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Con-fine (2007-2013) Anno 5 Numero 22 giugno-agosto 2011



Tobias Zielony

Matteo Bergamini

Sul disastro del funzionalismo ci si mette in posa



Trimestrale di Arte&Cultura Contemporanea


SOMMARIO N.22

con-
Spazi pubblici, fra interazione e dissacrazione.
Gino Fienga Pag. 19

Münster
Mutamenti della scultura in 30 anni e 4 mostre.
Matteo Bergamini Pag. 21

pre-text
Tobias Zielony
Sul disastro del funzionalismo ci si mette in posa.

Matteo Bergamini Pag. 27

passeurs

Remo Salvadori
Continuo infinito presente.
Luciana Ricci Aliotta Pag. 39

Katarina Grosse
Dimensioni pittoriche.
Giuseppe Di Bella Pag. 45

Rolando Wirtz
Racconti di con-fine
Cristina Fiore + Andrea Penzo Pag. 55

exlibris
Luca Prandini
Metafisica dell'acqua
Mauro Carrera Pag. 69

atelier
Spazio-vita
Veronika Aguglia Pag. 77

quid
Neil Douglas
Orizzontalità e verticalità dello spazio urbano.
Pippo Lombardo Pag. 83

-fine
Il reale aperto.
Giuseppe Di Bella Pag. 88

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Brahim El Anatsui. Tra recupero e tradizione
Matelda Buscaroli
n. 16 dicembre 2009 - febbraio 2010


Tobias Zielony, Corridor
C-print, 114x93cm, 2009-2010
Edition of 6
Courtesy Galleria Lia Rumma Napoli/Milano

Tobias Zielony, Mini-Bike
C-print, 67,5x83cm, 2010
Edition of 6
Courtesy Galleria Lia Rumma Napoli/Milano

Tobias Zielony, The Group
C-print, 67.5x83cm, 2010
Edition of 6
Courtesy Galleria Lia Rumma Napoli/Milano

Il Junkspace è ciò che resta dopo che la modernizzazione ha fatto il suo corso o, più precisamente, ciò che si coagula mentre la modernizzazione è in corso, le sue ricadute.
La modernizzazione aveva un programma razionale: condividere i benefici della scienza, universalmente.
Il Junkspace è la sua apoteosi, o il suo punto di fusione…
Per quanto le sue parti individuali siano il risultato di brillanti invenzioni, lucidamente pianificate dall’intelligenza umana, sospinte da una capacità di calcolo infinita,la loro somma scandisce a chiare lettere la fine dell’Illuminismo, la sua resurrezione come farsa,un purgatorio di basso livello [...]



Scrive così Rem Koolhass rispetto a uno spazio-spazzatura che è zona di incontro tra il cartongesso, i tubi di condizionamento e le scale mobili, in un vortice che sembra raffrontarsi, in maniera meno geniale, con gli appuntamenti surrealisti raccontati da Breton.
Quello che in realtà si incontra, dopo la fine delle utopie moderniste, in un’ampia collezione di spazi urbani, non è tanto il “non-luogo” aeroportuale, descritto da Marc Augè, composto da finte pareti e zone interdette da attraversare con il solo ausilio di tessere o attraverso percorsi obbligati, ma location che sono esplosione ed implosione di caratteri architettonici, umani, stili di vita, spazi di transito e nascondiglio, zone franche e affrancate dall’essere parte di un sistema economico, politico e sociale ma che divengono roccaforti di sé stesse abbandonate dall’ufficialità.
L’operazione di Tobias Zielony alle Vele di Scampia di Napoli ci restituisce una visione non solo antropologica di un’intera zona di una città da più di trent’anni sotto assedio ma anche un profilo fisiognomico dei suoi abitanti, dei giovani che appartengono alle viscere del rione e che nei ballatoi, intermedi, costruiti a mezza altezza tra un piano e l’altro, vivono quotidianamente lontani dalla giustizia, dalle istituzioni, dalla legalità.
Ma è piuttosto inutile descrivere Scampia, lo Zen di Palermo o le banlieue parigine attraverso gli errori commessi seguendo, in maniera profondamente sbagliata, la follia razionalistica dei modelli delle unità d’abitazione di Le Corbusier o di un prototipo di “casa-salvagente” senza tenere conto di nessuno spazio, se non di quello strettamente vitale, isolato da qualsiasi altro contesto correlato all’esistenza.

