L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Virus (1994 - 1998) Anno Numero 14 ott-nov '98



Teddy Bears Company

Intervista di Antonio Caronia



Mutation
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

LOIS KEIDAN
intervista di Franko B
n. 2 febbraio '98

Fear and loathing in Las Vegas di Terry Gilliam
Gianni Canova
n. 4 sett-ott-nov

Jenny Holzer - Interview
by Florence Lynch
n. 10 gennaio 1997

Incontro con Lea Vergine
FAM
n. 10 gennaio 1997

Renée Cox
Interview by Cristinerose Parravicini
n. 14 ott-nov '98

Movimento lento
di Renata Molho
n. 14 ott-nov '98


Teddy Bears Company : Nightwave, Rimini 1997, foto A.Sechi

Teddy Bears Company:

Novembre 1993: la direzione artistica della discoteca Cocoricò di Riccione vuole sperimentare nuove vie per l?animazione delle proprie serate, e incarica una danzatrice-attrice di Ravenna, Monica Francia, di studiare una performance del tutto fuori dagli schemi. La - come chiamarla? - azione scenica, basata su alcune figure crocifisse, ha un grande successo tra i frequentatori della discoteca, che decide di proseguire l?iniziativa. Nasce così la Teddy Bears Company, Compagnia degli orsacchiotti (ma attenzione: la sigla suona TBC come tubercolosi, malattia apparentemente debellata che invece continua, strisciante, a serpeggiare). Monica abbandona ben presto la presenza dal vivo, ma rimane a curare la "coreografia" delle performance: come front men rimangono due giovani attori, Gerardo Lamattina (studi al Dams, video, è stato aiuto regista del film di Mazzacurati Vesna va veloce), che fa da "direttore artistico" e Luigi de Angelis (studi di filologia classica, attività teatrale meno barricadiera, ma non per questo tradizionale, nel gruppo "Fanny e Alexander"), a cui si aggiungono di volta in volta altri attori-danzatori. Questo "teatro da discoteca" (così definiscono il loro lavoro quelli della TBC) sfida convenzioni e abitudini dei frequentatori, proponendo sculture umane, corpi come arredi, come "cose", oggetti passivi ma non inanimati (le categorie della riflessione estetica di Mario Perniola sembrano particolarmente adatte a descrivere il loro lavoro). Statue di gesso che si muovono lentissime ed esasperanti, Pinocchi con grembiulino da scuola e naso finto distesi a terra, immobili, in una pozza di sangue, corpi chiusi in una teca di plexigas in compagnia di migliaia di mosche: sono solo alcuni esempi di un lavoro che lascia lo spettatore inquieto e imbarazzato, che esclude l?indifferenza.

Antonio Caronia: Che rapporto c?è, nella vostra attività, tra la committenza delle discoteche e la progettazione delle azioni?

Luigi de Angelis: Questi lavori nascono con una motivazione commerciale, io non voglio nasconderlo né a me stesso né agli altri, però hanno anche una dimensione di ricerca. Ecco, noi ci interroghiamo continuamente sulla zona di sovrapposizione e di attrito fra queste due motivazioni. In altri termini: io vado a prostituirmi, ma voglio anche ricavare un piacere da quello che faccio. Marchetta d?arte, diciamo così, e ricerca. Per esempio ricerca sul corpo, sui limiti della sua rappresentabilità: noi giochiamo proprio sull?abitudine che c?è al simulacro, al doppio, e proponiamo delle azioni che, per i ritmi dilatati, l?immobilità, etc., pongono allo spettatore il problema di ciò che è autentico e di ciò che è finto. Non è un caso che noi proponiamo il nostro lavoro nelle discoteche, dove la fisicità del corpo trionfa, nell?esaltazione anonima della folla.

Gerardo Lamattina: Bisogna anche dissipare un equivoco. Noi ci rifacciamo, fra l?altro, a esperienze artistiche come la body art, o l?azionismo viennese, e questo traspare dalle nostre
performance. Però non abbiamo affatto un?intenzione divulgativa, non vogliamo "portare" alle masse delle discoteche una versione semplificata di queste correnti artistiche. A noi serve come punto di partenza, ma il risultato dev?essere un?esperienza immediata, una messa in crisi della percezione dello spettatore senza riferimenti colti. Si fa cultura anche in questo modo, anzi spesso è più interessante.

Luigi: Per me quest?esperienza è molto utile, in confronto a quella che faccio con il teatro di ricerca. Questa dimensione di gioco mi dà una libertà che in altre esperienze non ho.

Gerardo: Certo, c?è una dimensione ludica, anche di esercizio, se vogliamo, ma è un gioco e un esercizio molto rigoroso. Non mettiamo sempre il nostro corpo in una situazione difficile,
estrema, quasi sempre molto faticosa. Questo significa che ci mettiamo in gioco, e lo facciamo sino in fondo.

