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L'Urlo (2012) Anno 5 Numero 18 aprile-giugno 2012



Eugenio Carmi

Simona Clementoni

Il fabbricante di immagini



Trimestrale di Arte e Cultura


SOMMARIO n. 18



EUGENIO CARMI - Il fabbricante di immagini

di Simona Clementoni pag. 6

COVER FACTORY - L’Uomo schizoide del 21esimo secolo
di Sandro Petrongolo pag. 13

Nella materia - oltre la forma; l’addio a ANTONI TÀPIES
di Nello Arionte pag. 15

La riscoperta di un genio
ADOLFO WILDT: la poesia del marmo in mostra a Forlì
di Matteo Galbiati pag. 16

Il Guggenheim. L’avanguardia americana 1945-1980
di Nello Arionte pag. 18

ELECTRONIC ART CAFÈ
di Simona Clementoni pag. 23

IRONICA, DISSACRANTE, COLORISTICA.
L’ARTE DI BRUNO DONZELLI.
Di Alessandra Angelucci pag. 24

TOCCATA E FUGA
Arte Contemporanea: costruirsi uno sguardo
di Leonardo Conti pag. 29

Postmodernismo. Stile e sovversione 1970-1990
di Barbara Aimar pag. 30

Premio Italia Arte Contemporanea
di Piera Scognamiglio pag. 34

LUIGI CAPPELLUTI - La natura come tavolozza della vita
di Alessandra Angelucci pag. 36

DANIELA PATRASCANU - La pittura come catarsi
di Simona Clementoni pag. 38

FORTI & GENTILI - Consigli per acquisti di giovani artisti
di Giorgio Barassi pag. 41

PROFILI D’ARTISTA - Intervista a MONICA MARIONI
di Alessandra Angelucci pag. 42

CRE-ATTIVI. Urla il tuo estro!
di Simona Clementoni pag. 45

SPRING ON THE MOVE - Mostre, eventi & happening
di Elena Caslini pag. 46

FOCUS - Art First 2012
di Matteo Galbiati pag. 52


FOCUS - 7th Berlin Biennale for Contemporary Art
di Germana Riccioli pag. 56

TRA SCULTURA E ARCHITETTURA - I luoghi del vino
di Antonio Posabella pag. 58

NEWS DA URLO
di Deianira Tolema pag. 62


In copertina
EUGENI CARMI
Ribellione, acrilici e vernice su iuta, cm 116 x 116, 1975
Servizio a pag. 6
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Alberto Biasi
Simona Clementoni
n. 17 gennaio-marzo 2012


Ritratto di Kiky, cm 60 x 46, 1951

1.Cromosinclasmi, proiezioni di diapositive, luci colorate e forme geometriche su corpo nudo

1.Il cerchio e l’ansia, acrilici e vernice su iuta, cm 50 x 50, 2008

Apparentemente estroverso e poco conformista, spirito ansioso, ma fondamentalmente ottimista, Eugenio Carmi, “fabbricante di immagini”, come preferisce definirsi, è artefice di un universo artistico costituito da linee, cerchi e colori; un mondo, al tempo stesso anarchico e ordinato, che muta sempre nella sua riconoscibilità. Eugenio Carmi è anche un artista che scrive bene, con leggerezza e spesso con humour, non per teorizzare ciò che il proprio lavoro è impotente a significare o per rivendicare le ragioni narcisistiche del proprio linguaggio, ma per raccontare “sentimentalmente” della propria vita, di quello che sta facendo ed ancor più di quello che i suoi amici o collaboratori stanno facendo, valorizzando e promuovendo sempre entusiasticamente il loro operato. Scrive per suscitare interesse, dibattito e interventi responsabili. Carmi è uomo e artista radicato nel proprio tempo e di quello sostanzia la sua opera, mantenendosi sempre in una posizione di delicato equilibrio tra il ruolo di artista e quello di operatore culturale. Uomo “sociale” fermamente convinto della bontà della collaborazione e dell’armonia delle parti che compongono quel tutto che è il mondo civile, Carmi ha costantemente assecondato il bisogno di esplorare universi diversi dal suo, riconoscendo all’arte il ruolo di fattore di equilibrio, strumento per comunicare, creare relazioni, tentare di cambiare il mondo, anche se solo di pochissimo.
Se l’influenza di grandi maestri come Vasarely o l’ammirazione per Malevič sono immediatamente percepibili nel suo lavoro, più sotterraneo risulta l’influsso della chimica (che ha studiato al Politecnico di Zurigo per sfuggire ai campi di concentramento ) dove anche l’organico si esprime attraverso strutture e rigorosi legami molecolari senza che, per questo, le cose di natura siano meno colorate o meno in grado di trasmettere gioia. Alla conoscenza profonda della chimica si devono anche il suo modus operandi scientifico e rigoroso, la curiosità per i materiali più svariati – dal tessuto al vetro, dal metallo prezioso alla ceramica, dal plexiglass alla latta e alle lamiere di acciaio – e la capacità di valorizzare le loro possibilità tecniche ed operative.

