La Generazione delle Immagini 7 - 2000/01 - Racconti d'Identita' Lucy Orta Arrivo ora da Trieste, dove ho prodotto un nuovo lavoro per la collettiva Transforms, curata da Roberto Pinto ed Emanuela De Cecco in occasione del vertice per l'ambiente G8. Sono riuscita fortunatamente a sviluppare subito le diapositive, così posso mostrarvi che direzione ha preso ultimamente il mio lavoro. Sono contenta di vedere tra il pubblico anche Cristina Morozzi, che ha esposto il mio lavoro in Italia per la prima volta, lo scorso anno. Ho selezionato lavori e progetti che sono stati decisivi per la mia pratica artistica. Tra loro ci sono i primi esperimenti con l'architettura temporanea e le strutture portatili, da cui sono nati gli interventi pubblici ora alla base dei miei processi creativi. Credo di aver prodotto ben oltre cento azioni e mostre diverse negli ultimi otto anni, legate soprattutto ai temi del corpo e del rifugio - ma non solo. Vorrei introdurre anche alcune delle nuove idee su cui sto lavorando: sono tentativi ed esplorazioni ancora in piena evoluzione. Spero così di farvi conoscere un po' meglio i presupposti di quello che faccio. Introduzione Ho iniziato a lavorare come artista alla fine degli anni Ottanta, non in Gran Bretagna dove ero cresciuta, ma in Francia, durante il periodo di crisi economica determinato dalla Guerra del Golfo, che ha portato allo scoperto la fragilità e precarietà della società moderna. L'educazione che ho ricevuto in famiglia, a base di esperienze politiche indipendenti e attivismo locale e poi il matrimonio con l'artista sudamericano Jorge Orta nei primi anni Novanta, mi hanno aiutata a sviluppare una forma d'arte che cerca di riflettere sui peggiori conflitti socio-politici, e di porre in discussione la pratica artistica contemporanea e l'impegno sociale e politico dell'artista. Refuge Wear (Abiti-rifugio) Nel 1992 ho iniziato la serie di disegni Refuge Wear, che aveva per soggetto architetture portatili e ricoveri in tessuto sotto forma di abiti. Refuge Wear voleva essere una risposta a tante situazioni di sofferenza umana e all'inadeguatezza degli ambienti sociali. Il primo pezzo che ho confezionato - Habitent - era un habitat portatile per persone nomadi che mirava a offrire un minimo di comfort personale e mobilità. L'habit, cioè l'abito del monaco, è una specie di uniforme per la meditazione e il rifugio spirituale; il concetto di in-habitent implica una presenza umana, quella di chi occupa quel rifugio. Mi interessava l'idea di un'architettura con l'anima e dell'abbigliamento come riparo mobile. In seguito ho realizzato molti altri Refuge Wear, con un'ingegneria più complessa e la possibilità di trasformazioni multiple, tenendo sempre presenti le diverse preoccupazioni sociali. Speravo - in modo poetico - di offrire un asilo ai rifugiati curdi, dei sacchi a pelo polifunzionali ai senzatetto, una protezione temporanea da disastri naturali come il terremoto di Kobe, degli aiuti concreti come riserve d'acqua e forniture di medicinali che alleviassero i terribili problemi igienici legati alla crisi ruandese. Quest'opera è un mobile survival sac: quando è in posizione "rifugio", l'armatura telescopica in carbonio solleva la stoffa al di sopra del torace per attenuare gli effetti di claustrofobia. Per la creazione di ogni pezzo ho lavorato con gli ultimi ritrovati del settore tessile e spesso ho collaborato allo sviluppo di nuovi materiali. Uno dei più interessanti è la membrana microporosa che aiuta a eliminare la traspirazione corporea e garantisce più comfort a chi la indossa. Ho immaginato che ogni individuo potesse essere equipaggiato con un ambiente personale, corrispondente alla propria condizione sociale e convertibile a seconda dei bisogni, delle necessità o dell'urgenza. I Refuge Wear erano la mia risposta alla necessità di sopravvivere in condizioni difficili, di essere mobili e spostarsi verso nuovi territori, capaci a loro volta di indirizzare la mutazione verso una nuova condizione. Ho continuato a fare ricerche e a fabbricare Refuge Wear fino al 1996 circa. Questi primi lavori sono stati il fondamento per le mie indagini successive nel campo dell'architettura connettiva/comunicativa. City Interventions (Interventi cittadini) Come ha affermato spesso Paul Virilio, l'industrializzazione della visione nel mondo