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Virus (1994 - 1998) Anno Numero 14 nov.'98



Societas Raffaello Sanzio - Conversazione con Claudia e Romeo Castellucci

Francesca Alfano Miglietti



Mutation
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Societas Raffaello Sanzio Giulio Cesase(III atto) foto Silva/Contrasto

Societas Raffaello Sanzio Giulio Cesase(III atto) foto Silva/Contrasto

Societas Raffaello Sanzio Giulio Cesase(III atto) foto Silva/Contrasto

Nuovo, appassionante incontro con la Societas Raffaello Sanzio, una delle compagnie teatrali piu' interessanti e anomale del panorama internazionale.
Giulio Cesare: corpi segnati, modificati, alterati, corpi obesi e anoressici, e ancora corpi vecchi e malati. Cosa modifica cosi fortemente il corpo? Incontriamo Claudia e Romeo Castellucci in occasione della rassegna milanese MilanOltre, che ancora una volta propone un programma prestigioso e importante.

AM: Da quanti anni si è formata la Raffaello Sanzio?

Claudia Castellucci: Non si può dare una data precisa...il teatro come attività seria e consapevole è cominciato alla metà dell?81.

Cosa vi tiene insieme?

C.C.: Il teatro. E quindi il legame con una applicazione, il legame con una sequenza di figure a cui si vuole dare vita.

Che cosa è la disciplina?

Romeo Castellucci: La disciplina è una durezza che ti si rivolta contro, un bagno di violenza necessario per partorire le figure.

Che cos?è la violenza?

R.C.: L?implacabilità dell?azione, del pensiero attorno a una figura, la nascita di una figura.

Quanto incide il concetto di teatro classico sul vostro lavoro?

R.C.: Incide molto perché la configurazione classica del teatro è sempre presente, a partire dalla forma della tragedia, una forma antagonista, da combattere, ma comunque una forma da cui in ogni caso si deve partire.

Che rapporto c?è tra classico e avanguardia? Si potrebbe dire che è la stessa cosa?

R.C.: Io direi di si. Nel senso che l?avanguardia è l?estensione del classico, l?estrema frangia. Anche la tragedia era avanguardia ad un certo punto, Euripide era lo sperimentatore più folle.

Nel vostro lavoro c?è una straordinaria capacità di contaminazione tra ambiti, tra generi, pur restando spesso legati ad una classicità del testo, alla strutturazione del concetto di tragedia, però con una capacità di metamorfosi all?interno di una partitura data...

R.C.: Forse non parlerei di contaminazione perchè le cose nascono contemporaneamente, non c?è un campo che sfocia in un altro e viceversa.

C.C.: Forse la parola esatta è combinazione.

R.C.: Esatto, anche perché molto spesso si tratta di alchimia minima per cui le cose devono scatenarne di nuove...

C.C.: In modo calcolato.

R.C.: Queste reazioni chimiche nascono anche dal lavoro di retorica sui corpi e sulle figure, quindi giocando sulle figure della retorica per scatenare una forma di comunicazione il più profondo e radicale possibile fino ad arrivare, a volte, ad una comunicazione corticale e quindi di pura sensazione.

Che cosa è per voi la parola "con-fusione" che abitualmente è intesa come caos, invece significa fondere insieme, che in alcuni momenti sembra poter definire il vostro lavoro, la fusione di elementi calcolati?

R.C.: A volte la confusione è necessariamente un punto di partenza per andare poi verso la combinazione. A volte invece succede esattamente l?opposto, ma questo dipende dalla dinamica dei vari lavori, dal tipo di grafico che hanno, dal tipo di cadute e di rilascio. A volte, dicevo, la confusione è il punto di arrivo dove tutto si confonde, è il caso di Giulio Cesare dove io avverto che si parte da una specie di ordine e si va spediti verso una confusione finale dove tutti gli elementi precipitano vorticosamente in questa specie di imbuto dove tutto si comprime. Nel caso del Giulio Cesare tutto si comprime nelle figure che passano per l?esperienza del fuoco, tutto è ridotto a telaio, sia le parole che i corpi degli attori che la scenografia, e si confondono tutte le forme in questo essere telaio, in questo minimo comune denominatore che è la struttura, lo scheletro.

C.C.: Io preferisco la parola fusione, nella combinazione può intervenire la fusione dei vari elementi senza perdere le caratteristiche individuali. Nella fusione si genera un insieme di individui che restano tali.

In un vostro testo c?era una frase straordinaria che è "voglio esercitare il mio diritto al pregiudizio", lo esercitate ancora questo diritto?

