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Mousse Anno 4 Numero 19 giugno - agosto 2009



The Pier Conversation

Walead Beshty e Oliver Mosset





INDEX
Mousse 19


HARK! 08
IL TEMPO DELLA BIENNALE
Jennifer Allen

WALEAD BESHTY &
OLIVIER MOSSET 16
THE PIER CONVERSATION


JONATHAN HOROWITZ 23
AS TIM GUNN WOULD SAY
Alessandro Rabottini

SUSANNE KRIEMANN 26
THE PRESERVE OF THE EYE
Dieter Roelstraete

NAIRY BAGHRAMIAN 32
EXPLOSIVE INTERIORS
Dominic Eichler

EI ARAKAWA 37
FRANTIC
Anthony Huberman

JIMMY ROBERT 42
SYSTEM OF TOUCH
Stefania Palumbo

LOST AND FOUND 46
EMILIO PRINI
Hans Ulrich Obrist

FALKE PISANO 48
SPACE IN LANGUAGE
Vincenzo De Bellis

CURATOR’S CORNER 55
Andrea Viliani

LYCANTHROPIZE THE CRITICAL UNDER
THE FULL MOON OF CROSS-GENRES
Stéphanie Moisdon_Bruce Hanley

AMY GRANAT 58
I DO USE THE CAMERA… SOMETIMES
Gigiotto Del Vecchio

ALEANA EGAN 62
THE PORTRAIT OF AN ARTIST
Barbara Casavecchia

RINGIER ANNUAL REPORT 67
Daniel Bauman_Beatrix Ruf

OBRIST, BONAMI, HASEGAWA 70
MUSEUM STORIES
Francesco Garutti

ARTIST PROJECT 79
PHILIPPE DECRAUZAT

APICHATPONG WEERASETHAKUL 83
IMAGES ON FIRE
Andrea Lissoni

PORTFOLIO 89
DANIEL MCDONALD
BOHEMIAN MONSTERS
Jan Peter Hammer

BEYOND 98
THE SQUARING OF THE CIRCLE
Massimo De Carlo

NORA SCHULTZ 101
CONFISCATING
Kirsty Bell

LATIFA ECHAKHCH 104
NATURE MORTE
Milovan Farronato

INTRODUCING 108
MERIS ANGIOLETTI
Roberta Tenconi

CITY FOCUS 113
THE UNFOLDING PROCESS OF
AN URBAN BIG BANG
Ana Paula Cohen

SKELETONS IN THE CLOSET 119
PETER SAVILLE, IRONMONGER ROW
Ashley Heath

LOST IN VENICE 122
Francesca Pagliuca

LOST IN THE SUPERMARKET 127
Francesca Pagliuca

BOOK SHOP 134
Stefano Cernuschi

LONDON-MILANO 138
ROSALIND NASHASHIBI
FILM MAKES TIME
Michele Robecchi

PARIS-MILANO 142
KATINKA BOCK
SITE SENSITIVE
Francesca di Nardo

BERLIN-MILANO 145
CHRISTODOULOS PANAYIOTOU
ELOQUENT ABSENCE
Francesca Boenzi

NEW YORK-MILANO 148
CRIMP(ING) IMAGES
Cecilia Alemani

LOS ANGELES-MILANO 150
JEDEDIAH CAESAR
ONE OF THESE LANDSCAPES
IS NOT LIKE THE OTHER
Andrew Berardini
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Elisabeth Lebovici
n. 31 dicembre 2011-gennaio 2012

Geoffrey Farmer
Monika Szewczyk
n. 30 settembre-ottobre 2011

Art Society Feedback
Emily Pethick
n. 27 febbraio-marzo 2011


Olivier Mosset
installation view at DoArt gallery, Beijing, 2008
Courtesy: DoArt gallery, Beijing

Walead Beshty
Passages, 2009
Courtesy: the artist and LA> Photography © Fredrik Nilsen

Walead Beshty
Passages, 2009
Courtesy: the artist and LA> Photography © Fredrik Nilsen

Se pensate che Malibu possa essere teatro unicamente di set cinematografici, corse in surf e incendi devastanti, vi sbagliate. È anche il luogo ideale per alcune delle migliori conversazioni concettuali sui tranelli dell’arte pubblica, i limbi geopolitici, le costellazioni di polvere create dallo smog di Los Angeles e i monocromi capaci di zittire la gente supponente. Lo abbiamo verificato con Walead Beshty ed Oliver Mosset ...


