La Generazione delle Immagini 7 - 2000/01 - Racconti d'Identita' Eija-Liisa Athila Per prima cosa, devo scusarmi per la qualità di quello che vedrete. Di solito le mie opere sono in pellicola, questo invece è un nastro promozionale e, sfortunatamente, filtra un po' di luce dalla tenda. Del suono originale, poi, si salva solo il 30%. Ve lo dico non perché mi interessino i dettagli tecnici, ma perché per me è importante esprimermi con i mezzi offerti dal medium, cioè immagini e suono. Sono loro a creare significati ed emozioni, e se non sono di buon livello non riusciamo a coglierli. Vorrei raccontarvi ciò che penso di fare attualmente e anche qualcosa sul mio background, per contestualizzarmi come artista. Poi vi mostrerò qualche esempio dei miei lavori, illustrandone il processo. Spero che questa possa essere una conversazione, quindi interrompetemi pure quando ne avete voglia, così parliamo di quello che ci interessa. Sono un'artista visiva e una film-maker, il che significa che ogni volta che faccio un nuovo lavoro, realizzo una versione in pellicola (una copia in 35 mm del materiale originale, più o meno identica) e un'installazione, che oggi è in DVD. Significa anche che quando le opere vengono distribuite, le installazioni sono presentate in musei e gallerie, i film nei festival cinematografici e sui canali televisivi. Quello che faccio è un'espressione dei miei interessi, che mi collocano a metà strada tra arti visive e cinema, o forse in entrambi i campi. Quest'aspetto è fondamentale per ottenere i finanziamenti: posso realizzare lavori di questo tipo perché opero su due fronti, così nel budget confluiscono sia i fondi per la cinematografia che i contributi delle fondazioni artistiche. Naturalmente, il modo in cui lavoro è legato ai temi e ai soggetti delle mie opere - voglio dire che mi interessa raccontare delle storie, ma anche decostruirle. Di solito dico che mi occupo di immagini in movimento. Questo dipende dal contesto e dal background dei miei lavori che non sono videoarte - infatti, hanno ben poco a che fare con la sperimentazione sul medium caratteristica degli anni Settanta e Ottanta o con il genere di videoarte nata dalla documentazione di performance e azioni. Assomigliano di più a dei cortometraggi. Due parole sulla mia formazione. Ho iniziato studiando legge all'università, per un biennio. Poi mi sono iscritta all'accademia e diplomata in pittura. Per qualche anno ho dipinto, ma non mi sentivo molto a mio agio, così ho iniziato a scattare foto e a realizzare installazioni di foto e testi. In quel periodo ho collaborato con una mia compagna d'accademia, producendo diversi lavori: se ripenso alle mie opere degli anni Ottanta mi accorgo di come fossero molto più "concettuali" e femministe. Considero ancora femminista il mio lavoro, ma in modo molto diverso. Quello che adesso mi interessa sono la rappresentazione e l'immagine in movimento, riuscire a portare un'opera in un certo spazio - cioè narrare con suoni e immagini -, percepire e creare un significato attraverso i mezzi propri dell'immagine in movimento in uno spazio preciso. Me/We; Okay; Gray Il primo lavoro che vi mostrerò per intero è diviso in tre parti. In realtà sono tre brevi frammenti, ognuno da 90 secondi circa. Li ho girati nel 1993, con l'intenzione di mandarli in onda in televisione tra una pubblicità e un'altra. Volevo capire cosa si può fare con un'immagine in movimento in uno spazio del genere. Il titolo, Me/We; Okay; Gray, nasce dal tema. La parola gray ha almeno due significati: si riferisce a un colore [grigio] ed è un'unità di misura delle radiazioni. Sapevo che i tre brani sarebbero stati esposti in una mostra intitolata Identity - Selfhood, a Helsinki e Mosca e in contemporanea anche a Stoccolma, sempre nel 1993. Così, per realizzare il primo sono partita dall'idea di identità e di controllo nell'ambiente famigliare. Il secondo tratta delle relazioni più intime, come quelle amorose, e del momento in cui si perde la propria identità e la si ricostruisce con chi ci è molto vicino. Il terzo nasce dal concetto di nazione, anzi dal concetto di identità e alterità in un contesto di nazionalità: volevo