moderno ha portato all'iper-proliferazione e alla supremazia delle immagini nella nostra società. Essere homeless in una cultura mediatica come la nostra significa quindi essere invisibili, fondersi letteralmente con i margini e la struttura della città. "Lontano dagli occhi, lontano dal cuore" è un modo di dire che purtroppo ha una sua verità, un aforisma che assume un significato più preciso per tutti i membri della società che appartengono a questa fascia marginale. Le Refuge Wear City Appearances (Abiti rifugio Apparizioni cittadine) che ho messo in scena a partire dal 1993 mettevano in discussione l'atto di scomparsa sociale, rendendo nuovamente visibile l'invisibile. Case occupate, stazioni ferroviarie e lotti residenziali sono diventati l'arena per Intervention simultanei registrati per la televisione francese e inglese - il debutto pubblico dei miei Refuge Wear. Questo progetto "aperto" è diventato fondamentale per la mia ricerca e il mio contatto con la realtà. Le immagini che vedete riguardano un Intervention che ho realizzato alla stazione di Montparnasse nel 1995, e al termine vi mostrerò il video. Collective Wear (Abiti collettivi) Dal 1994 in poi il mio interesse si è spostato dallo spazio abitativo individuale all'ambiente collettivo. Ho iniziato a costruire quella che poi è stata battezzata, con un termine generico, "architettura corporea": l'aspetto era protettivo (evocando l'idea di rifugio fisico e psicologico nell'ambito di un'area di sicurezza più ampia), piuttosto hi-tech e a volte quasi fantascientifico. Con quelle grandi "cupole" o strutture simili a tende cercavo di oppormi all'isolamento personale. Questo è Collective Wear x 4 Persons, esposto nella prima collettiva cui ho partecipato, al Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris nel 1994. Paul Virilio ha scritto: "La natura precaria della società non è più quella del disoccupato o del derelitto, ma quella degli individui socialmente isolati, soli. Nelle più immediate vicinanze, le nostre famiglie crollano a pezzi? La vita individuale dipende dal calore altrui. Il calore dell'uno riscalda anche l'altro. Il legame fisico intesse quello sociale".1 Nexus Architecture Nexus Architecture è il più emblematico dei miei progetti in corso. Più simbolico che "utile", è composto da tute che potrebbero assomigliare a quelle bianche, intere, indossate dagli attivisti durante le manifestazioni. I partecipanti sono legati gli uni agli altri da strutture "ombelicali" staccabili, e questo indumento può essere indossato - ipoteticamente - da centinaia o migliaia di persone. Finora ho portato Nexus Architecture da La Paz a Città del Messico, da Sydney a Johannesburg, Venezia, Kobe, New York, Londra, Parigi... Un giorno finirò col formare una catena umana che copre tutta la circonferenza terrestre! A volte Nexus Architecture compare anche in cortei e marce per dimostrare solidarietà, non a una causa in particolare, ma poeticamente. Solidarietà in sé e per sé. È il simbolo della filosofia che anima il mio lavoro perché evidenzia in modo molto semplice l'interdipendenza di tutti gli appartenenti alla società. Nexus significa legame, vincolo, serie o gruppo. È formato da un insieme di "tubi" in stoffa incernierati che collegano la pancia di una persona con la schiena di un'altra, rappresentando, letteralmente, il "legame sociale". Ho realizzato questo Nexus Architecture x 16 per la Biennale di Venezia del 1995, come appendice della mostra On Board curata da Jérôme Sans. Era anche una collaborazione con mio marito, che in quella edizione rappresentava l'Argentina. Visto che non c'era un padiglione argentino, abbiamo creato una serie di opere mobili: i miei interventi Nexus Architecture durante il giorno e le sue proiezioni luminografiche di notte. Testi e immagini Per Refuge Wear, Body Architecture e Nexus Architecture ho usato la stoffa perché è come una membrana, una seconda pelle che avvolge i nostri corpi, il materiale che forma le pareti della nostra architettura. Di conseguenza, i testi, i simboli e le immagini serigrafate sulla stoffa sono come tatuaggi sulla pelle, affermazioni precise sulla nostra identità e i nostri desideri. In questo lavoro sono confluiti testi diversi, ma ce n'è uno che risalta più di tutti: "Me, I've got a lot to say" (Io, ho molto da dire). È la frase