Tutto il percorso artistico di Carmi, infatti, è caratterizzato da incontri determinanti e proficui, a cominciare da quello con Felice Casorati, nella cui bottega di Torino studia tra il 1947 e il 1948. Gli effetti di questa “scuola” ben si colgono nei dipinti figurativi risalenti alla fine degli anni Quaranta, specialmente nei ritratti di Kiky e Lisetta che già riflettono un’impostazione metafisica nell’essenzialità delle linee, tutte riportate in superficie, e nel rifiuto di ogni espediente di profondità, chiaroscuro, piani e prospettiva. Nel Ritratto di Lisetta, la pensosa figura femminile, interamente compresa all’interno di una sorta di prisma di segmenti e sfaccettature geometriche, si staglia sullo sfondo di un ampio reticolo di linee e aree di colore che esaltano l’assorto silenzio della donna, la sua presenza enigmatica ed elegante. Carmi è già orientato verso una dimensione astratta, completamente diversa da quella concreta e pragmatica della grande industria siderurgica in cui, nel 1956, è chiamato da Gianlupo Osti, manager colto e lungimirante, che ha compreso, prima di tutti gli altri, che il rinnovamento estetico non è un lusso superfluo, ma un’esigenza, anche per una fabbrica. Lì, nella Cornigliano/Italsider, tra giganteschi macchinari e lo stridio dei metalli, tra ingegneri ed operai laboriosi, Carmi, artista e grafico, si rivela anche eccellente art director e consulente di immagine. Memorabile la geniale cartellonistica antinfortunistica che, richiamando attraverso la parola, non la minaccia, ma l’organo minacciato, semplifica la grafica fino al massimo di efficacia e pregnanza comunicativa. Il suo linguaggio di quel periodo è informale, nel senso che non rappresenta nulla di immediatamente riconoscibile, procedendo invece alla circoscrizione o delimitazione di parti del supporto artistico con segni ovali o tondeggianti che racchiudono poi accadimenti pittorici esaltati da sfrangiature di colore, interventi a collage o variazioni di intensità tonale, come nel famoso Manifesto per l’XI Triennale di Milano del 1957. Sul finire degli anni Cinquanta, dunque, come responsabile dell’immagine dell’acciaio italiano, avvalendosi della collaborazione di molti altri talentuosi artisti, Carmi porta la bellezza in fabbrica, interpretando il prodotto industriale come possibile fonte estetica e contribuendo alla creazione di una iconografia avanguardistica dell’azienda. Cresciuto alla scuola del Costruttivismo e del Bauhaus, ed assimilandone il senso ideologico e metodologico, Carmi giunge ad una sistematica inversione di apparentemente necessario ed apparentemente superfluo, di bello e di utile, dimostrando che l’acciaio può essere un pregevole materiale artistico e che l’arte è necessaria ad una coscienza autenticamente moderna tanto quanto gli stessi prodotti siderurgici.

