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Nero Anno 10 Numero 28 inverno 2012



Su Roma

Fabio Mauri



free magazine


SOMMARIO N. 28 a

Cover by Dirk Braeckman

Special Project by Tobias Madison


CONTENTS

BLUE IS IN FASHION THIS YEAR


THE MAN WITH TWO NAMES


ANTI-SMITHSON


ABSTRACT


SU ROMA


THE SOUND OF SCELSI


TOUCHABLES


SALAD WITH RANCH DRESSING


WORKS THAT COULD BE MINE & WORKS THAT I WOULD LIKE TO BE MIN...


TROVATELLI

ARTISTS PROJECT
Tobias Madison
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Foto di Alfa Castaldi

Foto di Alfa Castaldi

Foto di Alfa Castaldi

Fabio Mauri (1926-2009) è stato uno dei più versatili personaggi della scena artistica e culturale italiana dal dopoguerra ad oggi. Artista, critico, editore, docente, fondatore di riviste d’avanguardia (Quindici, La Città di Riga), autore di famose performances (Ebrea, Che cos’è il fascismo), per tutta la sua vita ha dialogato con la storia collettiva e personale, la cultura del suo tempo e le relative contraddizioni. Il testo che pubblichiamo è dedicato a Roma, la nostra città. Ci è sembrato un ritratto molto personale, ma con un valore quasi universale. Ad accompagnare il testo, abbiamo pensato a dalle fotografie di Roma realizzate da un suo coetaneo, Alfa Castaldi (1926-1995), uno dei principali fotografi di moda italiani del tempo. Insieme a Mulas e Dondero, Castaldi è stato uno degli animatori del bar Giamaica a Milano. Compagno di vita e di lavoro di Anna Piaggi, dopo gli inizi come reportagista, ha lavorato come fotografo nel mondo della moda arricchendone il linguaggio col suo stile personale e ironico.

Quando si nomina Roma, la città è sinonimo di luogo in cui vivere bene, ma penso che per la sua ampiezza, i temi e gli sfavori che pone è equivalente di responsabilità personale, come scelta di luogo condiviso dal destino. La città si contrappone, d’abitudine, per stile di vita, alla campagna, che a Roma però c’è, rispuntano erbe medicinali su scale di pietra. E si confrontano con esigue cittadine, sinonimo di umanità su misura: Roma è in regola, è un agglomerato di paesetti, persino di borghi. La qualità di metropoli che le spetta non è puramente fisica. Anfratti, meandri e molteplicità conferiscono alla coscienza di chi la abita un sostanziale carattere d’inesauribilità di un insieme. D’implicita, recondita, estraneità. In momenti di tristezza, la città non smentisce, non sembra avvertire nulla, girata da un’altra parte, più generale e propria. In una simile astensione, ci si può percepire come uno che nuoti liberamente nell’alto mare di una tonnara già chiusa. Un confine a maglia che potrà stringersi prima o poi, minacciosamente, potrebbe farlo.
Mi chiedo cosa c’è che non vada, che non sia una semplice prerogativa dell’esistenza, per cui Roma risulterebbe innocente, e che dia un senso confuso così inconfondibile a questa città, che avverto sorvolata da un sentimento di progetto o di scommessa deluso.