C. C.: Per quanto mi riguarda certo, nella vita pratica tantissimo. Il pregiudizio è difendersi dalla quantità, nel mio caso. Essere attratti a seguire solo ciò che in quel momento è conseguente a quello che si sta facendo o a quello che si sta pensando. Ci sono delle cose che pur non conoscendole, io non voglio conoscerle. Questo però è ineffabile, anche perchè un giorno capita così e la volta dopo capita l?opposto. Ma questo non deriva da una questione di volubilità, è questione di concentrazione, per cui in un dato giorno è possibile che mi interessi una cosa che il giorno dopo o il giorno prima non mi interessava. Comunque il pregiudizio è un atto pratico, ... la quantità dei fenomeni mondiali è accasciante... però questa quantità è una dannazione per la quale esiste l?arte, dopotutto. Il miracolo per l?arte è che il mondo v?è, e v?è ciò che v?è...

Vedo che, anche dopo tanti anni, state molto attenti anche ai termini. Così come nei vostri spettacoli c?è una terminologia "tradizionale", oppure una partitura "tradizionale", classica. Invece volevo sfidarvi su delle parole nuove, ad esempio cos?è la mutazione.

C.C.: Tutti gli elementi sono equivalenti in teatro, tutti, non esiste una gerarchia precostituita, esiste una gerarchia di tipo... come si diceva prima... in questa dinamia che viene descritta dalla rappresentazione... esiste un movimento di potenza, un movimento di modificazione, in questa dinamia non esiste una gerarchia predefinita, cioè avulsa da questa dinamia per cui conta più l?attore, poi conta la scenografia, poi conta, poi conta... No: in questa dinamia tutti gli elementi devono avere un loro posto e quindi la gerarchia esiste però è orizzontale, cioè tutti hanno lo stesso valore drammaturgico, è solo una questione di sistemazione di questi pesi e potenze perchè arrivano e ti modificano. La mutazione quindi è, per me, una capacità di modificazione delle cose e delle percezioni, della sensibilità. L?arte ha questa capacità, è questa tecnica di modificazione della realtà, e questa tecnica viene attuata tramite la dinamia cioè un calcolo delle potenze che tu riesci a smuovere.

R.C.: Secondo me proprio il teatro in modo particolare è l?arte della mutazione e della modificazione, perchè senza mutazione non scocca il teatro oppure un teatro senza mutazione è un teatro assolutamente non interessante che sarebbe bene battezzare con un altro nome. Perchè in ogni forma teatrale la figura ha una modificazione: parte in una forma e necessariamente deve finire in un?altra forma, c?è una trasmigrazione di corpo e di segno, di corpo che si fa segno, soma-sema. Necessariamente deve avere un itinerario, un passaggio fiabesco la figura. Nel caso del "Giulio Cesare" è ancora più evidente perchè i personaggi cambiano, gli attori cambiano, c?è un?accelerazione totale in questo senso. In ogni caso se non c?è mutazione in una figura iniziale c?è l?inerzia più... e questo non può funzionare.

Che cos?è l?identità?

R.C.: Il lavoro del teatro si scontra continuamente con il concetto di biografia. Il teatro che noi pratichiamo, e a cui ci rifacciamo, è, invece un teatro antibiografico, nel senso che la biografia e l?identità viene necessariamente combattuta. Il problema del teatro è proprio quello di moltiplicare all?infinito l?identità. E? una pratica molto simile al Carnevale. Io sento molto questa comunanza con la maschera, con il Carnevale...Non mi convincono le estreme rigidità di alcune autobiografie...Preferisco la trasmigrazione, tendere da una forma all?altra, una identità fluttuante molto simile al gioco infantile. Lo stesso costume allude a un mondo possibile e perfetto, ma al contempo questa ulteriore possibilità è spaventosa, può essere definitiva...Mi spaventa molto l?idea di una ulteriore biografia, per questo preferisco la maschera, la maschera di Zorro...

Perchè continuate a dire che fate teatro?

R.C.: Non trovo un vocabolo alternativo...
Ma pensate che abbia ancora un senso separare gli ambiti della conoscenza?

R.C.: No, quando noi parliamo di teatro alludiamo ad un luogo fisico, le nostre ?rappresentazioni? avvengono in teatro...Però, forse, rispetto a quello a cui comunemente si riferisce con il termine teatro noi dovremmo usare un altro termine, oppure gli altri dovrebbero usarne un altro...

C.C.: Per me il teatro non è quello generalmente inteso. Per teatro intento un teatro elementare che è una stanza, un palcoscenico, delle persone che sono consapevoli di fare delle cose davanti ad altre persone. Solo questa definizione determina un tipo di costruzione drammatica che ha a che fare con il tempo, il manipolare questa potenza, cose che la performance, ad esempio, non ha come preoccupazione...Giustamente, ha altri obiettivi

R.C.: Il teatro rispetto alla performance è sempre fiabesco, ti conduce in un nuovo territorio in cui è necessario smarrirsi. La performance non necessita di un sipario, del buio, di una cesura.
Il teatro ha bisogno di questa chiusura di palpebre per poi riaprirle in un altro mondo, ecco perchè è possibile la mutazione, la modificazione, perchè è un viaggio fiabesco...