Oggi balzano all’occhio i problemi relativi ai lotti edificati a cavallo del decennio sessanta - settanta e poco oltre ma già ora è facile trovare un’infinità di errori tra le costruzioni che attualmente, mese dopo mese, vanno a ridisegnare le periferie di buona parte del mondo occidentale destinate, sulla carta, a migliorare il tenore di vita di un abitante che viene ancora pensato come entità piccolo borghese, impiegato e pendolare, che per necessità economiche e problemi di spazio, uno spazio che si rivela completa utopia, perché resta assente dalle case così come la privacy dai giardini delle villette a schiera, che si trova costretto ad “amare” un modello abitativo simile a una scenografi a cartonata a qualche decina di chilometri dai grandi centri urbani o, ancora, nello sradicamento e nell’impasse che aleggiano nei complessi abitativi messi in piedi dopo il terremoto dell’Aquila, specchio di speculazioni e propagande politiche statali di un paese in pieno declino.
Vi sono una serie di punti cardinali che, insieme alle immagini di Zielony, raccontano la dimensione dello spazio pubblico associato alle mancate possibilità determinate dall’urbanizzazione coatta, dalla politica sociale scadente, dall’avanzata del capitalismo come ventre tenero all’interno del quale le classi meno agiate possono rifugiarsi per sopperire alla mancanza di punti di riferimento definiti: il monito da seguire, le indicazioni comportamentali sono da ricercare nella conquista della merce e, quando si tratta di cultura, in manifestazioni liquide e diluite dalla portata popolare e dal mordente minimo.

Negli anni cinquanta vi era Hubert Shelby con “Ultima fermata a Brooklyn” a raccontare di emarginazione e degrado, di corpi sfatti dalla benzedrina e dalla povertà, di giovani padri in preda ai fumi dell’alcool e di bulli; poi è venuto Pier Paolo Pasolini con il suo “Petrolio” in grado di grondare nero in ogni angolo con i vizi sepolti del mediocre Carlo Valletti e le sue collusioni con le Mafie e gli alti ranghi del potere e, allo stesso tempo, lo scempio che iniziava a esercitare il potere dei consumi e delle immagini sulle classi meno abbienti e sui giovani, finendo una delle “visioni” del romanzo proprio con la vista dall’alto di una Roma corrispondente a una topografi a forma di croce uncinata. Un simbolo mai sopito e mai scomparso che ritorna prepotentemente oggi, con l’ultimo Ballard, che pochi anni fa stese “Regno a venire” il cui sottotitolo era “Può il capitalismo diventare fascismo?”, vicende di un supermercato dal nome fin troppo comune,Metro-Center, nell’immensa distesa desertica e brulicante di piste di aeroporti, depositi e hub dell’hinterland londinese, dove le cittadine in apparenza sonnolente altro non sono che covi di un’umanità che vive ossessionata dallo sport, dal consumo e dalla possibilità di trovare un capro espiatorio per ogni evenienza.
Mutano i luoghi, si gentrificano, come accade a Berlino, intere zone dove per cifre irrisorie le agenzie immobiliari affittano ad artisti, musicisti, designer e intellettuali allo scopo di riqualificarne le aree e trasformarle in nuovi quartieri radicalchic; mutano le metropoli e i quartieri-ghetto e progressivamente mutano, guidati dalle mode e dal rumore di fondo, i volti e gli atteggiamenti dei nuovi proletari, di chi non ha possibilità di scelta tra la malavita organizzata e l’organizzazione statale malavitosa.

Tobias Zielony fotografa giovani sospesi, come recitava il titolo di una sua recente personale, in bilico tra storia e non storia, in un limbo di mancata comunicazione, dove il contesto urbano,architettonico, paesaggistico non solo è parte integrante del racconto, della costruzione delle immagini ma è in grado di scavare i volti degli abitanti; gli elementi antropici divengono la possibilità per determinare, in senso lato, una dimensione di esistenza, di personalità, che si staglia tra i canali della società dello spettacolo. Giovani sicuri, quasi spietati, di fronte alle macchine fotografi che o alle telecamere, attentissimi a non tradire la loro posa, il loro “essere”.
Il progetto realizzato alle Vele di Scampia, così come tutte le immagini del fotografo di Berlino,mantengono una serie differente di piani di lettura: nonostante il loro essere fredde, quasi patinate, affondano l’obiettivo nel disturbo di una serie di sguardi e di luci al neon o, nel caso della serie scattata a Trona, San Bernardino Valley, in California, nell’abbacinante luce del sole e, tornando a Napoli, nel passaggio step by step in quel dedalo di corridoi dove si mischiano vite, voci, odore di cibo e urla domestiche, dove nei mesi più caldi ci si può radunare e dove capita si regolino i conti in modalità tutt’altro che ortodosse. Non c’è pathos nelle immagini di Zielony; piuttosto sono una cartografi a di quanto lo spettacolo diffuso abbia attecchito maggiormente laddove hanno fallito le teorie sull’abitare e sull’assetto della popolazione, dove è palese si sia verificato il fenomeno di una sovrabbondante volontà di costruire ranghi dorati o celle d’aiuto che altro non si sono rivelate se non gabbie contenitive che vivono di leggi proprie, spesso decisamente “del taglione”, abbandonate in primis da chi ne ha reso possibile la nascita: quando si dichiara fallimento o si conclama un errore pare non vi sia modo di aggiustare nulla. Il microcosmo diventa terreno di chi quotidianamente è costretto a viverlo. Agli estranei non è consentito l’accesso e, per rispetto, sarebbe forse meglio evitare di stendere parole d’etica o morale.