Acciaio e ferro, dunque, al servizio di un nuovo linguaggio estetico che trova la sua massima espressione nella mostra “Sculture nella città”, realizzata a Spoleto nel 1962, nell’ambito del V Festival dei due Mondi, avvenimento tra i più significativi nella storia della scultura italiana del XX secolo. Interpellati da Giovanni Carandente, uno dei maggiori esperti di scultura moderna, Carmi e Carlo Fedeli, con la complicità determinante di Osti, non solo forniscono la loro collaborazione agli artisti, ma destinano numerosi stabilimenti e l’assistenza di operai specializzati a ciascuno di loro, permettendo così la nascita di opere fino ad allora impensabili, come il gigantesco Teodolapio di Alexander Calder, che ancora campeggia davanti alla stazione, il Colloquio col vento di Pietro Consagra e la serie di sculture Voltri di David Smith. In quell’occasione Carmi realizza All’Algeria, una scultura misteriosamente scomparsa, costituita, come afferma Martina Corgnati, da «un accumulo di scarti di lavorazione, lastre frammentarie di recupero, apparentemente precipitate, ma anche in via di risollevarsi come l’Algeria, forse, dallo strazio di una cruenta guerra di liberazione». Questa dimensione della scultura pubblica, replicata per altre due volte nel 1965, con il monumento per l’Italsider di Taranto e quello per il Politecnico di Napoli, si esaurisce in quello stesso anno, restando unica nell’itinerario artistico di Carmi.

Inesauribile sperimentatore, intorno alla metà degli anni Settanta, l’artista avverte l’esigenza di esplorare le valenze combinatorie dell’immagine, realizzando due tra le primissime macchine interattive: la SPCE (Struttura Policiclica a Controllo Elettronico), esposta nel 1966 alla Biennale di Venezia, e Carm-o-matic, presentato nel 1968, in occasione della mostra “Cybernetic Serendipity”, all’Institute of Contemporary Art di Londra. Per i suoi generatori di immagini, ben più avanzati delle macchine azionate meccanicamente costruite nello stesso periodo dagli esponenti dell’Arte Cinetica e Programmata, Carmi utilizza complicati interruttori elettronici basati su principi cibernetici. Per Carm-o-matic, in particolare, facendosi finanziare dalla Olivetti, Carmi lavora con ingegneri elettronici per realizzare un “oggetto” in cui, come dice Umberto Eco, una serie di immagini, poste su un cilindro ruotante a 1.500 giri al minuto e illuminato casualmente da luci stroboscopiche, combina strisce policrome, lettere alfabetiche o gruppi di figure che si imprimono per archi di tempo brevissimo sulla retina dello spettatore. Poiché le luci stroboscopiche individuano casualmente le immagini, le combinazioni sono dell’ordine di milioni. Per aumentare la casualità, la macchina è sensibile all’influenza dell’ambiente (luce, calore, rumori) o alle sollecitazioni dei presenti. Con la SPCE e Carm-o-matic, dunque, le immagini sono il risultato di una probabilità, frutto dell’interazione di molteplici fattori in cui lo spettatore gioca un ruolo determinante.
Al 1971 risale un importante testo di Pierre Restany dedicato ai Cromosinclasmi, ossia proiezioni di diapositive di immagini tipiche di Carmi, fatte di luci colorate e irrigimentate in forme geometriche e bande discontinue, su corpi nudi di belle ragazze, a conferma della sua fertile frequentazione con materiali e supporti diversi ed imprevisti. Nel 1973 il suo cammino artistico procede in direzione dell’elettronica e del video totalmente astratto. Negli studi destinati dalla RAI ai Programmi Sperimentali, Carmi ha l’idea di puntare due telecamere a circuito chiuso l’una contro l’altra, filmando le misteriose interferenze prodotte di rimbalzo dall’una all’altra a partire dalla più semplice dissimmetria.

