Come potrebbe un coreografo contemporaneo collocarsi nella sua epoca se non cominciasse ad ammettere che l’opera che sta creando non e' riducibile ad un grafo, ossia che una coreografia non si limita a grafismi o, in generale ad essere una grafia?
Martedì 10 dicembre 2002, ore 17
Nell’ambito di TRANSCODEX 1
I nuovi linguaggi dell’arte-performance
Interverranno:
Elvira Bonfanti – docente di teatro presso il DAMS di Genova
Maria Elisa Buccella – giornalista
Massimo Canevacci – docente di antropologia presso l’Università La Sapienza
di Roma
Volume edito da Erga Edizioni realizzato grazie alla “Fondazione Festival†e
“Festival Crociereâ€
Come potrebbe un coreografo contemporaneo collocarsi nella sua epoca se non
cominciasse ad ammettere che l’opera che sta creando non è riducibile ad un
grafo, ossia che una coreografìa non si limita a grafismi o, in generale ad
essere una grafìa?
È quanto emerge dal lavoro di uno degli artisti italiani più ambigui e più
interessanti: il danzatore, performer e coreografo PierPaolo Koss, di cui
The violent season raccoglie un’iconografìa decisamente affascinante. La
genesi di una produzione incisiva e allo stesso tempo provocante ci è
restituita con una precisione impressionante e ciò intrecciando – com’è
giusto - due aspetti connessi ma difficili da districare poiché nutriti sia
dall'Occidente che dall'Oriente. Dell'Occidente sono state individuate le
diverse ispirazioni e tendenze con cui l’artista si è, di volta in volta,
confrontato: dal futurismo al surrealismo, dalla danza tedesca degli anni 20
al teatro di Artaud e Genet ma anche Bataille, Cioran e Gina Pane. Quanto
all'Oriente, è a partire dal 1978, anno della prima rappresentazione
parigina dei danzatori Butoh - Ko Murobushi e Carlotta Ikeda - e dalla loro
influenza che si è sviluppato fino ad oggi il lavoro del “Fauno†PierPaolo
Koss che la studiosa Elvira Bonfanti non esita a definire “Butoh purissimoâ€
.
Ciò che rende carismatica l’avventura di PierPaolo Koss è il carattere
assolutamente ibrido del Butoh. Benché si sia sviluppato in relazione ad
ancestrali pratiche culturali, basandosi sulla reintegrazione nell’ordine
naturale di movimenti e posture, il Butoh non ha mai smesso di assegnare a
tali pratiche il significato di una rivolta contro l’imperio occidentale,
soprattutto in un’epoca in cui Hiroshima e Nagasaki erano divenute sinonimo
di una “guerra santa†perduta.
Il corpo dell’artista affondato nella terra, il suo volto dipinto di bianco,
la postura fetale e le ambiguità dell’androginia sono elementi che nutrono
una disciplina etico/estetica, un’estetica della sofferenza e della morte
che può (e quindi deve) essere interpretata nella prospettiva dell’anti-arte
militante. Tutto ciò è chiamato al servizio di una causa sacra o rituale e -
contemporaneamente - a quello di un impegno quasi - politico attento al
solco della rivoluzione surrealista o della rivolta dadaista ed aperto ad
una politica post-coloniale. In quest’ottica è possibile interrogarsi sul
livello d'espressionismo che il Butoh è suscettibile di raggiungere e
mantenere e cioè sull’efficacia dell'incontro tra Oriente ed Occidente.
Il critico Ogino Suichiro non mette in dubbio l’appartenenza del fondatore
del movimento Butoh alla tradizione espressionista tedesca e, in effetti,
Kazuo Ohno quando rende omaggio alla danzatrice Antonia Mercé, La Argentina,
è “uno dei maestri della danza espressionista tedescaâ€. Al contrario, Gunji
Masakatsu professa l’“inespressività †innata del Butoh poiché nessuna
espressione particolare potrebbe conferire il minimo senso all’“erranzaâ€
dell'esistenza dinanzi al vuoto cosmico. Dobbiamo scegliere tra queste due
interpretazioni? Optare per Ogino equivale a pronunciarsi a favore di
un'espressività soggettiva, individuale ed unica, indubbiamente figlia della
tradizione romantica tedesca e votarsi alla causa della restituzione dell’
intensità delle pulsioni hic et nunc, il che non esclude una passione come
la rivolta. Ma l’“inespressività †riguarda un danzare fondato sull’
a-temporalità che tende al nulla universale del tutto, cioè si vuole
riflesso della miseria del mondo e sostituisce, di conseguenza, lo speculare
allo spettacolare.
Approfondendo il tema dell’“inespressività â€, Gunji Masakatsu lo connette ad
uno schema logico specifico che, secondo lui, conferisce al pensiero
giapponese la sua vera originalità : “II Giappone esamina ogni cosa sempre in
seno ad una struttura o ad un insieme all’interno del quale si trova il suo
contrario. Essere è essere al centro di, con a destra la propria destra e a
sinistra la propria sinistra. In tale contesto, l’inespressività del volto
deriva dal fatto che tutte le espressioni sono contenute nell’
inespressività : scegliere di esprimerne una equivale, implicitamente, a
negare tutte le altre espressioni possibiliâ€.
Si, ma nella vita non scegliamo un’espressione piuttosto che un’altra?
Forse il genio di PierPaolo Koss - e nello stesso tempo il suo punto
debole - consiste nel non scegliere...
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