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Nero Anno 7 Numero 23 primavera-estate 2010



Gordon

Giorgio Andreotta Calò

Un confronto tra un giovane artista e un artista del passato



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Cover by Collier Schorr

Come abbiamo fatto negli scorsi numeri, continuiamo ad invitare un giovane artista a confrontarsi con un artista del passato al quale, per diverse ragioni, è legato. Per questa occasione abbiamo chiesto a Giorgio Andreotta Calò di scrivere un testo su Gordon Matta-Clark.

Vorrei parlare del presente, di ciò che possiamo vivere ed esperire.
Vorrei farlo parlando di un’artista che non c’è più. Morto giovane.
Di un’opera stessa, che sostanzialmente non è più presente.
Dopo la lettura qualcuno potrebbe essere spinto a cercarne le tracce come ho fatto anch’io, ripetendo per due anni ossessivamente una metodologia di lavoro.
Si può parlarne, avvicinarsi il più possibile nel tentativo di trasmetterne il senso. Analizzarla. Ma in ogni caso bisogna rassegnarsi di fronte all’impossibilità di coglierla completamente.
Questo forse succede sempre di fronte ad un capolavoro. Ma in questo caso particolare non c’è data nemmeno la possibilità di esperirlo.

Gordon Matta-Clark muore il 27 agosto 1978.
Aveva 35 anni.
Nel 1968 consegue la laurea in architettura all’università di Cornell, NY e nello stesso anno realizza anche la sua prima opera.
Un ponte di corde sospeso su un precipizio.
Cogliere il suo lavoro è un po’ come attraversare quel ponte sospeso.

In soli dieci anni di attività, fino al 1978, ha rivoluzionato il corso della storia dell’arte.
Ha attraversato l’orizzonte artistico contemporaneo come una meteora, lasciando dietro di sé una scia di conseguenze che rappresentano l’inizio di un nuovo approccio nei confronti della società urbana contemporanea.

La sua attività è volta alla trasformazione della sostanza, alla sua manipolazione, un principio proprio dell’alchimia, la base teorico filosofica su cui si fonda spiritualmente la sua opera. E lui era un’alchimista.
Lo è stato nel senso più intimo, arrivando a trasformare se stesso insieme alla materia trattata. Puro spirito.
In una parabola perfetta attua un connubio inscindibile tra arte e vita, e soccombe paradossalmente allo stesso destino dei suoi edifici, andati distrutti subito dopo il suo intervento, con una morte prematura.
Ciononostante questo avvenimento sembra averlo portato in una sfera incorruttibile, ciò a cui aspirano gli stessi alchimisti, e all’immortalità, per la memoria che se ne conserva come mito e per l’eredità che ha lasciato all’arte contemporanea.

Partendo da esperimenti nel suo studio di Chrystie Street, dalle coltivazioni di batteri e alghe, dal brodo di Agar, giunge progressivamente a estendere la manipolazione della sostanza allo spazio stesso, trattando l’intero edificio come materiale di trasformazione.
Al 112 di Greene Street indaga la possibilità di liberare l’energia racchiusa nella forma architettonica, aprendo lo spazio attraverso la sottrazione di elementi strutturali, porzioni di pareti e pavimento di altri edifici abbandonati della periferia di New York. Giunge ad estrapolare la colonna vertebrale dell’edificio, inteso come spazio intermedio, creando il vuoto, lo spazio negativo, per la sottrazione di volume e aprendo un varco all’attraversamento visivo e fisico in senso verticale, congiungendo idealmente i due opposti, le viscere del sottosuolo e il cielo.

Come l’arte è “inutile”, il funzionalismo insito nelle teorie architettoniche degli anni ‘70 viene sovvertito.

Se l’edificio è parte integrante e manifestazione di un disegno politico in senso etimologico, la sua ricerca è focalizzata su concetto onnipresente all’interno della società urbanizzata, quello di proprietà privata. Questo fondamento è contestato e sovvertito con le reali eliminazioni di limiti strutturali e l’apertura di spazi di intimità domestica. Si tratta di una critica ad un sistema che, attraverso una pianificazione urbana che crea compartimenti in cui le esistenze delle persone possano incasellarsi, mette in atto una politica fortemente repressiva.

Recuperarlo dall’abbandono poi significa restituirlo alla collettività, in un processo che tende alla realizzazione di una nuova società urbana.

Il mio interesse, come artista, nei confronti di Matta-Clark non si riduceva solo alla fascinazione. O magari questo era solo il punto di partenza. Da una folgorazione segue un profondo desiderio di comprensione ed un senso di frustrazione e mancanza. L’impossibilità di attraversare quegli spazi e di vivere e cogliere l’esperienza del lavoro.

