Museo d'Arte Contemporanea Roma - MACRO
Roma
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The vilent season
dal 9/12/2002 al 10/12/2002
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Segnalato da

Elisa Castiglioni




 
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9/12/2002

The vilent season

Museo d'Arte Contemporanea Roma - MACRO, Roma

Come potrebbe un coreografo contemporaneo collocarsi nella sua epoca se non cominciasse ad ammettere che l’opera che sta creando non e' riducibile ad un grafo, ossia che una coreografia non si limita a grafismi o, in generale ad essere una grafia?


comunicato stampa

Martedì 10 dicembre 2002, ore 17

Nell’ambito di TRANSCODEX 1
I nuovi linguaggi dell’arte-performance

Interverranno:
Elvira Bonfanti – docente di teatro presso il DAMS di Genova Maria Elisa Buccella – giornalista Massimo Canevacci – docente di antropologia presso l’Università La Sapienza di Roma

Volume edito da Erga Edizioni realizzato grazie alla “Fondazione Festival” e “Festival Crociere”

Come potrebbe un coreografo contemporaneo collocarsi nella sua epoca se non cominciasse ad ammettere che l’opera che sta creando non è riducibile ad un grafo, ossia che una coreografìa non si limita a grafismi o, in generale ad essere una grafìa?

È quanto emerge dal lavoro di uno degli artisti italiani più ambigui e più interessanti: il danzatore, performer e coreografo PierPaolo Koss, di cui The violent season raccoglie un’iconografìa decisamente affascinante. La genesi di una produzione incisiva e allo stesso tempo provocante ci è restituita con una precisione impressionante e ciò intrecciando – com’è giusto - due aspetti connessi ma difficili da districare poiché nutriti sia dall'Occidente che dall'Oriente. Dell'Occidente sono state individuate le diverse ispirazioni e tendenze con cui l’artista si è, di volta in volta, confrontato: dal futurismo al surrealismo, dalla danza tedesca degli anni 20 al teatro di Artaud e Genet ma anche Bataille, Cioran e Gina Pane. Quanto all'Oriente, è a partire dal 1978, anno della prima rappresentazione parigina dei danzatori Butoh - Ko Murobushi e Carlotta Ikeda - e dalla loro influenza che si è sviluppato fino ad oggi il lavoro del “Fauno” PierPaolo Koss che la studiosa Elvira Bonfanti non esita a definire “Butoh purissimo” .

Ciò che rende carismatica l’avventura di PierPaolo Koss è il carattere assolutamente ibrido del Butoh. Benché si sia sviluppato in relazione ad ancestrali pratiche culturali, basandosi sulla reintegrazione nell’ordine naturale di movimenti e posture, il Butoh non ha mai smesso di assegnare a tali pratiche il significato di una rivolta contro l’imperio occidentale, soprattutto in un’epoca in cui Hiroshima e Nagasaki erano divenute sinonimo di una “guerra santa” perduta.

Il corpo dell’artista affondato nella terra, il suo volto dipinto di bianco, la postura fetale e le ambiguità dell’androginia sono elementi che nutrono una disciplina etico/estetica, un’estetica della sofferenza e della morte che può (e quindi deve) essere interpretata nella prospettiva dell’anti-arte militante. Tutto ciò è chiamato al servizio di una causa sacra o rituale e - contemporaneamente - a quello di un impegno quasi - politico attento al solco della rivoluzione surrealista o della rivolta dadaista ed aperto ad una politica post-coloniale. In quest’ottica è possibile interrogarsi sul livello d'espressionismo che il Butoh è suscettibile di raggiungere e mantenere e cioè sull’efficacia dell'incontro tra Oriente ed Occidente.

Il critico Ogino Suichiro non mette in dubbio l’appartenenza del fondatore del movimento Butoh alla tradizione espressionista tedesca e, in effetti, Kazuo Ohno quando rende omaggio alla danzatrice Antonia Mercé, La Argentina, è “uno dei maestri della danza espressionista tedesca”. Al contrario, Gunji Masakatsu professa l’“inespressività” innata del Butoh poiché nessuna espressione particolare potrebbe conferire il minimo senso all’“erranza” dell'esistenza dinanzi al vuoto cosmico. Dobbiamo scegliere tra queste due interpretazioni? Optare per Ogino equivale a pronunciarsi a favore di un'espressività soggettiva, individuale ed unica, indubbiamente figlia della tradizione romantica tedesca e votarsi alla causa della restituzione dell’ intensità delle pulsioni hic et nunc, il che non esclude una passione come la rivolta. Ma l’“inespressività” riguarda un danzare fondato sull’ a-temporalità che tende al nulla universale del tutto, cioè si vuole riflesso della miseria del mondo e sostituisce, di conseguenza, lo speculare allo spettacolare.

Approfondendo il tema dell’“inespressività”, Gunji Masakatsu lo connette ad uno schema logico specifico che, secondo lui, conferisce al pensiero giapponese la sua vera originalità: “II Giappone esamina ogni cosa sempre in seno ad una struttura o ad un insieme all’interno del quale si trova il suo contrario. Essere è essere al centro di, con a destra la propria destra e a sinistra la propria sinistra. In tale contesto, l’inespressività del volto deriva dal fatto che tutte le espressioni sono contenute nell’ inespressività: scegliere di esprimerne una equivale, implicitamente, a negare tutte le altre espressioni possibili”. Si, ma nella vita non scegliamo un’espressione piuttosto che un’altra? Forse il genio di PierPaolo Koss - e nello stesso tempo il suo punto debole - consiste nel non scegliere...

Comunicazione: Elisabetta Castiglioni


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