Filo conduttore della produzione artistica dei Eugenio Carmi è anche l’utilizzo del segno verbale, lo slittamento continuo ed imprevedibile dal piano della lettura a quello della visione e viceversa. Ma il suo stile raggiunge la piena maturità all’inizio degli anni Settanta, quando la sua pittura conosce varianti, qualche deviazione e arricchimenti materici grazie al piacere di dipingere su tela di iuta grezza o di cotone. Il suo linguaggio si impreziosisce di effetti all’acquerello e frequenti ricorsi al collage, affrancandosi anche dall’influsso di Vasarely, molto più evidente nella fase iniziale. Quadrati, cerchi e semicerchi, angoli, strisce e bande di colore sostanziano la sua pittura che si avvale anche di ispessimenti materici e volute imperfezioni della superficie; un valore tattile che l’artista insistentemente integra nelle sue composizioni che, benché formalizzate e geometriche, accentuano progressivamente gli aspetti intuitivi affidati alla percezione e alla sensibilità umana. Col passare degli anni si intensifica la promiscuità dei materiali e la frequenza delle inserzioni di collage; la materia interagisce col pensiero, strutturato in forme variopinte. Gli elementi, i “tasselli” che concorrono al gioco combinatorio dell’artista sono sempre gli stessi, ma la loro articolazione nel vuoto della superficie pittorica consente mille varianti, sorprendenti allusioni, liriche narrazioni.
Carmi trasforma i suoi cerchi e semicerchi, i quadrati, le strisce e le bande di colore in personaggi di un racconto. I rossi, i blu, i bianchi, i gialli e tutta la sua peculiare tavolozza interagiscono con le figure nella narrazione di “favole geometriche” che dispiegano l’ampia gamma di sentimenti umani: ribellione, speranza, amore, timidezza, dubbio, angoscia, tensione, ansia, gioia, desiderio di evasione, anelito verso l’infinito.

Sorprende anche in questo Eugenio Carmi, spirito ordinato e organizzato, ma libertario; educato alla forma e al colore senza mai perdere la sua peculiare e delicata vena lirica. Ben consapevole di leggi gestaltiche e attitudini percettive, scale cromatiche e tavole cromatologiche, Carmi inventa un mondo dove una semplice inclinazione di qualche grado basta a mettere in dubbio ogni certezza e dove una sottile linea che si insinua in un campo monocromo riesce a spazzare l’inerzia del pensiero troppo abituato al gregarismo e alla massificazione. Educando alla continua rottura di modelli e schemi e ribadendo la necessità del loro costante avvicendamento, non solo da opera a opera, ma all’interno di una stessa opera, Carmi, creatore di coscienza, concepisce l’arte come strumento pedagogico con funzione liberatoria, indicando all’uomo moderno, malato di conformismo, una possibilità di recupero e di autonomia.

UNA BIOGRAFIA DEI SENTIMENTI: ANEDDOTI E CURIOSITÀ

Curare una rubrica come GRANDI MAESTRI riserva un privilegio impagabile: il potersi immergere ogni volta nel ricco ed intenso universo artistico ed umano di personaggi che hanno fatto la storia del nostro tempo in virtù della genialità delle loro creazioni, ma anche e soprattutto del valore della loro testimonianza esistenziale capace di lasciare un segno indelebile nell’animo di chi, con curiosità e sensibilità, si accosta alla loro figura e al loro lavoro.
Eugenio Carmi è indubbiamente uno di questi spiriti geniali, nome di indiscusso talento nel panorama artistico di questo secolo, nonché grande affabulatore e comunicatore, capace di far vibrare le corde dell’anima come narratore oltre che come artista. Da sempre, in questo particolare spazio della rubrica GRANDI MAESTRI, ho cercato di raccontare gli artisti in maniera diversa: non tramite le consuete notizie biografie facilmente reperibili in rete o sui cataloghi, ma attraverso aneddoti e curiosità, acquisite dalla loro viva voce, che permettano al lettore, e prima ancora a me stessa, di assaporare il loro vario e “caldo” vissuto, scoprendone aspetti inediti ed illuminanti. Eugenio Carmi, in modo del tutto inconsapevole, ma per una sorta di misteriosa emotiva affinità, mi ha fornito proprio ciò che cercavo per raccontarlo in modo intenso e commovente, a partire dalle circostanze della sua nascita, degne dell’incipit di famosi romanzi quali il memorabile La vita e le opinioni di Tristam Shandy gentiluomo di Laurence Sterne.
È così che voglio presentarvelo, intervenendo al minimo sulle sue stesse parole.

