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Lettera internazionale Anno 26 Numero 103 maggio 2010



La città. Qualche isolato

Eliot Weinberger



Rivista trimestrale europea


Lettera Internazionale n. 103 – sommario


Un Paese sbagliato

2 Lotteria Italia..., Ascanio Celestini
4 L’ingiusto radicale, conversazione tra Claudio Magris e Gustavo Zagrebelsky
9 La dis-Unità d’Italia, conversazione tra Nerio Nesi, Gianni Oliva, Giorgio Ruffolo e Massimo L. Salvadori

Potere e differenze
15 La politica del sacro, Raoul Schrott
21 Religione e globalizzazione, Régis Debray
24 Secolarismo e cosmopolitismo, Étienne Balibar
31 I cinque universali. A proposito del velo islamico, Jacques Rancière
32 Donne in attesa… di un mondo nuovo, intervista a Gayatri Chakravorty Spivak, di Goldbarg Bashi
36 Religione, femminismo e politica, Nawal El Saadawi
38 Rappresentare la differenza, Lorella Cedroni

La città
42 La città. Qualche isolato, Eliot Weinberger
44 Il potere della geografia, intervista a Franco Farinelli, di Giuliano Battiston
48 Città e natura. Urbs, metropoli, territori, Dario Gentili
51 Il diritto alla città, David Harvey
57 Il palinsesto dello spazio europeo, intervista a Stefano Boeri, di Thierry Baudouin e Michèle Collin

I Libri e gli Eventi
59 A cura di Francesco M. Biscione, Davide Cadeddu, Francesca Lazzarini, Federico Tirocini

Gli artisti di questo numero
61 A cura di Aldo Iori
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Ryuji Miyamoto
Kobe Ekimae Building, Chuo-ku, 1995
stampa alla gelatina d'argento, cm 61x51

Ryuji Miyamoto
Meiji Life Insurance Building San-no-miya, Chuo-ku, 1995
stampa alla gelatina d'argento, cm 51x61

Ryuji Miyamoto
Nagata-ku, 1995
stampa alla gelatina d'argento, cm 51 x 61

In principio (o in un principio) era il villaggio. I santal, un popolo indigeno che vive nelle foreste del Bihar, in India, hanno una canzone composta da una sola strofa:

Sugli alberi gli uccelli cantano
Nel villaggio le ragazze cantano.

Un’immagine di tranquillità indisturbata – umanità e natura in armonia cosmica. Le ragazze cantano e gli uccelli cantano; o meglio: si cantano l’un l’altro.

In principio (o in un principio), la città non era un centro mercantile e neppure una fortezza. La città fu creata da un potere autoritario come espressione della potenza cosmica e costruita a immagine del cosmo stesso. La città era l’ombelico del mondo, o l’asse del mondo, perfettamente allineato (o, in America Centrale, deliberatamente un po’ disallineato, perché gli esseri umani sono imperfetti) verso i quattro punti cardinali. Al centro c’era una struttura elevata – torre, ziqqurat, tempio, piattaforma, piramide, palazzo – che serviva ad avvicinare gli uomini agli dèi, in modo che questi potessero sentire meglio le preghiere degli uomini e gli uomini potessero sentire meglio gli ordini divini. Proprio sotto la città ce n’era un’altra, gli inferi, la città dei morti.
Ogni città babilonese era modellata su una costellazione: Ninive sull’Orsa Maggiore, Sippara sul Cancro, Assur su Arturo, Babilonia su Balena-Ariete. In Cina, Ch’ang-an, la capitale degli han, aveva la forma del Grande e del Piccolo Carro e il palazzo imperiale occupava la posizione della Stella Polare; la disposizione degli edifici di Hsien-yang corrispondeva invece a quella delle stelle nelle costellazioni di Cassiopea e di Pegaso. La prima capitale degli khmer, Yasodharapura, era di per sé un calendario, formato da 108 torri che simboleggiavano le quattro fasi lunari e le 27 case lunari, e da altre 60 torri, disposte in gruppi di dodici, che rappresentavano il ciclo di Giove, pari a dodici anni solari, con il quale gli khmer misuravano, in multipli di cinque, le ere storiche. La città non era il macrocosmo di un villaggio ma il microcosmo dell’universo.
Le città non erano mai nuove. In Mesopotamia, come in Egitto o in Cina, per giustificare l’edificazione di una città, il sovrano dichiarava di averne copiato il progetto da quelli tramandati dagli antenati. Nel V secolo a. C., una poesia contenuta nella prima antologia cinese, lo Shih Ching (il Libro delle odi o dei canti), tesse le lodi del re Wen che seicento anni prima aveva costruito la città di Feng: «Innalzò Feng secondo l’antica pianta./ Non ascoltò i propri desideri,/ ma seguì devotamente i precetti dei morti». Nel tempo ciclico, la creazione è sempre ricreazione. La città, per noi modello di novità e di modernità, era per loro modello di antichità; la città, per noi modello di cambiamento, era per loro modello di fissità; non rispecchiava il fervore della vita, ma la potenza della morte. Negli anni Trenta, Thomas Wolfe scrisse un racconto con un titolo indimenticabile, Solo i morti conoscono Brooklyn.

