stanze segrete e anticamere.
Questa intricata mise en scène, permeata di cosmologia rinascimentale con la sua ripartizione tra paradiso, purgatorio e inferno, era probabilmente ispirata dal film espressionista Il Gabinetto del Dottor Caligari, con le sue scenografie pionieristiche e la relazione con le idee di William Blake sulle fasi che vanno attraversate per accedere alla visione del paradiso. L’installazione includeva opere di numerosi artisti quali L.S. Lowry, Paul Nash, Melvin Moti, Will Hunt e Tony Matelli, ed era completata da collaborazioni e performance che vedevano coinvolti Olivia Plender e Simon Moretti. Tale profusione di attività e riferimenti rende Macuga, ancor più che una creatrice di universi, un’eccentrica cartografa, che fa la spola avanti e indietro tra innumerevoli dimensioni di esistenza. A questo proposito, se volessimo far corrispondere il suo lavoro a una forma letteraria, sarebbe quella dell’ipertesto, dove l’artista diventa una specie di nodo in cui confluiscono e vengono connesse e rese visibili le più svariate traiettorie.
Giungendo all’arte del racconto, molto è stato detto della capacità dell’artista di dissotterrare storie dimenticate del modernismo, come nella sua mostra del 2007 alla Tate Britain, “Objects in Relation”, la quale le ha assicurato, oltre alla partecipazione alla quinta Biennale di Berlino, anche la successiva candidatura al Turner Prize 2008. Per questa mostra, l’artista ha dato fondo al suo interesse per l’artista inglese Paul Nash e al gruppo Unit One da lui formato nel 1933, che includeva artisti come Barbara Hepworth e Henry Moore. Macuga ha esplorato l’archivio della Tate, che ospitava la corrispondenza personale di molti degli artisti in questione, creando poi un’installazione che comprendeva fotografie, lettere, piccoli oggetti, rocce e pezzi di legno antropomorfi, oltre ad alcune sculture, come il trampolino gigante ispirato a uno dei dipinti di Nash. Il risultato non era certo un classico allestimento museale tutto puntato a rivalutare un dato momento storico, ma piuttosto la creazione soggettiva e intuitiva di una sensibilità trans-storica.
“I Am Become Death”, che ha inaugurato alla Kunsthalle di Basilea lo scorso gennaio, è un’odissea personale in cui l’artista intreccia insieme una manciata di storie diverse e le loro relative mitologie. Le fonti di ispirazione a cui attinge sono principalmente tre – il viaggio di Aby Warburg negli Stati Uniti per studiare gli Indiani Hopi; la famigerata mostra disseminata di ostacoli di Richard Morris tenutasi alla Tate Gallery nel 1971, che fu chiusa dopo soli cinque giorni per aver causato numerose ferite ai visitatori; e infine una serie di bizzarre fotografie messe all’asta su eBay da un veterano del Vietnam. Il cupo e tonante titolo deriva dalla Bhagavad Gita, poema sanscrito che a quanto pare il direttore del Manhattan Project J. Robert Oppenheimer ha citato dopo un test nucleare in New Mexico nel 1945.
Macuga è riuscita a far ricreare quattro degli oggetti/ostacoli della mostra di Morris, tra cui un massiccio piano inclinato in legno con strapiombo (di gran successo tra i bambini) e un grande tunnel in legno mozzato, tenuto fermo in modo incerto da alcune sacche di sabbia. Assieme alle sculture, erano esposti grandi fotografie e collage provenienti dall’archivio di Warburg, dall’album privato del veterano del Vietnam Tom Pripish e dalla macchina fotografica dell’artista. Le fotografie in bianco e nero scattate da Warburg agli Hopi, belle in modo ammaliante, erano accostate agli autoritratti, strani in un modo altrettanto ammaliante, di Tom Pripish, che si concedeva inspiegabili buffonerie come appendersi fuori da una balconata e posare con un serpente in bocca. La mostra era accompagnata da un documentario lungo circa un’ora che seguiva l’artista e l’antropologo visuale Julian Gastelo in un road trip attraverso l’America, da New York all’Arizona, sulle tracce di Warburg. Il materiale video utilizzato spaziava dal cantiere di ricostruzione delle Twin Towers, alle immagini televisive della guerra in Vietnam; da un’intervista con Pripish realizzata a Denver ai comizi elettorali di Obama, fino alla riserva indiana degli Hopi in Arizona. Vedendo il documentario sullo sfondo della mostra, emerge una narrazione sulla colonizzazione dell’immaginario collettivo attraverso il mito.
Attraverso la magia esercitata dai rituali Hopi sull’immaginazione di Warburg e attraverso la pericolosa e ormai mitica mostra di Morris, entra furtivamente in gioco una sorta di ‘destino manifesto’, che suggerisce una serie di riflessioni sul trauma storico e, inevitabilmente, sull’identità e sulla divulgazione culturale.
Ma se questa mostra ha rivelato una rarefazione del processo e dell’indagine di Macuga, il suo prossimo progetto a Whitechapel vedrà attuarsi una distillazione ancor più radicale del suo metodo in una pratica politicamente impegnata. Macuga si è assicurata il prestito dell’arazzo di Guernica da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di New York – quello coperto durante la dichiarazione di Colin Powell del 2003 sulla guerra in Iraq – e intende esporlo nello spazio espositivo di Whitechapel, dove il dipinto di Picasso fu esposto nel 1938: un singolo, drammatico gesto curatoriale per tempi altrettanto drammatici ma spesso troppo senza cura.

Chris Sharp è Paris Editor di Kaleidoscope.
Critico e curatore indipendente, vive e lavora a Parigi. Suoi contributi sono apparsi su “Frieze”, “Art Review” e “Flash Art”. Recentementeha curato una mostra personale di Alexander Gutke al Culturgest di Porto.