La nascita e la famiglia di origine
Eugenio Carmi nasce a Genova il 17 febbraio 1920. I suoi genitori sono di origini piemontesi, ma suo padre, ribelle fin da adolescente, a 13 anni lascia la casa paterna e si ritrova a Genova in cerca di lavoro. Essendo intelligente ed intraprendente fa carriera, si sposa e si stabilisce nella città ligure.
A quel tempo si nasceva in casa con la levatrice che, non avendo alcun segno di vita da parte del piccolo Eugenio, lo accantona comunicandone la morte. Suo padre, sempre caparbio e mai disposto ad arrendersi, ha la prontezza di spirito di immergerlo prima in un catino di acqua fredda e poi subito in uno di acqua calda. È a quel punto che il bimbo decide di annunciare la sua venuta alla luce con un pianto vigoroso. «Mio padre fu felicissimo», dice Carmi, «se in quell’ora avesse avuto un appuntamento di lavoro, beh, il mondo avrebbe fatto a meno di me e nessuno se ne sarebbe accorto».
L’infanzia e l’adolescenza
Eugenio si rivela subito, come suo padre, bambino piuttosto ribelle, timido e anticonformista. Già a sei anni si rifiutava di camminare in fila, a passo ritmato, su una righetta bianca sul pavimento della palestra dove la mamma lo portava a fare ginnastica, mentre una signorina attempata suonava al pianoforte la canzone fascista “Fischia il sasso”. Appena la marcia iniziava lui usciva dalla fila urlando: «Non voglio camminare sulla righetta!». Di famiglia ebraica laica, molto liberale e non osservante, fin da ragazzo, Carmi riconosce l’universo come sua religione e si dimostra sempre fiero di essere italiano. Verso i 14 anni dipinge un vaso di gerani, a 17 un paesaggio di alberi in campagna. Avrebbe studiato Arte se Mussolini, per ubbidire a Hitler, non gli avesse impedito di entrare in terza liceo con una legge promulgata nel settembre 1938. Allora emigra in Svizzera dove suo padre riesce a trovare un liceo italiano, vicino a Zurigo, nel quale prende la maturità.

La Svizzera
A seguito dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Carmi si trasferisce in Svizzera dove vive in una camera d’affitto con suo fratello. Vorrebbe iscriversi ad Architettura, ma la maturità italiana non è sufficiente per il Politecnico, così opta per Chimica, essendo quella la facoltà che richiede meno esami di ammissione. Dei suoi genitori non ha più notizie da quando i tedeschi hanno occupato l’Italia, finché un giorno anche loro arrivano come rifugiati in Svizzera, insieme a tanti altri italiani ospitati nei campi di internamento.

Il ritorno in Italia
Con la capitolazione dei tedeschi in Italia il 25 aprile 1945, Carmi inizia una nuova vita. Rientrato in famiglia, a Genova, dove i suoi sono già stati rimpatriati, la sorella gli presenta una ragazza che lo colpisce profondamente per l’intensa espressività dei suoi occhi e la grande bellezza riservata. Si chiama Kiky Vices Vinci; è di famiglia cattolica, ma anche lei assolutamente laica e molto colta. Si sposano nel 1950 e dalla loro unione nascono un figlio e tre figlie. Carmi impara così a conoscere le donne fin da bambine, percepisce le loro forze e le loro debolezze, le loro difficoltà rispetto ai maschi e questo lo porta in seguito a lottare politicamente per i loro diritti, seguendo anche con apprensione l’impegno politico dei suoi tre figli più grandi nelle manifestazioni degli anni Sessanta e Settanta.

