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Millepiani/Urban Anno 2010 Numero 2 2010



Tre alfabeti o l'urbanista postmoderno

Leonie Sandercock





Sommario mille piani/urban 2

premessa 5

ANALISI

Leonie Sandercock
Tre alfabeti o l’urbanista postmoderno
9

Mike Davis
Capitalismo contro ecologia 15

Tiziana Villani
Decrescita e spazi urbani 25

Ubaldo Fadini
Per una pragmatica dell’urbano:
la filosofia della “città” 35

LINEE DI RICERCA

Enzo Scandurra
Periferie 51

Claudia Mattogno
Centri e periferie,
città e paesaggi 65

Corrado Marcetti
Nuove baraccopoli occidentali 81

Alberta Solarino
Annalisa Marinelli
Creatività periferiche 91

ESPRESSIONI URBANE

Gedeminas Urbonas
Nomeda Urbonas
Pro-test Lab 111

Tiziana Villani
Connivenze Percorsi visivi di Sabine Reiff 121

recensioni & segnalazioni 133


Premessa
Il grande processo di trasformazione degli ultimi decenni ha incontrato nella crisi finanziaria un punto di svolta incontrovertibile. I territori, soprattutto i territori urbani, costituiscono la cartina tornasole, che ci permette di cogliere la natura di questi processi, spesso accelerati e violenti.
In questo volume i contributi proposti partono da questa considerazione, non limitandosi a fotografare lo stato delle cose, ma muovendosi in modo progettuale.
“Urban” intende infatti promuovere un atteggiamento propositivo e non puramente analitico, per questo motivo due temi sono al centro di questa riflessione: la decrescita e la trasformazione delle periferie, vero volto dell’esplosione urbana in tutte le sue declinazioni, economiche, sociali, culturali.
La decrescita non è qui intesa come modello pauperista di sottrazione, ma come orizzonte di un nuovo modello, che incontra nell’ecologia politica e nelle tecnologie la forza di poter esprimere stili di vita più “leggeri”, meno vincolati alla logica del consumo e dello sfruttamento, tesi a valorizzare competenze e creatività in modo concreto, ripensando i legami di solidarietà, ma soprattutto riconsiderando gli antichi motivi dell’alienazione, giunta oggi a pervadere interamente le esistenze.
Il territorio urbano nella sua materialità ed anche nella sua virtualizzazione è divenuto lo spazio assediato di una contesa in cui si cerca di dominare povertà, migrazioni, linguaggi. Ci sembra che l’unica fuoriuscita possibile consista proprio nell’abbandono di ogni umanesimo e falso antropocentrismo, ponendo la necessità di riconsiderare il vivere, l’abitare, l’essere in un territorio in chiave eco sistemica, ossia in quella dimensione ambientale, che se attuata, permette il “benessere” dei viventi.
È la città che torniamo ad interrogare e a pensare, senza alcuna nostalgia localista, ma con la consapevolezza che questa è la chiave di volta per attuare altre pratiche, altri progetti sottraendoli alle sole logiche dell’accaparramento e delle privatizzazioni che hanno impoverito, inquinato e devastato l’ambiente che siamo e viviamo.

Tiziana Villani
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Tiziana Villani
n. 1


Urbonas Protes Lab

Paolo Cagnacci
Senza Titolo

Sabine Reiff
Senza Titolo

L’aspirazione al progetto di un urbanesimo postmoderno (e la sua legittimazione) trova la sua origine nei numerosi movimenti sociali apparsi nel corso degli ultimi decenni, ciascuno dei quali richiede di essere ascoltato riguardo alle prese di decisioni inerenti i quartieri, la città o la regione. Penso naturalmente a tre forze socioculturali molto presenti, che hanno modellato e modelleranno le nostre città: i movimenti migratori, che invocano una politica adatta ad una cittadinanza multiculturale; il postcolonialismo che richiede una politica capace di soddisfare la domanda di spazi urbani e regionali dei “nativi” un tempo colonizzati; e l’emergenza di una società civile, sotto forma di molteplici movimenti urbani preoccupati per l’ambiente, che cercano di diffondere un linguaggio di giustizia (in campo economico, sociale, culturale e ambientale) e di estendere le pratiche democratiche.
Nei loro fallimenti come nei loro successi, queste rivendicazioni concorrono alla trasformazione dei valori e delle istituzioni, e nel corso di queste lotte si definisce un nuovo tipo di pianificazione, di stile molto diverso, relativo ai modi di vita delle diverse comunità […].

Di quali novità deve far mostra un urbanista impegnato in questo vasto progetto di trasformazione sociale positiva?
Egli deve conoscere altri alfabeti, contestuali, storici o culturali, che riguardano i comportamenti umani e organizzativi, la politica e il potere. Poiché il pensiero analitico e critico non è più sufficiente, occorre occuparsi anche del concreto, detenere un sapere operativo capace di accogliere le diverse sfide: sviluppare l’economia locale, accettare la diversità culturale, provvedere al degrado dell’ambiente, stabilire delle relazioni positive tra design e comportamento. Per questo, occorre affrontare i temi del multiculturalismo, dell’ecologia e del design, che dovrebbero far parte del cursus di studi dell’urbanesimo e figurare nei programmi di formazione professionale successivi.