WB: Penso che il tuo lavoro contraddica alcune convenzioni moderniste. Nella tua pittura c’è un forte materialismo, che ricorda figure come Malevich e Rodchenko, allo stesso tempo, c’è una relazione altrettanto forte, ma sottile, con il ready-made e l’appropriazione. E questo sembra estendersi al modo in cui lavori, dato che unisci la “tradizionale” pratica pittorica da studio a un’anonima o generica elaborazione di segni e a una produzione collettivista. Sin dagli esordi, sembri muoverti tra questi schemi, negoziandone i rapporti, ad esempio dipingendo incessantemente una forma generica, o mutando stile. Detto questo, mi chiedo se vedi il tuo lavoro come una riconciliazione di posizioni.

OM: In primo luogo, non vedo queste tradizioni come separate. Duchamp, Malevich e Mondrian hanno inventato l’arte moderna, e queste diverse opzioni – gli oggetti trovati, l’astrazione radicale – fanno parte dello stesso discorso. C’è una prassi tradizionale del dipingere in sé e per sé, e generalmente comincio da lì, ma poi mi costringo a metterne in discussione le premesse. In conclusione credo che un dipinto debba fungere da dipinto.

WB: Questa idea, “un dipinto che è semplicemente un dipinto” mi fa pensare a qualcosa che Thierry de Duve ha scritto riguardo al ready-made di Duchamp. Ha descritto il readymade come un lavoro ricavato unicamente dal suo nome, dal suo contesto, e la mia deduzione è che il ready-made consiste nell’accordo sociale sulla definizione di qualcosa come “opera d’arte”. In un certo senso, il ready-made rende questo accordo necessario per ogni opera esposta, e infine forza una riflessione su come la cultura valuti e definisca un oggetto artistico, e in questo consiste l’esperienza del lavoro, non in qualcosa d’inerente all’oggetto, ma a quello che lo circonda, la sua storia, i suoi valori.

OM: Questo è interessante perché i ready-made originali sono andati perduti, e molte persone hanno criticato Duchamp quando li ha riprodotti con Schwartz, ma ciò si è rivelato piuttosto lungimirante, perché ha enfatizzato quello che è successo al ready-made, cioè la sua reificazione. Questa scelta ha rivelato la comprensione, da parte di Duchamp, della trasformazione in atto, che ha poi integrato nel suo lavoro. Nella tradizione pittorica, anche Ryman ha avuto la stessa consapevolezza del contesto. Ha reso la monocromia un dipinto, ci ha fatto notare la superficie, ma non è tutto, ha esteso questa sensibilità ai supporti. Ci ha detto che l’allestimento è parte del quadro, e che il quadro è un oggetto. Quando guardi un dipinto, è sempre arte. A differenza del ready-made, non devi ricorrere a nessun gioco di parole per renderlo tale. La pittura è così, anche se non è di qualità, è arte. Un dipinto non deve necessariamente affermare di essere arte. Comporta una sorta di silenzio che trovo interessante.

WB: Ma questo ci riporta al solito problema che riguarda le opere d’arte quando il contesto è ambiguo, come ad esempio nella sfera pubblica.

OM: Forse dovremmo approfondire l’argomento, il tuo primo progetto pubblico non è stato il cartellone esposto al LAXART?

WB: Esatto. Ho sempre evitato tutto ciò che è pubblico. Lo spazio pubblico è ingannevole, principalmente perché la gente non accetta di essere coinvolta in un’esperienza artistica semplicemente camminando per strada. L’arte pubblica è un’imboscata.