AC: Fatica, concentrazione, sceneggiatura rigida ma anche improvvisazione. Sono tutti elementi che si ritrovano in fondo anche nel teatro. Voi invece insistete sulla differenza tra questo "teatro da discoteca" e il teatro, anche quello di ricerca.

Gerardo: La differenza fondamentale è questa: che in discoteca non siamo salvaguardati dal contratto fra l?attore e il pubblico che c?è a teatro. Qui non sappiamo mai a priori quale sarà la reazione del pubblico. Anzi, a volte le reazioni possono essere violente. Naturalmente siamo noi che ci mettiamo in questa situazione: noi ci proponiamo come oggetti, come dei tavolini,
diciamo a volte, e quindi lo spettatore in qualche modo è invogliato a trattarci come degli oggetti. Ora, se il contenuto della performance è abbastanza forte sul piano emotivo, a qualcuno può venir voglia di entrare in contatto con noi in modo violento. Altre volte, invece, è la reazione del pubblico che cerca di trascinare l?azione verso una lettura teatrale. Ci è capitato di recente, facendo una performance che si chiama "Contra Passo" al festival del teatro di figura a Cervia...

AC: È quella in cui siete tutti e due dipinti di bianco, seduti su una panchina, e fate dei movimenti lentissimi (uno sfoglia un libro, l?altro estrae una pistola e se la punta alla tempia)?

Gerado: Sì, è quella. Bene, in quell?occasione il pubblico che ci attorniava, nella strada, tendeva a ristabilire il contratto, perché si sforzava in tutti i modi di leggere nelle nostre azioni una storia, mentre noi tentavamo di sfuggire in tutti i modi a questa cosa. Sì, quell?azione è particolarmente frustrante per il pubblico, perché a ogni istante sembra promettere uno sviluppo narrativo che l?istante dopo è negato...

Luigi: Io quella sera, a un certo punto, ero tentato di sparare sul pubblico, ma la scacciacani si è inceppata. Adesso dico che è stato meglio così, perché se avessi sparato avrei portato l?azione a un punto di non ritorno: dopo non avremmo più potuto fare nulla, la performance sarebbe finita.

AC: In altre performance siete ancora più esposti, senza neppure questa maschera della vernice bianca. "Ba?al-zebùb", per esempio, che se non sbaglio vuol dire proprio "signore delle mosche". Tu, Luigi, ti chiudi quasi nudo in una teca piena di mosche e stai lì per delle ore. Quante sono queste mosche, e come fai?

Luigi: Le mosche saranno migliaia, non so dirti il numero esatto. Be?, la prima volta che l?ho fatta ero preoccupato anch?io. Nel primo quarto d?ora dicevo: non ce la farò mai, questo ronzio è
insopportabile, ora devo uscire. Anche perché mi cospargo il corpo di acqua zuccherata, e quindi le mosche, in qualche modo, si cibano di me. Poi a un certo punto mi sono distratto, e dopo poco mi sono accorto che stavo benissimo, che non avevo nessun problema.

Gerardo: Addirittura, quando la performance era finita (e dura varie ore) non voleva più uscire. Diceva: "sto così bene". Ecco, questa è un?azione che scatena reazioni enormi nel pubblico.
Quello che sconvolge è l?assoluta normalità di Luigi, la sua tranquillità, la sua faccia rilassata, in una situazione che invece appare abnorme, intollerabile. Tutti si chiedono: come farà? E naturalmente c?è sempre qualcuno, più ipersensibile, che va a vomitare al gabinetto.

AC: Per voi non sarà così, ma molti di questi vostri lavori sembrano proprio citazioni o parodie di opere ed eventi famosi della body art dei settanta. Mi viene in mente Gina Pane, per esempio, e tutti i vermi che le strisciano negli occhi, nella bocca...

Luigi: Be?, quando mi hanno raccontato di Gina Pane che si infila le spine della rosa a una a una nel braccio, mi sono detto: questo il mio sogno. Perché per me, confesso, c?è una certa forma di masochismo. Io dico spesso che la mia unica certezza è il corpo, e quindi la dimensione del dolore, l?autolesionismo, mi interessano, li vado a cercare.

AC: Una specie di autocertificazione di esistenza...

Gerardo: Io invece ho una leggerezza esistenziale che mi aiuta, oltre allo yoga (in una dimensione assolutamente laica). In tutti i casi nel nostro lavoro non c?è affatto la dinamica della sfida, del passo più in là. E per quanto riguarda la parodia, come dicevi prima, in gran parte deriva anche dalla committenza: non dimentichiamoci che sono cose che facciamo in discoteca.