Esiste un’ampia documentazione dei suoi interventi, scritti e cataloghi delle retrospettive a lui dedicate. Parte del processo creativo è filmato in pellicole 16 e 35 mm.
Frammenti di edificio tagliati ora acquistano la dimensione della rovina archeologica, la memoria è nei racconti di chi lo ha conosciuto.
Gianni Pettena, artista e architetto della stessa generazione, lo aveva conosciuto a NY.
Nessuno dei due architetti era interessato all’architettura nella sua espressione formale accademica. Per esprimere quest’idea, Gianni Pettena userà il termine Anarchitetto titolo del suo saggio del ’71, arrivando poi ad intervenire sul manufatto architettonico con un gesto naturale, congelandolo. (Ice House II, 1972).
Matta-Clark fonda nel 1973 il gruppo Anarchitecture, con l’intento di proporre un approccio anti-funzionalista nei confronti del costruito e dell’uso dello spazio.
In Splitting la casa viene spaccata in due aprendo l’intimità dello spazio domestico ad una nuova dimensione spaziale.
Entrambi gli interventi sono scomparsi, regrediti, con lo scioglimento del ghiaccio e con la demolizione.
Esiste una documentazione fotografica.

È ben chiaro come la fotografia, nell’uso che ne è stato fatto da Matta-Clark, diventa un sistema narrativo soggetto a tutte le variazioni. Questo significa che fotografando lo spazio decostruito, rompendo lo schema classico ed iconico dell’inquadratura e attuando una visione dinamica dell’insieme, fotografando in movimento, egli cercava di suggerire la vertigine che il pubblico provava all’interno di questo spazio, attraversandolo. Lo spazio non è più immortalato ma dinamico.
C’è però un aspetto fondamentale che l’intervento scaturisce e l’immagine non può documentare.
La creazione di uno spazio psicologico.

Il senso di vertigine, la paura del vuoto, l’instabilità, non è restituibile nella visione documentativa, per quanto sia già rivoluzionaria concepirla in questi termini.
Se non ti trovi nel luogo fisico, e non lo attraversi fisicamente, non avrai la possibilità di coglierne tutte le implicazioni.

In ultima analisi, l’esperienza, l’attraversamento, la presenza del pubblico, attivano l’opera a tutti I livelli.

(…) Un oggetto che osserviamo, si converte a sua volta in un belvedere quando lo visitiamo, in un momento si tratta di un oggetto esteso e al tempo stesso ancorato alla sua base, a quella Parigi che lo stava osservando. (Roland Barthes a proposito della Tour Eiffel)

Conical Intersect (1975) è un intervento realizzato in occasione della biennale di Parigi nel 1975 in un edificio del 1700 nel quartiere di Les Halles, che al momento era il cantiere in costruzione del nuovo distretto parigino e del Centre Pompidou di Renzo Piano. Il nuovo edificio del Pompidou sorge in asse con la Tour Eiffel. L’edificio su cui Gordon andò ad operare, a ridosso del Pompidou, rappresentava invece una sorta di interruzione visiva e al tempo stesso poteva trasformarsi nel mezzo attraverso cui rivelare questa corrispondenza. Per questo andò a sezionare un tronco di cono che perforava l’edificio dalla facciata al tetto, la cui asse centrale formasse con la strada un angolo di 45gradi. Creava così all’interno dell’edificio una cavità a centri concentrici che otticamente funzionava come una sorta di periscopio. In questo modo, dalla strada si poteva vedere l’interno dell’edificio scultoreo di Matta-Clark, e attraverso esso, come attraverso il tempo storico, la struttura contemporanea del Centre Pompidou.
Si tratta di un antimonumento che allude tanto alla distruzione del vecchio quartiere quanto all’annullamento di qualsiasi continuità reale tra la Parigi vecchia e nuova. Al tempo stesso la forma creata allude ai due monumenti in asse: torre Eiffel nello sviluppo verticale conico e il Centre Pompidou nella strutturazione funzionalista dei grandi tubi lasciati scoperti.

L’ edificio fu distrutto poco tempo dopo.

Com’è possibile esperire uno spazio che non esiste più?
Puoi solo ricreandolo.
Ripetere letteralmente, riscrivere, ricopiare per assimilare un’esperienza.
Assolutamente l’unico modo.
Questo e nessun altro può essere l’approccio analitico di un artista verso un altro. Questa l’unica possibilità per assimilare un’esperienza che non è possibile trovare presente. Puoi e devi ricostruirla.
Ciò che viene vissuto in prima persona non è trasferibile ad altri nel senso più profondo dell’emozione. In questo senso la documentazione del lavoro diventa un mezzo speculativo che non può sostituirsi alla realtà.
E in ultima analisi è in questo che risiede spesso la bellezza autentica e la fragilità dell’arte del presente.

Giorgio Andreotta Calò è un artista nato a Venezia nel 1979 ed attualmente in residenza presso la Rijksakademie di Amsterdam. Parte del suo lavoro è legato ad azioni solitarie, sculture ed interventi vissuti in prima persona di cui lascia allo spettatore solo una traccia su cui costruire una diversa memoria.