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Lettera internazionale Anno 28 Numero 111 maggio 2012



La forza e il mistero delle parole

Walter J. Ong



Rivista trimestrale europea


SOMMARIO N. 111



Geografie della parola

Creoli o eurocentrici?
La lingua dà forma alle idee, Benjamin Lee Whorf
Luoghi in comune, Armando Gnisci
Il solitario occidentale, Franco Farinelli
Il pasto e l’amore presso i Merinas, Jean Paulhan
Gli omini di filo, Henri Michaux
Misura e dismisura. Il pensiero del tremore, Édouard Glissant
Come non tremare, Jacques Derrida
Frammenti di una conversazione, Édouard Glissant e Jacques Derrida
Il primo uomo. Il Nord, la letteratura e il colonialismo, Stefan Jonsson

Po-etici
Per la poesia e attraverso la poesia, Henri Meschonnic
La forza e il mistero delle parole, Walter J. Ong
Poesia al microfono, George Orwell

… e scrittori con il mondo
Dalla Linguamadre alla Madrelingua, Yoko Tawada
Il mio sfondo, Pico Iyer
Spettabili Fratelli Grimm, Christiana de Caldas Brito
Spire, Barbara Pumhösel

Libri ed eventi
A cura di Biancamaria Bruno, Caterina Di Rienzo, Anastasija Gjurcinova, Leonardo Caffo
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

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Victor Tsilonis
n. 120 ottobre 2014

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n. 119 giugno 2014

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Giuseppe O. Longo
n. 118 marzo 2014

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Karim Metref
n. 117 dicembre 2013

Operazione gemelle
Habib Tengour
n. 116 luglio 2013

Occhi rubati
Mahi Binebine
n. 115 maggio 2013


Flavio Favelli, Planisfero II, 2007

Sauro Cardinali, Il pasto delle farfalle, 2006

Gianfanco Chiavacci, Ricerca fotografica (opera302/RF), 1971

Cominciamo da una verità basilare sulle parole. Le parole sono suoni. In senso stretto, non sono affatto “segni”. “Segno” suggerisce “alla radice” qualcosa che si apprende attraverso la vista, dato che deriva dal latino signum che indicava lo stendardo portato dalle unità militari romane affinché fossero identificate a colpo d’occhio. La parola non è questo. Le parole vere non possono essere viste. Possono solo essere udite. Se sono in qualche modo un “segno”, sono al tempo stesso qualcosa di fondamentalmente diverso. Se da un lato è vero che le parole sono necessarie per dire il significato dei segni, dall’altro non è così vero che i segni siano necessari per dire il significato delle parole. Possiamo disegnare un suono? Possiamo fare un disegno per esprimere il senso di ogni singola parola in questo paragrafo? Un disegno per “qualche”, in grado di mostrare che aspetto abbia “qualche”? o “stesso”? o “perché”? o “dire”? o un disegno di “fondamentalmente”? Non disegni che rappresentino, secondo noi, queste cose, ma disegni che lo fanno e basta?


Reali ma invisibili

Ogni lingua umana si basa sul suono. Il pensiero umano è legato al mondo sonoro più che a ogni altro campo sensoriale. Persino le persone congenitamente sorde imparano a pensare e a parlare entrando indirettamente nel mondo delle parole che risuonano intorno a loro, un mondo creato da persone che parlano e che sentono.
Raccogliamo le parole dalla pagina scritta o stampata attraverso la vista, ma lo facciamo riconvertendole in suoni, oralmente o con la nostra immaginazione. Le parole scritte e stampate sono parole solo in quanto noi sosteniamo che lo siano. In realtà, non sono altro che tracce che forniamo affinché ci suggeriscano suoni. Non sono affatto parole vere. Se pensassimo che ciò che vediamo è più reale di ciò che udiamo, vuol dire che i nostri preconcetti scientifici, tecnologici e visivi ci stanno tradendo. Ma le parole viste sono parole fantasma. Noi non vediamo suoni reali (le impronte vocali non sono suoni reali). Il solo modo per percepire un suono direttamente è sentirlo. I suoni reali sono invisibili. Le parole pronunciate, emesse, sono quelle reali, anche se le persone poco istruite sono convinte da tempo che le parole reali stiano nel dizionario.
Questo non significa che la scrittura e la stampa non siano di grande importanza. Danno alle parole un potenziale nuovo e meraviglioso. Senza di esse la civiltà non può avanzare. Questo è vero più che mai nella nostra era elettronica, in cui scrittura e stampa non solo ci circondano, ma cambiano ruolo entrando in relazioni complesse con altre modalità di comunicazione. Senza la scrittura e la stampa, ciò che si trova su questa pagina potrebbe raggiungere pochissime persone. Tuttavia, la scrittura e la stampa rimangono fenomeni verbali secondari.
Il nostro pensiero è intimamente intrecciato col mondo del suono più che con qualsiasi altra area sensoriale. Niente esprime i nostri pensieri tanto prontamente quanto le parole. Niente rende il pensiero possibile quanto le parole. Si è detto che un’immagine vale mille parole. Se è così, perché dirlo? Proviamo a esprimere il contenuto di un’enciclopedia interamente con le immagini, senza parole – neanche una. Un’impresa impossibile, per non dire pazzesca.
Resta da studiare in maniera ben più approfondita perché il nostro pensiero si leghi in modo tanto immediato e intimo al mondo del suono. Nessuno conosce tutta la storia. Io ho suggerito, in The Presence of the Word [La presenza della parola, Il Mulino, 1970] e di nuovo in Rhetoric, Romance and Technology, che probabilmente la ragione centrale per l’unione intima fra pensiero e parole in ogni cultura umana mai conosciuta consiste nel modo in cui il suono è legato al tempo, all’esistenza presente (che è l’unica vera esistenza) e al potere.