tracciare un parallelo tra un disastro nucleare e l'invasione di un'altra cultura e un altro linguaggio. A proposito della forma: il progetto è nato una sera in cui ero a casa. Avevo la tv accesa e, andando da una stanza all'altra, a un certo punto mi sono fermata davanti allo schermo: ho visto una pubblicità che mi ha fatto riflettere. In realtà l'ho vista due volte e poi mi sono chiesta se fossero due versioni dello stesso spot, ragionando su come fossero state create, narrate e composte. Quando ho iniziato a realizzare il lavoro, ho pensato a che forma assume la pubblicità, a come funziona e a cosa bisogna fare quando tutte le informazioni vengono condensate in un tempo molto ristretto. Data la breve durata, volevo "stratificare" le informazioni (la storia, le diverse location, i suoni e le immagini), in modo che non le si potesse assorbire tutte in una volta, ma che dopo la visione emergessero nuovi significati. Per esempio, nel secondo brano, quando la donna si gira, l'appartamento si trasforma in un altro, che ha la stessa forma, ma è a un piano diverso e ha un altro arredamento. Cercando dei fondi, ho contattato la televisione. Adesso in Finlandia abbiamo varie tv via cavo, ma all'epoca c'erano solo tre canali importanti che si vedevano in tutto il paese. E solo uno mandava in onda spot pubblicitari. Li ho chiamati e ho parlato con il manager, a cui l'idea piacque molto, ma sorse un problema perché non potevano darmi nessun aiuto per la produzione. Allora ho dovuto rivolgermi a un altro canale, Channel One che spesso coproduce cortometraggi. Nel mio caso l'accordo prevedeva che presentassi il lavoro su quella rete, che però non fa pubblicità. Così alla fine hanno mandato in onda i tre brani un po' a caso, tra un programma e la presentazione di quello successivo. Poi sono stati trasmessi da altri canali europei, ma non so esattamente come. Ma hai presentato questi lavori anche in mostra o li hai solo mandati in onda durante il periodo di apertura? Sì, in mostra c'era un'installazione con tre monitor su un tavolo, una sedia e uno per terra. Un monitor per ogni lavoro, in loop. Quando andavano in onda in tv volevi che sembrassero delle pubblicità o che fosse ben chiaro che erano qualcosa di diverso? Credo che sia chiaro che sono qualcosa di diverso. Tanto per incominciare sono in bianco e nero. E poi volevo che fossero una specie di combinazione tra un racconto e una pubblicità, come il primo brano, che assomiglia a uno spot per detersivi. Adesso sto lavorando a qualcosa di molto simile. Il tema del mio nuovo lavoro sono le esperienze di donne che soffrono di psicosi. Perché alcuni personaggi femminili hanno una voce maschile? Il tema di quel brano è l'identità all'interno di una relazione. Quando ti innamori lasci che l'altro si avvicini, che avvengano dei cambiamenti. Credo che l'innamoramento sia uno dei momenti dell'età adulta in cui l'identità è più fragile. È una situazione in cui "nuoti" in un'altra persona. In quel lavoro cerco di provare che non si sa mai veramente chi è chi. Vedi un altro ma non sai chi è: qui sono presenti sia un uomo che una donna, ma vedi solo lei. ... Quando perdi il senso dell'essere nel tempo e nello spazio - il senso del passato e del presente, una costruzione del significato a cui sei abituato, una sorta di cronologia - perdi facilmente il senso di te, impazzisci. Lavorare con l'immagine in movimento comporta l'assemblare elementi diversi, creare spazi e ambientazioni credibili, quindi cronologie, sempre a partire dalla narrazione, tradizionale o meno. Io cerco di usare spazio, tempo, storie e narrazioni per costruire un certo mondo. Il mio modo di lavorare Vorrei dire qualcosa anche sul mio modo di lavorare. Inizio dalla sceneggiatura, cioè facendo delle ricerche. Per esempio, per il mio ultimo lavoro ho cominciato cercando donne che fossero disposte a parlare della propria malattia e delle proprie esperienze. Quando scrivo, realizzo dei file diversi su suoni, immagini, dialoghi, transizioni, dettagli delle location e così via, tutti contemporaneamente. Con questo approccio cerco di evitare la classica situazione a posteriori in cui ti trovi a tradurre