OM: Sì, esatto, il problema è questo. Quando esponi in galleria, o in spazi privati, le persone sono libere di scegliere.

WB: Direi che ci sia un tacito accordo quando una persona varca la soglia di una galleria o di un museo, e la natura di questo accordo influenza le radici del mio pensiero. Per me l’arte pubblica è come giocare con una persona che non conosca le regole del gioco. È come lanciare una palla alle spalle di qualcuno e dirgli “prendila”. Non credo che questo genere di attacco frontale sia un buon metodo per coinvolgere lo spettatore.

OM: (ride) È anche vero che veniamo costantemente presi di mira dai cartelloni pubblicitari.

WB: Sì, e non voglio partecipare a quel genere di formula. Ho sempre avuto difficoltà a utilizzare lo spazio pubblico senza replicarne il metodo di comunicazione problematico su cui si basa. In altre parole, la sfida è lavorare in uno spazio pubblico senza personificare o accettare ciecamente le sue gerarchie implicite. Per me, il problema di fondo non riguarda il messaggio, ma le modalità di comunicazione, ed è lì che la generosità e la trasparenza sono importanti, ed è lì che si nascondono tutte le tensioni politiche: diffondere alcune asserzioni didattiche senza chiedersi se il loro contenuto non faccia altro che rinforzare il problema...

OM: Hai ragione. Ed è esattamente quello che mi sono chiesto guardando il tuo cartellone. Hai l’opportunità di elaborare un messaggio, e potresti semplicemente erigere una chiara asserzione politica. Ma questo vorrebbe dire accettare le regole della pubblicità... Quindi è solo una foto che ritrae la polvere?

WB: È la scansione di un pezzo di vetro che ho lasciato sul mio davanzale per un anno, quindi è principalmente smog. In un certo senso è un ritratto della città nel tempo, un’immagine della materia invisibile che galleggia perennemente su Los Angeles, la foschia arancione, iconica, della città.

OM: Vedendolo, non riesci neppure a capire cosa sia esattamente. Potrebbe essere la Via Lattea, e il tuo lavoro continuerebbe ad avere questa dimensione, un aspetto politico che è esplicito o chiaro solo ad una seconda occhiata, o dopo averne saputo di più. Puoi averne sentore anche quando lo vedi, senza saperne niente, ma quando diventa esplicito, l’opera cambia.

WB: Ma spero che non si fermi qui. Lo vedo come un modo per delucidare le tensioni tra la provenienza di qualcosa, il suo aspetto e il modo in cui è stato prodotto. È per questo che cerco di creare situazioni in cui la forma del lavoro sia dettata da un automatismo, al di fuori delle mie ragioni, come la polvere, le macchine a raggi X, o il FedEx. Penso che permetta al lavoro di andare oltre la rappresentazione, che è il punto in cui muoiono la maggior parte delle discussioni sull’arte e sulla politica. Ma, parlando del contesto, e in riferimento al tuo lavoro con il gruppo Radical Painting, mi chiedo cosa ti abbia fatto riconsiderare i monocromi. È stato il contesto americano?

OM: Quando ho iniziato a dipingere in Francia, il monocromo era definito dal lavoro di Yves Klein. Era inevitabile. Se facevi un dipinto di un solo colore, era un monocromo, ed era Yves Klein. A quel tempo conoscevamo Malevich, ma non sapevamo nulla di Rodchenko e del suo “ultimo dipinto”. Quindi i quadri monocromi erano Yves Klein e il movimento del Nuovo Realismo, e per me Klein non era neanche pittura, era più che altro un gesto. Il cerchio andava contro l’idea del monocromo, e da lì ho iniziato a dipingere strisce bianche su bianco e rosse su rosso. Questo mi ha fatto considerare l’idea di stendere semplicemente della pittura su una tela. Ma hai ragione, quando sono arrivato negli Stati Uniti, ho trovato chi lavorava con un solo colore, ma arrivandoci diversamente, e sembrava davvero possibile lavorarci senza cadere nei problemi del passato. È stato un bel cambiamento. Quando sono arrivato a New York nel ‘77, il tema dominante era il ritorno alla figura, il ritorno all’espressionismo, con artisti come Schnabel o Salle, i tedeschi e gli italiani. Quindi la pittura monocroma era anche una reazione.