«La vita in generale mi piace, è la vita russa che mi dispiace» dice lo Zio Vania. ma non si può dirlo di Roma. Anche se Roma non è la Russia, le vite da queste parti sono numerose, è un insieme di contrari non analoghi, miscuglio di globuli non reciprocamente repulsivi ma reciprocamente opachi. La miseria non questua (che c’è) è invisibile, come invisibile è la potenza non istituzionale, non del Palazzo, delle molte case, dei palazzi. Il resto è vicino, ignoto, familiare. Oltre che multicentrica, Roma è nazionalmente multietnica: siciliani, torinesi, romagnoli, friulani, in coda a macedoni, cantatrici, armeni… Spie, professori… Suore e sirene sono innumerevoli e attive.
Nuclei non conformi che un esteso lifting tiene insieme in un’apposizione casuale ma abituale.
Una palude piena, come le paludi, di vita.
Lucio Fontana un giorno, ero a Milano, mi confessò «Mai vivrei a Roma, non amo le città rotte». Vedeva Roma come un solido frantumato. Già sovrapposto e distrutto. La percezione del tempo, da queste parti, si fa di frequente unica, inverosimile. Un’alba o un tramonto eccessivo, sorvolato dal gran nome, come scrive bene Villon (Dio sul paesaggio). E’ un tempo guasto, la cifra finale non giusta. O è troppo alta, o segna zero.
Un’apocalisse non del tutto pronta.
Chi è vivo percepisce di essere vissuto più di tutti. Sotto nuvole basse, rosa per i fari della città, vi è compressa un’unica ora. Lo scenario romano resta il maggior evento della città. Quasi inoggettivo, perché mitico, presenta sotto la specie storica di «realtà».

L’abuso edilizio, dunque, ha precedenza, è dovunque. L’antico romano sepolto dal meno antico e di seguito le torri che si fanno spazio medievale in superficie, tra secoli di marmi dislocati, e sottoterra, al di qua, prima della moderna colata di lava: il tempio di Mitra, forato da colonne di quindici metro di cemento, sotto Santa Maria in Cosmedin, il carcere Mamertino al Campidoglio con la porticina in ferro su uno scroscio ripido. C’è poco spazio, non per due, per uno: Paolo di Tarso, Simone detto Pietro, Spartaco. Roma sottoterra è un intrico di radici di una cronaca quotidiana di storia. Quindi il tentativo del Rinascimento che prosegue locale fino a Busiri Vici, e l’inflazione ampia e insolente del Barocco, fanno del loro meglio per sovrapporsi, segno di una violenta occupazione di campo. Dettagliato, anche sovrapposto, il bassorilievo nitido di vicende di morte o di vita conclusa, di violenza perpetrata e d’impotenza subita: si può far finta di niente ma transitare per frammenti simili, come in una lussuosa discarica storica, può divenire insostenibile.
Punto fisionomico del disagio, le suture temporali sono a vista. Cicatrici che la termodinamica non guarisce.

Ci si abita, per me almeno è così, per la provvisorietà che la natura della città restituisce all’attualità dell’esistenza. Il cittadino, legittimamente vivo, tu stesso, non sa bene se e dove è. Roma è satura di persone che vi hanno abitato. Da Petrolini a Pirandello, ad Amalia Rosselli, a Luisa, a Pier Paolo Pasolini. L’elenco personale è infinito. Restano solo i portoni. Roma cattura bene la verità, a tutti nota, di un’esistenza legalmente non eterna. Produce stati d’animo instabili al cospetto di un’eternità in pezzi. Forse il suo cittadino vero non c’è mai stato, sostituito da un controluce della memoria. Giunge dai confini dai luoghi meno esposti, terre senza dubbio periferiche. Vi affluiscono dalle provincie viaggiatori colti o rozzi. I passanti sono gli unici abitanti della giornata di Roma. La città ha la vocazione ambigua di un’accoglienza agile in uno scenario vero, come vero, come drammatico, come tragico. Per me almeno è così. L’abitudine a qualsiasi trauma fa il resto: sotto il fuoco di un bombardamento, si accende e si spegne una sigaretta.
Questa Roma storica, post-antica, mi sembra contraria a una modernità senza storia. Qualche cenno di moderno già stato segna il passo in attesa di un accesso. La Roma fascista è lì, abitata persino: via Tasso, metà ordinata luogo di stragi, metà di scale rincorse da grida di bambini vivaci. Il ghetto di Roma, prestante e riccioluto in giovine età, con qualche frangia di Borgo Pio e Trastevere; è noto, vi sono i più romani, un po’ nasali, intenti alla memoria di un loro selciato, di una loro nicchia, di una passione familiare loro che dimessamente li fa uguali. Nessuna epica. Di piglio ostile per la custodia di un residuo segreto, certo incomunicabile. Si può apprezzare Nervi, qualche Sironi in università, un po’ di Piacentini, migliore della sua fama, come un dato o prima o fuori di ogni storia.
Che non è vero.