Sulle ali della parola

Il suono esiste solo quando sta cessando di esistere, e lo stesso vale per le parole reali. Quando pronuncio la parola “esistenza”, ora che arrivo a “-tenza”, “esis-” è scomparso. E così deve essere. La scrittura e la stampa suggeriscono che la parola intera può essere presente in uno stesso istante. Ma non può. Le parole reali, quelle pronunciate, quelle che diciamo o che leggiamo devono susseguirsi. Questo vuol dire che non solo una serie di parole, ma anche le parti delle singole parole vanno prese una dopo l’altra, ad alta voce o nella nostra immaginazione.
I poemi omerici, che vengono da una cultura priva di scrittura, cantano di “parole alate”. Le parole volano via. Questo non significa semplicemente che se ne vanno. Vuol dire anche che sono forti. Il volo richiede un’energia straordinaria. E le “parole alate”, quelle pronunciate, quelle reali, segnalano un’azione piena di forza. Diversamente dagli altri campi sensoriali, il suono segnala sempre l’uso presente della forza. Un cacciatore primitivo può vedere un bufalo, odorarlo, toccarlo, assaggiarlo, quando il bufalo è completamente inerte o morto. Ma se sente un bufalo, è meglio che si guardi le spalle. Qualcosa sta accadendo. Per attivare i sensi, ovviamente, serve una forza – come quella delle onde luminose per la vista. Ma mentre possiamo sapere che gli altri sensi richiedono la forza fisica, non necessariamente percepiamo la stessa forza come ci accade con il suono.
Le persone provenienti da culture orali, come ancora esistono nelle regioni non tecnologiche del pianeta, sanno bene che le parole hanno forza perché, quando pensano alle parole, di solito pensano a quelle reali, pronunciate. Soprattutto negli Stati Uniti, che senz’altro possiedono l’impostazione mentale più alfabetizzata che il mondo abbia mai visto, troviamo difficile credere che le parole siano sempre suoni – primariamente, radicalmente e irriducibilmente.
Oppure, anche se ammettiamo che lo siano, è facile che fraintendiamo che cosa ciò significhi. Siamo pronti a pensare ai suoni come a lunghezze d’onda, a tracciati di oscillografo, forse a impronte vocali. Ma analisi di questo tipo non sono suoni, anche se possono essere bellissime in se stesse e assolutamente necessarie per chi voglia studiare il suono. Le nostre orecchie non avvertono i tracciati di un oscillografo. Solo il suono. Lunghezze d’onda, diagrammi e impronte vocali sono, per la realtà del suono, solo analoghi visivi, anche se straordinariamente validi. Grazie a essi riusciamo a capire attraverso la vista che cosa è il suono. Ma solo questo: il suono non è quello che si può rappresentare. Il suono non può essere ridotto interamente a nessun altro campo sensoriale. Non c’è niente come il suono e non c’è niente neanche come le parole. Non c’è nessun modello visivamente percepibile che si possa costruire in grado di rappresentare adeguatamente quel che succede quando usiamo le parole. Non esiste un modo per raffigurare pienamente la comunicazione verbale.
Siamo così abituati ad associare le parole con la scrittura e con la stampa che il senso di molte affermazioni profonde può sfuggirci o arrivarci in modo debole. Quando il Vangelo secondo Giovanni inizia con «Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio», l’evangelista, anche se stava scrivendo, certamente non aveva in mente la parola scritta, e men che meno quella stampata. Pensava alla parola umana come a un analogo del divino, ma anche alla parola umana così come arriva a noi in quanto suono vivo, vibrante, pieno di forza. Ma se la parola “parlata” dell’uomo evoca la Parola di Dio, al tempo stesso differisce profondamente da essa perché è evanescente. La parola dell’uomo è potente, ma è anche peritura, mentre «la Parola del Signore rimane in eterno». Tuttavia, la parola di Dio nella sua permanenza non è come la nostra scrittura, quanto piuttosto come il nostro silenzio da cui le parole emergono e che rimane. Il Verbo che è Figlio di Dio era in principio, è ora e sarà in eterno. E quando Egli si fece carne, non fu come ridurre il mondo vivo del suono – in cui la parola pronunciata ha il suo essere – alla quasi-permanenza di una superficie inscritta; fu come impiantare parola e silenzio in un corpo vivente.