di un partecipante a uno dei miei workshop del 1995. Ogni performance di Nexus Architecture proclama esattamente questo: che chiunque la indossi, sia un homeless, un disoccupato, un bambino o il membro di qualsiasi altro sottogruppo sociale, sta rivendicando il proprio diritto di parlare e di essere visto. Johannesburg Realizzare Nexus Architecture mi è servito come base per le installazioni della serie Co-creation che ho prodotto insieme a vari gruppi di persone, trasmettendo loro nuove capacità e discutendo temi di impegno collettivo. La prima installazione Co-creation risale alla seconda Biennale di Johannesburg, nel 1997, e forse è stata l'azione più intensa di tutte quelle legate a Nexus Architecture. Il dipartimento educativo della Biennale mi aveva assegnato una borsa in denaro per impiegare tredici donne provenienti da un rifugio locale. Io ho preparato dei banchi da lavoro con le macchine per cucire e ho comperato centinaia di metri di stoffa Kanga al mercato cittadino. Le donne hanno potuto scegliere e fabbricare il proprio Nexus: non avevano alcuna esperienza di cucitura a macchina, così sono diventata la loro insegnante, aiutandole a realizzare i rispettivi progetti. Alla fine abbiamo organizzato un intervento pubblico a Johannesburg, collegando il laboratorio della sede espositiva con il resto della città. Da quell'esperienza di Nexus Architecture sono nati degli abiti bellissimi, ma la cosa più importante è stato il portare avanti una possibilità concreta di solidarietà in un ambiente disgregato, dove è più difficile convogliarla e mantenerla. Azioni partecipative / Co-creation Ora tornerò ancora un po' indietro nel tempo, fino a un workshop che ha segnato l'inizio del mio processo di collaborazione con gruppi che hanno poca famigliarità con l'arte contemporanea o sono del tutto estranei ai musei d'arte. Nel 1993 mi hanno invitata a esporre all'Esercito della Salvezza in una mostra che commemorava il sessantesimo anniversario dell'edificio, la Cité de Refuge, progettata da Le Corbusier. Ho esposto questi pezzi di Refuge Wear. Qui il Survival Sac dice: "Vivere senza un riparo per periodi prolungati fa peggiorare rapidamente la salute fisica e morale. La mancanza di sonno aumenta i livelli di stress, indebolisce il sistema immunitario e accelera la perdita di identità e la desocializzazione". Quest'installazione ha suscitato moltissima attenzione tra i residenti e abbiamo iniziato a parlarci; quelle discussioni ci hanno portato ad avere incontri regolari, che alla fine sono riuscita a strutturare in modo creativo, cosicché i residenti potessero iniziare a esprimere i propri sentimenti attraverso testi, poesie e disegni. Ci sono voluti un altro paio d'anni prima che riuscissi a integrare pienamente un gruppo nel processo creativo e a renderlo co-autore del lavoro Identity + Refuge. Identity + Refuge (Identità + Rifugio) Il workshop Co-creation è stato un passo importante nel definire la comproprietà del processo creativo. Ha stimolato la collaborazione congiunta di artisti e partecipanti, trasformatisi da ricettori passivi a cuore e anima dell'opera. Il workshop Identity + Refuge è durato quattro mesi durante i quali i residenti dell'Esercito della Salvezza hanno avuto la possibilità di partecipare a un laboratorio nei sotterranei della sede, sperimentando le tecniche di taglio e cucito per disegnare dei vestiti, utilizzando come materiale gli abiti usati donati al magazzino. Come avevano già spiegato in laboratori precedenti, una delle perdite per loro più gravi - insieme alla casa - era quella del proprio senso d'identità. All'inizio volevo aiutarli a ricostruire e affermare questa identità trasformando i propri vestiti in vestiti nuovi, ma è stato subito chiaro che molti non si sentivano a proprio agio nel lavorare su un piano personale. Così abbiamo iniziato a trasformare gli abiti a disposizione in indumenti per indossatori immaginari, e questo li ha portati ad avere più fiducia nelle proprie capacità e ad affermare il proprio potenziale creativo. Il risultato è stata una linea di abiti femminili molto provocanti: una minigonna fatta di cinture, dei jeans di guanti in pelle, giacche fatte di cravatte di seta? Abbiamo deciso di organizzare una sfilata e sono riuscita a convincere lo staff e i volontari a montare una passerella nel