Lettera internazionale Anno 27 Numero 109 Terzo trimestre 2011
Tirana, Albania, giugno 2010
Come tutti gli italiani arroganti, anche io sono curiosa di verificare se tutti i pregiudizi sull’Albania corrispondano a verità. Qui a Tirana rivedo un po’ Algeri, o Vilnius: che nulla hanno in comune, apparentemente, se non il fatto di essere città alla periferia di quello che, proprio grazie alle mie visite in queste e in altre città, chiamo ormai l’“Impero europeo”. Impero latitante, ma non per questo meno pesante nel suo impatto culturale.
A Tirana mi tornano in mente, guardando la gente per le strade, sbirciando le vetrine a volte polverose dei negozi, ammirando l’antica moschea circondata da palazzoni alti dieci piani, le parole di Antonin Liehm, il fondatore di Lettera Internazionale. Lui ci ha insegnato che in ogni luogo esiste il nord e il sud, l’Occidente e l’Oriente; che non esistono culture di serie A e di serie B; e, riprendendo Edward Said, che lo scontro di civiltà è solo uno “scontro di ignoranze”.
Tirana mi ha dato subito la sensazione dei grandi spazi. Gli spazi voluti dal dittatore, un po’ nello stile di Bucarest: le strade larghe e diritte facilitano il controllo – in fondo, però, penso che anche la Parigi di Haussmann è nata con lo stesso scopo. Gli spazi di Tirana non sono opprimenti. C’è una luce cristallina, le montagne sono alla distanza giusta per fare da quinta alla città. Sono quelle le Alpi albanesi? Non credo. Ma comunque sia, da quei monti cominciano i Balcani, penso tra me. Un grande rispetto e anche una certa soggezione, ma in fondo la stessa che provo per la Barbagia sarda o per la boscaglia somala. Ma per me, che in realtà ben poco conosco della storia (e anche della geografia) di questo Paese, quel po’ di neve sulle cime dà una piacevole sensazione di leggerezza.
E poi Tirana è una città piena di colori. Lì qualcuno ha affondato abbondantemente i pennelli nei barattoli di vernice con l’obiettivo di rendere più lieve il peso del passato: è stato il sindaco Edi Rama che, nel 2002, ha invitato tanti artisti a ridare vita alle facciate dei palazzi della città. A Berlino, hanno raso al suolo interi quartieri e si vedono gru ovunque. Qui, le ruspe restano tranquille, ma l’effetto finale è efficace, per certi versi molto di più di quanto non lo sia l’international style dell’architettura contemporanea nelle vecchie metropoli continentali che crede di coprire ferite vecchie e nuove azzerando i segni del passato.
Per le strade, si vedono tanti giovani, molti più di quanti non se ne vedano da noi, ovviamente, che siamo invecchiati da tutti i punti di vista. E sono quei giovani il punto di forza di questo Paese. Jeans a vita bassa, pance di fuori, a gruppi rumorosi si muovono per le vie del centro di una qualsiasi città del mondo.
All’università, dove partecipo al convegno internazionale su “Letteratura adriatica. Le donne e la scrittura di viaggio”, tutti parlano italiano, con una strana erre arrotata, profonda; ma parlano anche l’inglese, e ora – mi dicono per via delle telenovelas che arrivano dall’America Latina grazie alle antenne satellitari – lo spagnolo. La televisione fa miracoli. È quello che succedeva in Italia negli anni del boom economico, quando le famiglie si compravano il primo frigorifero e il primo televisore, e così scoprivano il mondo, anche se in bianco e nero.
Gli albanesi sono molto curiosi del resto del mondo, e in primis dell’Italia, per la quale manifestano un entusiasmo che vorrei animasse gli italiani stessi. Sono molto informati sui fatti italiani, amano gli scrittori italiani. “Da dove vieni?”, mi chiede una ragazza all’università. “Da Roma”, rispondo. “Oh, Roma!”, è la sua esclamazione, tra l’ammirato e il sognante.
Alla passione per l’Italia uniscono un grande trasporto per la propria storia nazionale. E vogliono farcela conoscere, perché anche loro ne hanno una. La loro storia ruota attorno alla figura di Skanderbeg, il principe che, nel XV secolo, si oppose fieramente all’invasione ottomana. A parte il famosissimo monumento equestre che domina la piazza principale della città, lo ripescano in tutte le salse, arrivando a stamparne l’effigie sulle T-shirt, facendone il corrispettivo delle piccole Tour Eiffel portachiavi, o dei cioccolatini mozartiani in Austria. Tutto il mondo è paese: gli eroi e i monumenti nazionali sono, anche, l’anima del commercio. Ma l’insistenza sulla propria storia – e l’attenzione che richiedono su questo tema dentro e fuori i confini nazionali – qui rivela qualcosa di molto più profondo: l’Albania, come tante altre realtà povere alle porte dell’Impero, cerca una riabilitazione, una visibilità, un suo ruolo nella storia del Continente europeo. Vuole entrare in Europa, vuole stare “con noi”.
Questo desiderio di riscatto dal silenzio secolare, rotto forse solo dai barconi dei migranti, merita cura e attenzione da parte nostra. E questo interesse può e deve partire dalla cultura condivisa, ma deve concretarsi in investimenti, in infrastrutture, in maggiore sostegno all’istruzione per far sì che l’accesso al mondo della conoscenza e poi a quello del lavoro sia paritario non solo all’interno della Fortezza Europa, ma anche – e direi forse soprattutto – fra questa e i paesi vicini. Le premesse ci sono, basta vedere quanto siano stretti e fecondi i rapporti, per esempio, tra gli atenei pugliesi, quelli albanesi e quelli di tutta l’area balcanica, che rientrano poi nella serie di progetti che fanno capo all’Euroregione adriatica. Ma proprio adesso che il declino dell’Europa è conclamato, bisognerebbe avere la lungimiranza di rafforzare nuovi centri alle porte dell’Europa, perché, da un lato, si corre sempre il rischio che le culture geograficamente marginali si isolino sempre di più alimentando derive nazionalistiche; ma anche perché da quelle aree possono arrivare nuovi stimoli e spunti al “nostro” rinnovamento, anche economico. Tanto più che l’Albania è già candidata a entrare nell’Unione. E che, da un punto di vista culturale, è europea quanto, solo per fare due esempi, le tre Repubbliche Baltiche o la Slovenia.
Mi racconta un amico italiano, che ha vissuto e lavorato in Albania per anni, che le case di campagna, la sera, accendono un lume all’esterno. Quella luce non è solo l’indizio della presenza di qualcuno, né è solo un modo per tenere lontana la paura del buio: è un invito ad avvicinarsi, è un segno di ospitalità. Nelle isole Ebridi, nella Scozia occidentale, succede lo stesso. La luce che illumina il mondo può venire solo dal di dentro.
Biancamaria Bruno è direttore dell’edizione italiana di Lettera Internazionale. Vive e lavora a Roma.