L’ascoltatore parla mentre il parlante ascolta

Pensiamo spesso alle parole come a media o alla comunicazione come facente parte di un medium. Questo è un altro tentativo di immaginare le parole, di proiettarle nel campo visivo, e ciò crea tante difficoltà quante ne risolve. Medium significa qualcosa nel mezzo. Quel che le parole fanno è precisamente annullare questa mediatezza che separa te da me e me da te. Quando ti parlo, ti invito a entrare nella mia coscienza, così come io sto entrando nella tua. Quando mi ascolti, fai come se tu dicessi le stesse cose che dico io per capire se hanno senso o meno. Quando parlo, ascolto me stesso per vedere se quel che dico ha senso per te. L’ascoltatore parla mentre il parlante ascolta. Le parole sono inviti alla comunità, alla condivisione, all’esistenza in un non-medium.
Poiché la comunità dipende fortemente dal linguaggio, alcune delle divisioni più profonde nell’umanità oggi esistono per il fatto che diversi gruppi parlano lingue diverse. In molti paesi in via di sviluppo questo problema è enorme. I nigeriani, ad esempio, parlano molte lingue – non solo diversi dialetti, ma lingue differenti quanto l’inglese e il russo. Nessuno in questo grande paese – 56 milioni di abitanti – può parlare con tutti i suoi compatrioti a meno che non usi una lingua straniera per sé, per gli altri o per entrambi. La Cina e innumerevoli altri paesi hanno problemi analoghi. Non importa quanto poco sia parlata: ogni lingua è un tesoro in se stessa, ma la nostra moltitudine di lingue crea grandi problemi.


Finestre sul reale

Le lingue offrono al nostro pensiero sbocchi sul reale. Se una lingua particolare non offre prontamente una maniera di parlare di un determinato aspetto della realtà, è probabile che a quell’aspetto non si pensi. In francese non esiste un modo per dire smooth [“liscio”, “levigato”, n.d.t.]. In inglese posso dire che il vetro della finestra è smooth, che il prato è smooth, che la mia guancia è smooth (se mi sono rasato di recente), e che il fondo stradale fatto di lastre d’asfalto è smooth. In francese non esiste un concetto applicabile in questo modo a tutte queste cose. Dovremmo dire che il vetro della finestra è lisse. La mia guancia può essere molle. Il prato potremmo definirlo “ben tagliato” o “falciato in modo uniforme” o qualcosa del genere. Il fondo stradale, fatto di lastre d’asfalto, sarebbe semplicemente uni – cioè fatto da pezzi uniti in modo tale che se ci passi il dito sopra non senti troppo le giunture. Dal momento che in inglese non esiste un modo per esprimere questo concetto in modo economico, comunemente ci riferiamo a questo tipo di pavimentazione senza la specificità francese. Ci manca quella particolare finestra sul reale, la finestra di uni, così come i francesi non conoscono la finestra di smooth.
Ma la finestra che ogni lingua dischiude può essere utilizzata da altre lingue. Se volessimo occuparci del concetto espresso dal francese uni, faremmo quello che abbiamo sempre fatto in casi simili: semplicemente trasferiremmo la parola in inglese. Abbiamo fatto così con il termine francese milieu, che significa sia il “mezzo”, sia tutto quel che gli sta intorno. In opposizione, la nostra parola alternativa forse migliore, environment (anche questo un vecchio prestito dal francese), pone quel che è intorno a noi a una certa distanza. Così, per ottenere un concetto di cui avevamo bisogno, abbiamo formato il concetto milieu a partire dal termine francese. Generalmente, le lingue più ricche e più sensibili sono quelle che si sono “imbastardite” e “corrotte” con molti prestiti.
Si è detto che poiché tutti si esprimono con le parole, tutti pensano di poterne parlare. La verità è che è molto difficile parlare delle parole e costruire significato. Spero che queste brevi considerazioni servano se non altro a dare un’idea del mistero delle parole, della loro ricchezza e della loro complessa relazione con la vita umana.

Traduzione di Sarah De Sanctis
Il testo è stato pubblicato sul Saint Louis University Magazine 45, no. 5 (1972)



Walter J. Ong (1912-2003), antropologo e prete gesuita statunitense. Studioso di storia delle culture, retorica e processi comunicativi, ha insegnato alla Saint Louis University. È stato collega e amico di Marshall McLuhan ed è noto al pubblico italiano per i suoi studi sulla storia della scrittura e dell’oralità. Le sue pubblicazioni sono state tradotte in numerose lingue; nella nostra, segnaliamo: Conversazione sul linguaggio (Armando, 1993); Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, (Il Mulino, 1986). L.I. ha pubblicato: “L’età della scrittura”, n. 98, 2008.