WB: Il modo in cui ti rapporti con la storia radicalista della monocromia riguarda la sua comprensione nel contesto contemporaneo. È difficile sapere dove collocare esattamente i tuoi dipinti in relazione a quella storia, se tale storia sia appropriata, ed effettivamente si tratti di una discussione materialista sulla pittura. Questo è il modo in cui percepisco la tua accettazione dei materiali trovati, come la scelta di usare i dipinti scartati da Tom Lawson o il telaio circolare che Steven Parrino ti ha dato. Da un lato, contraddice una rigida ortodossia sulla produzione di un dipinto, e sul fatto che il dipinto, o la sua scala, sia una deliberata decisione dell’artista, permettendo a queste scelte di avere un elemento sociale, d’apertura e contingenza. Ma, dall’altro lato, è profondamente materialista e, in queste scelte, c’è un altro tipo di storia, che opera su un piano personale e sociale. Quindi ci sono una serie di controversie storiche, ma anche questi micro-contesti su quando e dove qualcosa sia stato fatto. In un certo senso, vengono tutte trattate come storie. E trovo che queste “storie” ci facciano notare che nessuno, da solo, può davvero spiegare l’oggetto che ha di fronte – o addirittura un qualunque oggetto – e che il lavoro ha quasi un infinito numero di storie che lo circondano, rendendo i dipinti i punti focali, e non la loro storia.

OM: Sono completamente d’accordo ma, nel tuo caso, credi che mescolare fotografie, sculture e proiezioni equivalga a una molteplicità di storie? Pensi che renda più chiaro il contesto specifico del lavoro?

WB: Non lo so. I singoli lavori sono importanti, ma la loro presentazione è ugualmente rilevante.

OM: Questo è vero per quanto riguarda la tua mostra al LAXART. Quando ti siedi e guardi le diapositive, l’intera mostra si dilata, diventando più complessa.

WB: Voglio riconoscere le fonti storiche da cui sono partito, ma allo stesso tempo non voglio che questa storia, queste convenzioni, oscurino il lavoro.

OM: Penso che si tratti di un processo affrontato da molti artisti: arrivano al confronto con l’ideologia dominante o il pensiero cui il proprio lavoro risponde e la gente usa questo pretesto per neutralizzare le opere. A volte semplicemente comprandole (ride).

WB: Gli spettatori troveranno il modo più semplice per avventurarvisi, usando il primo argomento che hanno a disposizione per affrontare ciò che hanno di fronte. È questo il motivo per cui è necessario che ci sia qualcosa che crei attrito rispetto alle loro supposizioni, qualcosa che rallenti il tutto. Penso che lo slide show abbia rallentato le cose, lavorando sul tempo in una mostra che si basava sull’essere immediatamente presente nello spazio.

OM: Esattamente. E penso che ci sia sempre qualcosa di interessante in un lavoro che non comprendi immediatamente. Se sai subito da dove viene, perde qualità. Questo è l’aspetto interessante delle opere contemporanee più radicali: lo spettatore cercherà di ridurle a qualcosa, mentre l’opera tenterà di fuggire. Questa è la qualità del lavoro, l’andirivieni. Questo è ciò che cerco di fare con la pittura. Se potessi dipingere semplicemente un quadro che dica “stai zitto”, ne sarei felice. Il nuovo materiale che ho usato ha questa qualità.

WB: Ci pensavo nel guardare i tondi. C’è una texture che è impossibile da riprodurre, e non è gestuale, ma tu ci hai comunque lavorato, quindi è – e allo stesso tempo non è – una firma convenzionale. E ancora, lo sguardo che rende lo spettatore consapevole del processo creativo, della sua autorialità, ma la cosa divertente è che la rifinitura presente sulla superficie è industriale, ed è seducente tanto quanto una pennellata. Secondo me, rende l’idea che la produzione industriale non sia qualcosa di uniforme o generico. Questi lavori sono fortemente connessi al luogo in cui sono stati creati, una carrozzeria di Tucson. Hai esposto la serie al Whitney, vero?