Voglio dire che a Roma si abita per capire dove si è vissuto. In che storia ha vissuto la città. La città ha una coscienza tardiva, com’è delle coscienze turbate, solo in fine meno arbitraria del previsto. Impigliati nell’inusuale, non si va via facilmente, né vi si sosta facilmente, come chi arriva e parte il giorno stesso, per un antico e consolidato pregiudizio. Ma…
Ma ultimamente è successo qualcosa. Da qualche tempo Roma sembra moderna. Bisogna dirlo. Non le case ma i marciapiedi e i mezzi sono mezzi ragionevolmente più moderni.
Ci si aggira, diminuita l’oscura ansia di avere sbagliato città. Persino i conducenti di auto pubbliche, sostituiti da figli meno abruzzesi, risultano privati, più silenziosi, equi, più fenomenologhi. Non so se i miei taxi (zona Navona) offrano un campione giusto. Ma «qualcosa» è successo: una curiosa invenzione delle Sovrintendenze, eliminato Schirmer e i nordici, e poi i francesi, messo da parte Corot, e persino Mafai, al coperto di esagerate pubblicità, ha dipinto Roma di bianco e celestino. Il massacro dei tempi e degli stili, così schiarito, crea nel nuovo aspetto un atteggiamento non sgradevole. Il passato si può ripaginare, dunque, secondo il presente. Qualcuno ha tentato di fare di Roma una città per vivi.
Su questa linea forse opinabile, ma inedita, si è riconsiderata la vita come cosa da vivere. Che si può ancora fare per conservare il presente?

Forse ragionare sul monumento globale che qui, penso e mi sembra di averlo indicato, esprime il tempo e solo il tempo. L’immobile, mura e travi, come segno monumentale di un progetto, di un’arte, di una dinamica dell’esistenza che non somigli, né simuli, ma risulti in atto.
L’istituzione politica ha capito, dunque. Sembrerebbe aver capito. Deve cercare Raffaello per affrescare le Stanze, deve convincere Michelangelo, anche se reagisce, a sforzarsi.
Deve farlo se vuole avere un volto, farsi solido punto di riferimento. Non può permettere che Masaccio vi muoia, forse ucciso, o Erasmo fili via in sordina, deve trattenere persino Lutero. Lo Stato, a Roma, primo luogo dove risiede lo Stato, deve comprendere che solo l’invenzione della cultura è il suo specchio e il suo involucro.
Bisogna ancora citare Kennedy e l’America? L’arte americana ti viene incontro dagli aeroporti senza abbandonarti più, quale chiave d’interpretazione di una realtà sufficientemente moderna e non poco intricata, anzi notoriamente astrusa. O la Francia e il suo vecchio, un po’ liso, ma ancora ottimo Impressionismo. Stalin è morto, ma Majakovskij è vivo, ne ho notizie certe da Mosca. Cose che non hanno avuto collisione definitiva con la cultura del nostro tempo. Sono ancora lo scorrevole su cui si cammina.
Quindi, azzardo: a Roma ci si vive per fare storia. Storia dell’arte, storia dell’architettura, storia della letteratura, storia del diritto, storia della fisica, storia della filosofia, storia della musica, storia della politica, storia del costume. In una parola, la cultura del tempo come storia. La storia del tempo è l’unica cultura di questa città. Bisogna proseguire consapevolmente e fare storia. Tocca a noi. Storia buona, intendo. Ma attenzione, gli errori e la mediocrità qui sono subito visibili. Decidiamo.
Decidete se restare o andarvene. Se costruire con intelligenza, misura. O opporsi e avere mira.
«Non faccio il bene che voglio, ma il male che non voglio» scrive san Paolo. Parafrasando i termini, si compone un programma perfetto per Roma, come per altri luoghi cruciali della terra, in cui l’uomo non può agire, superficialmente o iniquamente, senza produrre grave e personale danno comune