un testo in immagini e suoni. Io provo a fare in modo che il medium e i vari modi per esprimersi con quel medium siano presenti fin dal principio. Anche se ho a disposizione del materiale già esistente, come delle interviste, so che prima di tutto devo imparare le storie, memorizzarle, prima di sentirmi in grado di usarle in qualche modo. La sceneggiatura di solito è in forma tradizionale, cosa molto utile, perché quando giro lo faccio con un'intera troupe e quella diventa la nostra mappa. Con me ci sono un operatore, uno scenografo, un responsabile della produzione e tutti i tecnici che servono per realizzare un cortometraggio. Ormai sono otto anni che lavoro più o meno con le stesse persone. Il montaggio è la fase in cui ricompongo il tutto, è come se lo riscrivessi, quindi per me è importante farlo con un'altra persona: un montatore professionista. If 6 Was 9 A proposito del soggetto. In tutti i miei lavori c'è una storia, in un modo o nell'altro. Un tema. È qualcosa che ho bisogno di studiare prima, su cui fare molte ricerche. Prendiamo ad esempio quest'altro lavoro, If 6 Was 9. Funziona meglio come installazione che come film: ci sono tre proiezioni affiancate, e la storia si svolge in tutte e tre le immagini simultaneamente. In questo caso volevo studiare come raccontare una storia e come farlo con tre immagini contemporanee, visto che la forma del lavoro deriva dal tema. L'ho girato nel 1995 a Los Angeles dove stavo studiando cinema. Ho studiato cinema anche a Londra per un anno, dal 1990 al 1991. Volevo lavorare su un gruppo di persone della nostra società di cui non si sentisse mai parlare: per me, all'epoca, quelle persone erano le teenager. Così ho realizzato un lavoro su di loro e sulle loro aspettative rispetto al sesso. La moltiplicazione degli schermi rispecchia l'identità di ragazze che stanno crescendo e cambiando, forse impercettibilmente, che corrono incontro alle cose e, allo stesso tempo, rifuggono da esse. L'installazione è pensata per una sala rettangolare, con le immagini proiettate su una delle pareti più lunghe. L'immagine intera di una ragazza deve corrispondere alle reali dimensioni di una persona nello spazio. Quando è la ragazza di destra a parlare, i suoni provengono dall'altoparlante di destra e così via. Un elemento importante di questo lavoro è l'uso della camera: in alcuni punti ci si accorge che è stata puntata sullo stesso paesaggio, ma in tre posizioni diverse. L'unità si ricompone solo attraverso i tre schermi. Perché continui a usare il finlandese nei tuoi lavori, visto che li presenti nel mondo dell'arte internazionale? Per me è importante usare il finlandese, è una bella lingua. I lavori si possono sottotitolare. Vorrei poterli tradurre anche in lingue diverse dall'inglese, ma diventa molto costoso. Di recente ho letto su una rivista un articolo sull'utilizzo del finlandese. Noi siamo diventati indipendenti nel 1917: fino alla fine dell'Ottocento parlavamo lo svedese, che si usava anche nelle università. È solo da un secolo che possiamo usare il finlandese come lingua ufficiale. Nell'articolo si diceva anche che adesso le tesi di dottorato vengono scritte sempre più spesso in inglese, perché questo facilita la loro valutazione e circolazione fuori dalla Finlandia. Nella tua relazione col cinema, quali film e quali registi ti hanno influenzata di più? Ce ne sono molti. Uno è Fassbinder: ho visto molti suoi film negli anni Ottanta quando mia sorella lavorava in Germania e io andavo a trovarla a Berlino. E poi ci sono Cassavetes, Bergman, Kubelka? Ma è comunque difficile dire quali, perché spesso a influenzarmi è una scena o un singolo personaggio. Prima hai sottolineato di aver iniziato come artista dichiaratamente femminista. Cosa è cambiato nel tuo lavoro da allora? Intendevo dire che erano altri momenti. Ero molto giovane, appena uscita dall'accademia. Il femminismo o post-femminismo nei miei lavori era come uno slogan, molto esplicito, persino a scapito di altri aspetti importanti del lavoro. Era quasi separato dall'opera, anziché attivo al suo interno. Adesso cerco di trovare la maniera per legare determinati temi al modo di esprimerli attraverso