OM: Esatto. In quella mostra ci sono anche le foto dell’ambasciata e le scatole FedEx?

WB: Sì, le “Travel Pictures” – si tratta delle foto dell’ambasciata irachena abbandonata nella DDR. Quel lavoro è stato un punto di svolta per me. Quando le ho scattate, nel 2005, mi sono sentito come se ci fossero poche opzioni per i fotografi, quindi stavo cercando d’immaginare un altro modo che mi permettesse di continuare a scattare senza scivolare in quelle che pensavo fossero vecchie convenzioni implicite nel mezzo.

OM: I colori erano offuscati dalla nebbia?

WB: La nebbia è data dalla macchina a raggi X nella quale ho fatto passare la pellicola. E l’ambasciata, in effetti, è solo un vecchio palazzo di uffici, ma la cosa che mi convinceva di più era il contesto, il fatto che si trovasse in un vuoto legislativo internazionale, a causa del modo in cui era stata redatta la Convenzione di Vienna. Si trattava essenzialmente di un tratto di terra in un limbo geo-politico, una zona senza alcun tipo di sovranità. In questo frangente, i raggi X avevano un senso, erano sia un modo per far compiere alla pellicola l’atto del viaggio, sia un modo per segnalare le frontiere internazionali, stabilite dalle stesse leggi internazionali che ponevano l’ambasciata in una situazione tanto particolare.

OM: Sicuramente per te tutto ciò è evidente, ma per me è difficile dirlo. La tua percezione cambia quando tutto ciò viene esplicitato.

WB: Non ci avevo pensato, ma sì, cambia, o meglio, lo spettatore cambia. Per me è come vederlo in due modi, con e senza storia. Non devi avere una storia, ma a volte le persone pensano che sia problematica la presenza di un aspetto formalmente seducente. Per me questo è un problema complesso; non riguarda solo l’estetica, ma è anche la capacità – la capacità di chiunque – di usare schemi repressivi o espansivi d’interpretazione. Per me è questo che il lavoro induce, questa possibilità.

OM: Anche il pavimento specchiato fatto a pezzi possiede la medesima tensione.

WB: Il traffico dei visitatori, che il lavoro estende dallo spazio espositivo agli uffici, agli ingressi, è importante. Il suo aspetto non può essere isolato dalle circostanze, si riflettono a vicenda, sia letteralmente sia in senso figurativo.

OM. E ovviamente uno specchio è un modo alla Baudrillard di guardare le cose, e cioè il fatto che l’arte sia un tipo di illusione, e lo sia completamente. Ma sei consapevole che è uno specchio, e quindi ha anche una specifica proprietà materica.

WB: È solo quello che è, uno specchio. Non volevo dichiarare niente di più. Qualcuno mi ha chiesto quale fosse la chiave politica del lavoro. Ma il modo in cui la politica entra nell’arte è spesso assolutamente improduttivo, le persone si accusano reciprocamente d’ipocrisia, esagerando il ruolo del mercato, trasformandolo in un esotico mostro espansionistico, e non in un gruppo di persone che comunicano tramite uno scambio. Pensare al museo come ad una struttura repressiva non è produttivo, generalizzare rende tutto opinabile... tutto è negoziazione, tutto è compromesso. Ogni scambio necessita un’analisi specifica, i termini non sono sempre gli stessi, ci sono aspetti positivi e negativi in ogni situazione.

OM: Ho sempre pensato che un museo non sia un campo di concentramento, anche se ha le guardie. Dobbiamo anche ricordare che, in quanto artisti, viviamo una vita privilegiata. Ci sono tante persone che non hanno tempo di pensare all’arte, perché hanno altri problemi...