C.C.: Proprio per questo ha bisogno di tutte le morfologie.

R.C.: In questo senso viene in mente, in modo un po? altisonante, il sistema di Wagner, in cui erano presenti tutti gli elementi: testo, scenografia, movimenti, suoni e i primissimi esperimenti di lavoro sulle luci.

C.C.: Anche se lì c?è uno sbilanciamento sul testo, neanche di livello accettabile, perché la drammaturgia è ferma da anni.

Io penso che le categorie siano ormai saltate, così come anche i luoghi ?deputati?: galleria, teatro...

C.C.: Io sono la prima a dire che la galleria è snervata, che il teatro è snervato.

R.C.: Noi ci sentiamo molto più vicini ad artisti che praticano tecniche molto diverse dalla nostra: scrittori, disegnatori, architetti, musicisti... I nostri riferimenti derivano da uno sguardo che non ha i propri confini nel teatro nel senso tradizionale del termine.

Che ruolo ha il corpo, la scelta di corpi così fortemente segnati, in uno spettacolo come "Giulio
Cesare"?

R.C.: Tutto nasce da un lavoro che si fà sul testo, che poi diventa un lavoro contro il testo. Nasce da esigenze drammaturgiche, deve essere possibile la visibilità del percorso. I corpi si devono trovare nel mondo e si devono inserire perfettamente come problema di forma. La forma di un corpo che sale sul palcoscenico deve essere a priori bella e perfetta e pronta. Il corpo deve essere già pronto. Io non credo nella potenza delle prove, io mi sento di lavorare con persone più belle, più perfette, quindi si tratta di scoprire dei corpi per poi scoprire delle avventure. Per me lavorare con un attore laringotomizzato, l?attore che interpreta Antonio è stata un?autentica avventura, è stata la scoperta di molte cose. Oppure lavorare con corpi leggerissimi...Per me è stato molto forte lavorare con Elena e Cristiana che non hanno peso sul palcoscenico, lo sfiorano. Sono questi corpi che mi modificano e che modificano il mio lavoro.

E in questo la scelta di corpi così ?umani??

R.C.: Bruto e Cassio nel secondo atto sono corpi femminili e anoressici, Bruto e Cassio in Shakespeare sono presentati come due generali sui campi di battaglia, e per me i corpi anoressici
sono corpi militareschi, armati, che conducono una battaglia feroce nei confronti di se stessi e, tra l?altro, Bruto e Cassio sono due generali sconfitti e i corpi anoressici sono corpi sconfitti, e come tali corpi perfetti. Così come, a mio avviso, sono perfetti i 180 chili di Cicerone e la vecchiaia decrepita di Giulio Cesare o Antonio, che è la voce retorica, che vince e che nello spettacolo esce da una ferita (l?attore laringotomizzato).

Tutto è vissuto in senso fiabesco. La fiaba è capace di trasfigurare qualsiasi corpo, suono o malattia...

Quanto ?Corpo Glorioso? c?è in tutto questo?

R.C.: Molto Corpo Glorioso, perchè sono tutti corpi meravigliosi. Corpi segnati ma meravigliosi.

E quanto ?Corpo Senza-Organi? c?è?

R.C.: Molto spesso qui si avverte quasi il contrario, cioè gli organi sono quasi separati e diventano a loro volta corpi. E? una complessità non riconducibile all?organismo ma ad una organizzazione, al ?corpus?: tutto questo è molto chiaro in Antonio dove l?organo della fonazione diventa un apparato, l?attore respira elio per modificare la tonalità della voce, gli viene applicato un vibratore alla glottide, viene utilizzato un endoscopio.

A cosa state lavorando adesso?

R.C.: Ad "Hansel e Gretel". Stiamo preparando un allestimento immenso. Il teatro in cui lavoreremo sarà sconvolto fin nelle fondamenta, non si vedrà niente del teatro, neanche un centimetro quadrato. E? un sistema di tunnel in cui i bambini si perdono e il pubblico con loro. E? tutto una specie di grande apparato digerente dove attori e spettatori sono digeriti. E? lo stesso percorso della narrazione, man mano che la narrazione va avanti il pubblico si sposta con essa fisicamente?

Uno speciale ringraziamento a EMANUELA CALDIROLA, prezioso Ufficio Stampa dei Teatridithalia