Le nostre città sono piene di storie. Le città degli antichi erano storie in sé. Cuzco, la capitale degli inca, aveva la forma di un giaguaro ed era attraversata da una rete di linee invisibili che collegavano tra loro segnali naturali o artificiali (huacas), tracciando così altrettante “vie dei canti”: un espediente mnemonico che permetteva agli inca di mantenere vivo il ricordo dei miti e delle storie del loro popolo. Le 108 torri di Yasodharapura erano disposte intorno alla torre centrale che rappresentava il monte Meru, la dimora degli dèi, in modo tale che dal centro di ogni lato se ne potessero scorgere solo 33, come le 33 case degli dèi del paradiso di Indra. Solo tre delle cinque torri più alte erano visibili da ciascun punto cardinale: tre come le cime del monte Meru, le tre città celesti di Visnu, Brama e Shiva. La città era la mappa di una narrazione. Le città che non temevano nemici terreni avevano una struttura a griglia; quelle che sorgevano in territori contesi erano labirinti di vicoli e di piazze, in cui gli invasori si sarebbero perduti e sarebbero stati sconfitti. A griglia o a labirinto che fossero, tutte le città erano circondate da mura, perché erano fortezze del potere cosmico in lotta contro altri poteri: i demoni, gli dèi malvagi o gli spiriti famelici dei morti. La cinta muraria era magica, ancor prima che militare; indicava un luogo di ordine nel caos del mondo. Le genealogie reali avevano inizio dal momento della costruzione delle mura – instaurazione di un nuovo ordine. Periodicamente si celebravano processioni intorno alle mura, soprattutto in tempi di calamità naturali, siccità o di epidemie: riaffermazione condivisa di chi siamo, di dove siamo e di qual è il nostro posto nel mondo.
Ogni città comprendeva diverse zone, nettamente distinte tra loro: la città sacra, i mercati (disposti a seconda del tipo di merci e di servizi offerti), i quartieri residenziali (per i ricchi, i poveri, i mercanti o riservati ai diversi clan), i quartieri dei piaceri e così via. Le città erano agglomerati di villaggi; erano come villaggi nella quotidianità dei rapporti familiari e locali, ma diversi dai villaggi nella divisione in classi o mestieri e nella subordinazione a un potere superiore. Le città erano gerarchiche, i villaggi, no. La metafora migliore della città antica è il grattacielo: scatole orizzontali nello spazio reale, ma metaforicamente impilate l’una sull’altra in base al rango sociale, fino a raggiungere le divinità celesti – millenni prima della costruzione del primo grattacielo.

La città antica era l’emblema dell’ordine nel caos del mondo e soprattutto nel caos pericoloso del mondo naturale, con le sue foreste oscure, i suoi selvaggi, le sue belve feroci e i suoi spettri famelici. Con la nascita simultanea e non casuale del Romanticismo e della città industriale, l’immagine si rovescia: il mondo naturale diventa il regno della serenità e dell’ordine e la città un pandemonio. La letteratura della città – quasi, ma non tutta, la letteratura moderna – è panoramica, a volte celebrativa ma più spesso spaventata: il frastuono di mille voci che parlano lingue o dialetti diversi, un conglomerato di frammenti compressi. La sua espressione è il collage, la sua scienza è che gli opposti si attraggono e la sua logica è che ogni affermazione e il suo contrario sono egualmente veri.
La città moderna, come si dice spesso, si fonda sull’anonimato. La sua dea protettrice è la passante di Baudelaire, il suo atto di devozione ciò che Walter Benjamin chiamava la quintessenza dell’esperienza urbana: «amore all’ultimo sguardo». Il suo eroe mitico è il detective, l’uomo che deve scoprire il nome dell’anonimo che ha commesso un crimine.
Ma la città moderna è, o era, come si sente dire meno spesso, un insieme di vicinati. Nel vicinato, non tutti i nomi sono conosciuti, ma le facce sono familiari. Lo stereotipo dell’anonimato della città moderna si incontra nelle zone commerciali, sui mezzi di trasporto o nel vicinato diverso di qualcun altro. Un tempo, anche il modo di parlare era strettamente locale: nella mia città, New York, i vicinati – a eccezione di quelli più poveri – tendevano a organizzarsi più per etnia che per censo. Quando ero bambino, ogni vicinato aveva un suo accento particolare, ancora riconoscibile. La diffusione dell’aria condizionata ha cancellato quel senso di comunità; d’estate, ormai, le strade sono semideserte e la gente rimane tappata in casa a vedere la televisione, il più formidabile strumento di omologazione della lingua.
La letteratura del vicinato era la vignetta, una storia o un’immagine scelta tra milioni di possibili storie o immagini (oppure, nel caso di autori come Dos Passos, Bely, Döblin o altri, un panorama composto dalla somma di molte vignette). Il poeta coglie un dettaglio, così come i poeti lirici hanno sempre fatto. Il romanziere narra la storia di pochi personaggi, così come la narrativa ha sempre fatto. I destini di quei pochi personaggi possono anche essere insensati, crudeli, non più determinati dagli dèi, ma ciò non toglie che quei destini restino conclusioni (o non conclusioni) narrative. Se la città è caos, il vicinato, dove l’esistenza può essere felice o miserabile, ha un suo ordine.