negozio di cose usate. Alla Cité de Refuge si è presentato un centinaio di ospiti, tra pubblico, stampa e tv, e l'evento ha creato una certa risonanza nel mondo della moda. Questa è un'immagine della seconda sfilata che ho allestito a New York, per il progetto Shopping alla Jeffrey Deitch Gallery, nel 1995. Identity + Refuge è stato concepito come "un'impresa pilota", il che significa che gli obiettivi del progetto possono essere riconfigurati per farlo funzionare come un'impresa che segue un preciso modello economico. Vi mostrerò altri esempi di "imprese pilota" o iniziative che ho organizzato e che sto cercando di realizzare in modo più permanente. Nel 1996 ho riproposto Identity + Refuge a New York, per cercare nuovi partners per il progetto, che infatti è proseguito in una forma diversa, di cui vi parlerò tra poco. Comunque, le mie finalità sono ancora in gestazione e un'iniziativa come Identity + Refuge potrebbe richiedere più di 10 anni per essere completata. Membrane - Collective Dwelling (Abitare collettivo) Il principale risultato della sfilata di New York è stato un incontro con il responsabile artistico dello Henry Street Settlement, che mi ha poi assegnato il fondo Etant Donné perché conducessi un workshop Co-creation con gli adolescenti di un programma artistico del Lower East Side. Quelli che vedete sono dei moduli individuali progettati dai ragazzi del Lower East Side e da loro coetanei francesi. Il protocollo tecnico era la progettazione di un pannello multifunzionale in stoffa che, congiunto ad altri, potesse formare le pareti di un ricovero mobile. Come nella catena umana di Nexus Architecture ogni individuo è simbolicamente legato a un'entità collettiva, così questi pannelli individuali simboleggiano la fusione di un gruppo eterogeneo in un insieme collettivo. Sul piano creativo e concettuale i ragazzi erano incoraggiati a esplorare i temi dell'identità personale e culturale, disegnando esemplari di indumenti e progetti di rifugio. Le singole idee venivano quindi messe a confronto in modo che, in ogni paese - ho condotto contemporaneamente i workshop in Francia, negli Stati Uniti e in Australia - la proposta di ciascun partecipante rispettasse la natura collettiva della costruzione e l'eventuale composizione della struttura abitativa. Questa è l'installazione nel Lower East, che riunisce i tre gruppi diversi. La mia più grande soddisfazione, umanamente parlando, è stata riuscire a far incontrare i ragazzi francesi con quelli newyorkesi. Questo è un caso in cui un'idea astratta riesce a stimolare un dialogo reale. Modular Architecture (Architettura modulare) Finora vi ho proposto solo esempi di lavori in cui la creazione artistica diventa un processo condiviso con gruppi che non hanno familiarità con l'arte contemporanea. Ce ne sarebbero molti altri! Adesso però vorrei parlarvi di Modular Architecture, un corpus di lavori che invitavano dei ballerini a impegnarsi in una collaborazione inedita. Modular Architecture mi è stato commissionato dalle Soirées Nomades della Fondation Cartier pour l'Art Contemporain di Parigi, nel 1996. Sono membrane modulari portatili, che consentono trasformazioni e interconnessioni multiple. Modular Architecture è stato un'evoluzione di Nexus e Body Architecture. Volevo esplorare un modo nuovo per esprimere lo spazio personale e la relazione con gli altri all'interno dello spazio collettivo, così la scelta è caduta sui ballerini, che pensavo avrebbero reagito in modo molto fisico e poetico. Ho ideato una serie di sequenze a terra collegate tra loro da un testo, poi ho chiesto ai danzatori di ricercare e definire un loro spazio personale prima di stabilire una collaborazione con altri membri del gruppo, dissolvendo i confini tra i propri corpi e il materiale delle strutture. Questo è The Unit, un blocco di dieci individui uniti per il fianco in modo da creare un'entità collettiva. Si separano per rivelare le identità individuali e si trasformano ancora una volta per creare nuove forme. Un processo sperimentale di costruzione, decostruzione e ricostruzione, in parte simile a quello di Collective Dwelling, dove ogni individuo rivendica uno spazio personale all'interno dell'insieme collettivo. The Dome (La cupola) è composto da quattro corpi con appendici per braccia e cappucci. Ogni corpo può staccarsi dalla