Alfabeto multiculturale
Quando delle persone di culture diverse, con storie diverse, arrivano nelle nostre città, la loro presenza mette inevitabilmente in discussione le categorie normative della vita sociale e dello spazio urbano. Accade lo stesso quando i residenti fino ad un certo momento invisibili – donne, gay, “nativi” – iniziano a rivendicare le loro differenze, ponendo la questione delle richieste inerenti la qualità dello spazio urbano e dei servizi, sfidando le norme sociali accettate e tentando di creare i propri luoghi: luoghi di tolleranza, di comunità, di riparo. Le loro esperienze urbane, le loro lotte per ridefinire delle condizioni di appartenenza alla società non rimodellano solo questa società, ma anche necessariamente il nostro modo di pensare l’urbanesimo.
Le diversità etniche, razziali e culturali di crescente complessità si impongono nella città esigendo sempre più imperativamente una nuova base di comprensione e di definizione dell’urbanesimo. C’è nell’aria una politica culturale della differenza, e l’urbanesimo deve accordarsi con essa. Storicamente, i principi universalisti della collettività e della cittadinanza hanno promosso la formazione di una società omogenea. Alcuni pianificatori hanno incoraggiato la creazione di città e di quartieri ideali nei quali le persone si conoscono tutte e condividono gli stessi valori e stili di vita. L’attuale popolarità tanto del new urbanism che delle gated communities è l’ultima manifestazione di questo rifiuto della diversità e della paura della differenza.
Dato che viviamo in quella che il filosofo canadese James Tully ha descritto come “un’era di diversità”, caratterizzata da una forte emergenza dei desideri di riconoscimento, di parola e di spazio, sembra essenziale che gli urbanisti sappiano soddisfare questi ultimi […]. I concetti centrali dell’urbanesimo – la razionalità, l’attenzione globale e l’interesse pubblico – hanno bisogno di essere ripensati alla luce delle nuove forme di ripartizione dei poteri, delle strade alternative di riconoscimento, e della molteplicità dei pubblici. È ciò che io intendo per alfabetizzazione multiculturale o interculturale […]. Nel nostro approccio, dobbiamo essere coscienti e rispettosi delle classi, dei generi, e delle differenze etniche, e impegnarci ad apprendere e a servirci di queste nuove forme di conoscenza, alfine di stimolare un urbanesimo più democratico ed inclusivo: imparare a lavorare con le comunità, piuttosto che parlare a loro nome.

Alfabeto ecologico
L’americano David Orr, educatore nel campo dell’ambiente – soprattutto della sua etica – , descrive una persona alfabetizzata in ambito ecologico come qualcuno di impegnato e informato, che possiede una conoscenza locale e un senso del luogo, che sperimenta le relazioni tra un sito e ogni forma di vita, e che cerca di far valere e mettere in pratica la sua competenza civica. Una persona simile, secondo Orr, potrà capire il modo in cui le strutture sociali, la religione, la scienza, la politica, la tecnologia, il patriarcato, la cultura, l’agricoltura – allo stesso modo dello spirito di contraddizione umano – hanno portato, combinandosi, all’attuale situazione.
Questo approccio è molto diverso da quello che è prevalso nella maggior parte delle scuole di urbanistica, dove certo può esservi un corso dedicato a l’“ambiente”, ma in cui solo gli studenti impegnati in questa “corrente ambientalista” o che scelgono l’ “opzione ambientale”, sono formati in questa disciplina.
Nella sua tesi di dottorato in filosofia (1996), Wendy Sarkissian, una dei capofila dell’urbanesimo sociale dei due ultimi decenni, ha sostenuto i precetti di David Orr: la crisi dell’ambiente non può essere riassorbita se non la si riconduce al tipo di insegnamento che l’ha suscitata, ossia a un sapere modernista che ha privilegiato la conoscenza scientifica e tecnica […]. Possiamo, evidentemente, organizzare dei workshop di perfezionamento per gli urbanisti che lavorano su temi quali la valutazione dell’impatto ambientale, ma ciò di cui abbiamo realmente bisogno, è in un certo senso un riesame dell’urbanesimo attraverso l’ottica ecologica, come ne è esempio il recente lavoro di Timothy Beatley in Ethical Land Use (1994) e The Ecology of Place (1998).

