Viatico (2007-2010) Anno XIV Numero 57 maggio-giugno 2010
La ricerca di Pierluigi Pusole
Nel corso degli anni la ricerca di Pierluigi Pusole, pur conoscendo momenti diversi, è sempre rimasta fedele allo statuto della pittura: non vi è stata alcuna battuta d’arresto né la benché minima esitazione da parte dell’artista nel ribadire puntualmente il suo essere pittore.
Per chi, come il sottoscritto, frequenta il mondo dell’arte da circa un ventennio, i quadri di Pusole sono un punto di riferimento importante, direi ineludibile, per comprendere le frontiere del medium pittorico e le sue infinite potenzialità. A prescindere da una impressionante riconoscibilità – e già questo ci dice molto-, quello che più colpisce dell’artista torinese è la sua inesauribile capacità di rinnovamento e allo stesso tempo la coerenza e la continuità della sua parabola artistica.
La sperimentazione febbrile della materia pittorica ha trovato in questi anni sempre modalità nuove e inaspettate per esprimere la medesima tensione espressiva, orientando di volta in volta il registro pittorico in direzioni diverse ma sempre parallele e comunque riconducibili alla grande tradizione dell’arte italiana.
Di qui, forse, l’eterno oscillare tra astrattismo e figurativo, tra espressione e concetto, tra natura e cultura, che possiamo interpretare come prodotto di una processualità basata su un sostanziale dualismo, sull’ adozione del metodo dialettico in cui proprio la contrapposizione degli opposti genera il linguaggio e articola il pensiero.
Tuttavia, oggi questo modus operandi rivela un rigore quasi scientifico, come se l’artista fosse ormai giunto a svelarci la sua ipotesi teorica; come lui stesso asserisce: “una visionarietà comunque legata ad una griglia teorica”.
Il paradigma pittorico di Pusole, dunque, pare muoversi da una provocazione ricca di echi letterari, giacché anche questa mostra rientra nel più ampio progetto “Io sono Dio” che immediatamente ci suggerisce la volontà da parte dell’artista di riplasmare il mondo secondo una visione squisitamente personale. E proprio attraverso una prospettiva visionaria ed “altra” che l’artista introduce l’elemento scardinante nella composizione pittorica che, si badi bene, non assume mai un carattere simbolico, piuttosto sembra alludere ad una “differente” quanto misteriosa dimensione. Se, infatti, la natura mantiene integralmente i suoi caratteri perfettamente riconoscibili, è piuttosto la figura umana ad infrangere le regole prospettiche e le proporzioni. Non a caso, il verde che bene si adatta alla rappresentazione del paesaggio, viceversa assume aspetti insoliti ed estranianti nella misura in cui viene utilizzato per la figura, altro evidente segnacolo di quella particolarissima visionarietà a cui abbiamo già accennato. Qui, l’uomo, in una prospettiva neo-creazionista, viene appunto riplasmato a partire dall’attività demiurgica dell’artista, secondo una logica che risponde ad una precisa ipotesi teorica, nonché alla ridefinizione della pittura e delle sue regole dal punto di vista della struttura.
A ben vedere, già il formato 70x100 insieme all’utilizzo del dittico che può moltiplicarsi per dare vita ad una costruzione modulare ad infinitum, ci informa dei presupposti epistemologici da cui parte l’artista, così come la rappresentazione dei tessuti cellulari che costituiscono l’elemento primo della “struttura pittorica”. Appare, dunque, evidente che la volontà di modificare il reale non presta il fianco ad uno sconvolgimento totale, piuttosto opera secondo regole precise. D’altronde, anche dal punto di vista cromatico assistiamo ad una rigorosa codificazione del colore che assume il significato di un vero e proprio alfabeto attraverso cui si snoda tutto il discorso.
Tuttavia, i due registri, quello figurativo e quello astratto, rimangono rigorosamente distinti senza dare adito a improbabili quanto abusate ibridazioni o commistioni che minerebbero alle fondamenta l’intera impalcatura teorica. Come già detto, tutto prende le mosse da, per così dire: un “dualismo ontologico”, dove è proprio la dialettica degli opposti a scatenare il processo creativo della materia che diversamente si annichilirebbe. Dualismo questo che, è utile sottolinearlo, trova i suoi più remoti e illustri antecedenti nelle grandi filosofie dell’antichità: si pensi ad Eraclito, solo per fare un esempio occidentale, ma tale modello è anche alla base del Tao estremo-orientale, dei più antichi miti della creazione medio-orientali dove tutto ha origine dalla contrapposizione di acqua dolce e acqua salata, senza tralasciare la grande tradizione ermetica tutta imperniata sulla dicotomie: sole-luna, maschile-femminile, giorno-notte, orizzontale-verticale, e così via.
Ebbene, tornando all’opera di Pierluigi Pusole, appare evidente la chiarezza dei suoi intenti così come gli esiti del suo operare che, non è retorico ripeterlo, si inseriscono perfettamente in una tradizione con il preciso obiettivo di riformulare la domanda ontologica sull’essenza delle cose proprio a partire dalla loro intrinseca duplicità .
Forse qui, più che altrove, è possibile riconoscere il talento dell’artista torinese, il suo piglio speculativo che dà forma concreta alla complessità del reale senza trascurare di indagarne l’arché, come dicevano i presocratici. Sembra quasi di rivivere quella splendida quanto illuminate metafora de “Il filosofo con il martello” ovvero, ritornando al titolo di questo breve scritto, de “Il Pittore demiurgo”.