Sua moglie Kiky e l’inizio della carriera artistica
«Quando penso ad una donna da amare, penso a lei», dice Carmi di sua moglie Kiky che lo ha lasciato nel 2007. Lei fu la sua guida e la sua maestra di vita. Coltissima, amante del cinema e dei libri, fu artista di grande talento, ma la sua riservatezza e il disprezzo della pubblicità, oltre che l’amore per i figli e la famiglia, la indussero a rimanere nell’ombra, lasciando però un patrimonio spirituale ricchissimo ai suoi cari.
La carriera artistica di Eugenio Carmi inizia proprio nel 1945 - ’46 quando, con Kiky, andava a dipingere angoli della città di Genova. Nel 1947 - ’48 Carmi è allievo di Felice Casorati a Torino, poi, tornato a Genova, si occupa di grafica. Quelli successivi sono anni importanti per l’artista: gli anni del matrimonio, della nascita della prima figlia, della frequentazione assidua con gli Scanavino, loro vicini di casa, e dell’acquisto, nel 1956, di un appartamento sul mare a Boccadasse, storico borgo di pescatori ai margini di Genova. Lì trova anche uno studio dove si reca tutti i giorni a dipingere.

l’Italsider, il Gruppo Cooperativo di Boccadasse e la Galleria del Deposito
Proprio nel 1956 Gianlupo Osti, dirigente illuminato e colto, convinto che un’industria debba creare cultura e diffondere bellezza, gli offre di curare l’immagine delle acciaierie Cornigliano, poi Italsider, e la grafica della rivista aziendale. In collaborazione con Vita Carlo Fedeli, giornalista intelligente ed estroverso, capo ufficio stampa e direttore della Rivista Italsider, Carmi ingaggia numerosi protagonisti del panorama artistico nazionale ed internazionale per realizzarne la copertina, convincendo poi la direzione dell’Italsider ad ospitare i maestri della scultura mondiale scelti da Giovanni Carandente, curatore della mostra “Sculture nella città” (1962), un evento culturale ed artistico di primaria importanza nella storia di quegli anni e della sua vita. Nel 1963, con sua moglie Kiky ed altri sette amici, fonda il Gruppo Cooperativo di Boccadasse e insieme aprono anche una galleria in riva al mare, la Galleria del Deposito, dove si avvia una molto ideologica e sperimentale produzione di multipli di ogni genere in compagnia di alcuni “soci” convinti, come lui, che l’arte debba costare poco ed entrare nelle case di tutti. Coinvolgendo nella sua iniziativa alcuni dei migliori talenti del momento, come Max Bill, Giuseppe Capogrossi, Getulio Alviani, Arnaldo Pomodoro, Piero Dorazio, Enrico Baj, César, Pierre Restany e Gillo Dorfles, Carmi intende diffondere il lusso a buon mercato, ma l’utopico progetto s’infrange contro l’insormontabile aristocraticismo del mercato dell’arte ammalato del culto dell’opera unica.

A Milano
Nel 1971, con tutta la sua famiglia, Carmi si trasferisce a Milano dove ha uno studio in Corso di Porta Vigentina. Per il Servizio Programmi Sperimentali della RAI, nel 1973, realizza un programma astratto di 25 minuti e, nello stesso anno, tiene seminari di arte visiva negli Stati Uniti. Negli anni Settanta insegna alle Accademie di Macerata e Ravenna. Illustra anche tre favole di Umberto Eco, pubblicate in Italia e all’estero. Innumerevoli sono le mostre personali e collettive, i premi e i riconoscimenti che Eugenio Carmi ha ricevuto nella sua lunga e prestigiosa carriera ma, rispettando la sua volontà e il suo pensiero in merito alle “normali biografie” che lui stesso, trovandomi pienamente d’accordo, definisce noiose, mi limito a rimandare ai tanti libri e cataloghi pubblicati su di lui, ricordando solo che la più importante mostra antologica della sua opera fu allestita dal Comune di Milano nel 1990, seguita dalla prestigiosa rassegna dedicatagli dalla città di Budapest, nelle sale di Palazzo Reale, nel 1992.