Alfabeto del design
Negli Stati Uniti, dopo gli anni Cinquanta, e in Australia, dopo gli anni Settanta, si è stabilito che la pianificazione urbana è fondamentalmente una scienza politica e sociale, e che i problemi di design riguardano le scuole di architettura. Questa rottura tra il design e l’urbanesimo, tra l’ambiente costruito e l’ambiente politico ha avuto delle conseguenze nefaste: in primo luogo per la perdita della capacità di comprendere ciò che permette che le cose funzionino, o che non funzionino (osservando la configurazione di una strada, di un parco, di una piazza o un insieme di edifici e analizzando le qualità di un buon spazio pubblico); in secondo luogo per la perdita di capacità nel leggere le “carte” e i piani di dettaglio dei professionisti del design, di commentarli in modo intelligente, di saper rappresentare integralmente in tre dimensioni degli oggetti visivi piani valutando la loro possibilità di impatto; in terzo luogo, per la perdita della capacità, per un urbanista, di sapersi impegnare nella pianificazione di un sito considerandosi come membro di un’équipe nella quale gli altri partecipanti possiedono una formazione altrettanto professionale nell’ambito del design, e, infine, per la sparizione di una saggezza più generale, di una comprensione e di una emozione ravvicinata tra la città della memoria, del desiderio e dei sensi, qualità senza le quali un urbanista resta unidimensionale, incapace di appassionarsi per, o di comprendere l’ “anima” della città (in questo senso opposta alla sua struttura sociale e alla sua economia politica).
Infine, non possiamo ignorare le evidenti relazioni tra l’ambiente costruito e il benessere umano, sia individuale che collettivo. Non possiamo negare il potere del design nella vita quotidiana, per migliorarla o per peggiorarla […].
Delle architette femministe, alcuni designers urbani e dei pianificatori si sono interessati a questi fenomeni, in particolare a quelli che riguardano la vita delle donne nelle città e nelle periferie. Opere come Redisignin the American Dream (Hayden, 1984), Discrimination by Design (Weisman, 1992) e Gendered Spaces (Spain, 1992) permettono di apprendere il potere del design, quando si tratta di rendere percettibile o d’imporre dei rapporti di dominio/sottomissione.
Altri autori che abbiano affrontato il tema del design urbano hanno constatato che le architetture che esprimono o negano fortemente l’appartenenza di un individuo a uno spazio sono soprattutto i centri commerciali e altri luoghi pubblici/privati in cui solo alcuni tipi di persone sono ammesse (Davis, 1990; Sorkin, 1992).
La comprensione dei caratteri e degli impatti sociali e psicologici del design, non riduce affatto la pianificazione a un determinismo puramente concreto, ma piuttosto arricchisce la capacità di dargli senso. Abbiamo bisogno di riconnettere la storia dei conflitti avvenuti nel campo dell’urbanesimo con la poetica dell’occupazione di luoghi particolari. Alcuni urbanisti vi lavorano sin d’ora con degli artisti, degli antropologi, degli architetti paesaggisti e delle collettività, basandosi sulla storia e l’arte pubblica, i dati cartografici e i progetti paesaggistici urbani, avendo come obbiettivo un approccio culturalmente più inclusivo della pianificazione. Ciò non può essere realizzato che associando design e cultura, e design e natura. Ristabilire l’alfabeto del design richiede degli urbanisti, degli architetti paesaggisti, dei designers urbani, degli artisti e delle collettività in un lavoro di équipe. Tutto ciò deve iniziare dalle scuole di urbanistica, rompendo le frontiere gelosamente mantenute tra le diverse discipline della “costruzione delle città”.
Ricerche e pratiche etiche
[…] Pellegrino appassionato, la mia visione è quella di un urbanista la cui professione abbraccia preoccupazioni di giustizia sociale e ambientale, di comunità umana, di diversità culturale, e di senso, cose che hanno finito con lo sfuggire all’urbanesimo modernista nella sua ricerca di città razionale. Dobbiamo tornare alle antiche domande sui valori, la “buona città”, ma, per trovare delle soluzioni giudiziose, dobbiamo cercare una “guida” presso coloro, che, fino ad ora, sono stati esclusi o marginalizzati, ascoltare tutte le voci.
Dobbiamo rispettare la città della memoria (il passato), allorché questa evoca la città del desiderio (il presente e il futuro). Dobbiamo riscoprire la città dell’anima, e inventare nuove forme di stupore rispetto all’ambiente costruito. L’obbiettivo dell’insegnamento dell’urbanesimo non è quello di ottundere la testa degli studenti con il numero più ampio possibile di fatti, tecniche e metodi, ma di riflettere sui valori più elementari: come possiamo organizzare la coesistenza in uno spazio condiviso? Come possiamo vivere gli uni con gli altri, nell’accettazione attiva di tutte le nostre differenze, nelle città e nelle regioni multiculturali del secolo a venire? Come possiamo vivere con “leggerezza” rispondendo ai nostri bisogni sulla terra? La mia speranza è quella di ispirare alle future generazioni la volontà di rispondere a questi problemi, e di dar loro qualche riferimento.


Il presente articolo è una gentile concessione della rivista “Urbanisme” , n. 314, settembre-ottobre, Paris, 2004, pp.50-52.