La letteratura urbana era qualcosa di nuovo, sia nella forma che nel contenuto: la modernità della letteratura moderna e delle arti visive del Novecento. La letteratura del vicinato era l’antico all’interno di quella modernità. Ma oggi è successo qualcosa alle città, soprattutto a quelle del Terzo Mondo, dove i migranti provenienti dalle campagne hanno trasformato molte metropoli in megalopoli. Con l’eccezione dei due estremi della ricchezza e della povertà, il vicinato – il senso del vicinato – è svanito in un’infinita ripetizione di isolati grigi, grandi e piccoli. Oggi molte delle grandi città non si trovano in alcun luogo. Si abita in un posto qualsiasi, scelto a caso tra milioni di altri. Le megalopoli sono uguali in tutto il mondo e chi ha nostalgia della comunità la ricerca nelle organizzazioni religiose o politiche o nei network del cyberspazio.
La letteratura del vicinato sopravvive nei pochi quartieri rimasti – gli attici di lusso o le bidonville. Ma nascerà una letteratura delle megalopoli? Già il tardo modernismo, il cosiddetto postmoderno, ha indicato la via: il romanzo, povero di personaggi memorabili o di storie avvincenti, ma ricco di pirotecnici virtuosismi verbali e sovraccarico di informazioni; la poesia, che è una sequenza di ironie sconnesse e di pastiches fatti di una lingua di seconda mano. Una letteratura con tutti e con nessuno, una letteratura in cui – come si dice per chi è un po’ svitato – «le luci sono accese ma in casa non c’è nessuno». Temo che quelli che, come noi, sono cresciuti nella città moderna e sono stati allevati nel modernismo, non arriveranno mai a capirla.
Campagne che si svuotano; città che sono diventate un concentrato di periferie, dove la vita scorre accanto all’autostrada o al parcheggio; città che sono parchi tematici dedicati alle loro glorie passate, e con abitanti che fanno da ciceroni; città naufragate di fabbriche dismesse; città robot delle “nuove zone economiche”; quelle tre o quattro o cinque città che ancora conservano la loro vivacità, dove si respira un cosmopolitismo fuori moda volto al nuovo; e poi, la megalopoli. In questo secolo, gran parte dell’umanità nelle megalopoli andrà alla deriva o, per l’esattezza, rimarrà intrappolata nel suo traffico. Resta da vedere in che modo l’umanità riuscirà a reinventare se stessa nell’ambiente meno umano tra quelli che ha inventato finora.

Traduzione di Stefano Salpietro
© Per l’edizione italiana © Lettera Internazionale
© Le immagini di Ryuji Miyamoto sono gentilmente concesse dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena


Eliot Weinberger, saggista, scrittore e traduttore statunitense, vive e lavora a New York. Sue sono le traduzioni in lingua inglese di Octavio Paz. Tra le sue opere più recenti: Oranges & Peanuts for Sale (New Directions, 2009); An Elemental Thing (New Directions, 2007); Muhammad (Verso, 2006); “What I heard about Iraq” (London Review of Books, 3 febbraio 2005 e 27 dicembre 2005); 9/12: New York After (Prickly Paradigm Press, 2003). I suoi interventi più recenti su L.I. sono: “Mandei”, n. 91, 2007; “La leggenda di Maometto”, n. 81, 2004; “L’America di Bush: una lettera da New York”, n. 73/74, 2002; “Un colpo al cuore della democrazia americana”, n. 68, 2001.