il medium che ho scelto. Consolation Service Vorrei parlarvi brevemente del lavoro che ho realizzato per la Biennale di Venezia due anni fa, nel 1999, Consolation Service. È la storia di un processo per divorzio, visto attraverso gli occhi di una giovane donna. La durata della versione proiettata nell'installazione era di 25 minuti, e il racconto si sviluppava attraverso due immagini affiancate. Dopo l'inaugurazione sono tornata a casa e ne abbiamo montata una nuova versione in pellicola, più tradizionale, che utilizza una sola immagine. L'obiettivo del mio progetto era studiare cosa succede alla storia e alla narrazione in queste due versioni - cosa succede nel momento della visione. A interessarmi era il fatto che ci fosse un preconcetto sull'impatto delle due visioni, come se la storia proiettata su due schermi fosse più oscura, difficile da seguire e poco realistica. Terminata la proiezione, la gente di solito commentava che lo spettatore doveva fare un sacco di scelte: chi guardare, cosa succede, chi è il protagonista e cose del genere. Utilizzando una sola immagine, invece, tutto diventa più ovvio e il pubblico non deve essere altrettanto attivo: le scelte sono già state fatte a monte. Come per un film qualsiasi, chi guarda si trova nella posizione migliore per vedere la storia accadere proprio davanti ai propri occhi, il montaggio offre informazioni più dettagliate in forma di botta e risposta, la fonte del sonoro è posizionata nella migliore angolatura possibile eccetera. Contrariamente alle aspettative, abbiamo sentito che l'installazione con le due immagini affiancate assomigliava molto di più a una situazione "realistica", dove si è costretti a scegliere se vedere o no, a capire cosa succede. Per me il dato interessante è come tutto ciò influisca sulla narrazione. Non hai sempre bisogno di seguire le regole tradizionali per creare spazio o tempo, puoi manipolare il rapporto causa-effetto e ci sono molte cose da esplorare nel momento in cui decidi di raccontare una storia con immagini in movimento. Pensi che le multiproiezioni siano più legate allo spazio, mentre quelle tradizionali alla superficie? Assolutamente sì. Non ve l'ho detto, ma a casa sto frequentando un corso che l'Accademia di Belle Arti ha avviato da poco, per cui sto scrivendo la mia tesi di dottorato. S'intitola proprio così, "Narrazione e spazio". In realtà ho qui i nastri di Consolation Service. Non sono dell'installazione, ma vi danno un'idea di cosa è stato fatto, di come ho esplorato il tema. Consideri il tuo lavoro finito quando è una sola immagine - come in questo caso - o quando sono due? Sia il film che l'installazione sono lavori indipendenti. Quando uno è pronto, è pronto. Per il progetto Consolation Service abbiamo prodotto anche un DVD, così puoi vedere entrambe le versioni, e abbiamo aggiunto anche un piccolo testo. I tuoi canali di distribuzione sono solo musei e gallerie o ne hai anche altri? Le installazioni vengono realizzate per la scena artistica, in musei, gallerie e altri spazi. I film sono proiettati nei festival o dai canali tv, a volte anche nei cinema, prima dell'inizio degli spettacoli. Quando ho iniziato io, verso la metà degli anni Novanta, nei musei non erano in programmazione molti film d'artista. Adesso molte cose sono cambiate: a volte i musei sembrano addirittura preferire proiettare il film che preoccuparsi di allestire l'installazione. Per il lavoro che stai facendo ora, hai detto di aver intervistato alcune donne. Questo succede per tutti i tuoi lavori o in certi casi scrivi la storie da sola? No, non lo faccio ogni volta. Quando stavo girando If 6 Was 9 con le ragazze, la mia prima intenzione era stata di andare a intervistare delle teenager. Ma poi mi sono resa conto che era un'idea davvero stupida, perché molte erano ancora bambine: come facevo a chiedere qualcosa sulla loro vita sessuale? Comunque, di solito parto da storie che ho sentito, da qualcosa che ho letto: è come un trampolino per arrivare da un'altra parte. Reciti mai nei tuoi lavori? No, fino adesso sono sempre stata troppo timida. E in futuro, non so proprio? |
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