propria struttura per creare una piena identità. Life Nexus Village Fête Questo è un progetto recente: Life Nexus Village Fête, realizzato a Perth, in Australia. Originariamente, mi era stato commissionato per una mostra di arte pubblica nei pressi della mia città natale in Inghilterra, Birmingham. Ho invitato tutte le scuole e i commercianti del paese a partecipare all'organizzazione di una tipica fête (festa) inglese. Negli ultimi anni, le feste paesane sono state rimpiazzate da luna park e giochi d'azzardo, con una vera e propria perdita di interazione sociale. Impegnarsi nell'organizzazione di una festa significa identificarsi con una comunità, mescolarsi con gruppi sociali di tutte le età e "giocare". Life Nexus Village Fête è stata creata per ristabilire un dialogo comunitario: l'intera situazione, dalla creazione degli eventi collaterali all'organizzazione vera e propria della festa, è diventata un vettore di un'attività collettiva. Il paese intero ha partecipato, anziché essere spettatore passivo dell'ennesima mostra d'arte. Il progetto ha assunto la forma di un grappolo di casupole intercomunicanti, una specie di struttura mobile da villaggio primitivo che si modifica e riconfigura a seconda della partecipazione della comunità. Hortirecycling / 70 x 7 Uno dei temi che ho approfondito di più negli ultimi tre anni è stato quello dell'eccedenza e della distribuzione alimentare. Ho iniziato a lavorare ad Act I a Parigi nel 1997. Questo è Act II, a Vienna, nel 1999. Per Act I ho raccolto per oltre un anno la frutta e verdura in eccesso dei mercati parigini e l'ho trasformata in marmellate e conserve. Per Act II ho organizzato l'iniziativa Hortirecycling Enterprise. Invece di raccattare gli avanzi individualmente ho iniziato col coinvolgere gli ambulanti del mercato, che sono alla radice del problema. Ho distribuito a tutti delle "unità di raccolta", in modo che, anziché buttare frutta e ortaggi per terra, li conservassero fino alla raccolta di fine giornata. È un modo per mettere in discussione la responsabilità del cittadino: offrendo alle persone i mezzi per agire, si fa un passo avanti verso un cambiamento positivo (arte come catalizzatore). Anche Hortirecycling analizza il ciclo alimentare: raccolta, trasformazione, redistribuzione. Queste sono delle "unità di lavorazione", delle cucine mobili con tutto il necessario per conservare, lavare, cuocere, imbottigliare e congelare. È un processo di riciclo molto semplice, che si può installare ovunque: qui lo vedete nello spazio espositivo della Secession, con una carrucola che serve a raccogliere il materiale del Nachtmarket, poco lontano. Act III: 70 x 7 The Meal (Atto III: 70 x 7 Il pranzo) si ispira al simbolo biblico 70 x 7 x 7 che significa infinito. Per il primo pranzo al Kunstraum di Innsbruck, in Austria, avevo creato un'edizione limitata di piatti in porcellana di Limoges per quattrocentonovanta persone. Abbiamo preparato una tavola per quattordici invitati, con un menu a base di prodotti organici in eccesso del mercato locale: a sedersi sono stati agricoltori biologici, politici, giornalisti e artisti del posto. Per il pranzo successivo, a sette degli ospiti originari avevamo chiesto di invitare sette commensali, arrivando a una tavolata da quarantanove, in modo da allargare il dialogo e includere più persone nella discussione. Act IV si è svolto l'estate scorsa: qui 70 x 7 è diventato un tavolo per tremila persone, completo di una nuova edizione limitata di piatti in porcellana di Limoges e una tovaglia serigrafata a mano lunga 500 metri. Abbiamo invitato a pranzo l'intera popolazione di Dieuze, una cittadina rurale del Nord della Francia. Trieste Ecco, finalmente, l'installazione di Trieste, che è intimamente legata a quello di cui vi ho parlato finora. Quelli che vedete sono Vehiconnector, perché in questo caso la Hortirecycling Enterprise si è trasformata in convoglio. Sono ambulanze da campo della Croce Rossa - mi interessava molto la trasformazione di insegne militari in unità di sopravvivenza civili -, che abbiamo parcheggiato di fronte all'edificio che ospitava la conferenza ufficiale del vertice G8. In questo modo sono riuscita ad affrontare due temi a me molto cari: da un lato, l'eccedenza alimentare, la "mucca pazza" e il riciclo, e dall'altro - non potete vedere l'immagine, scusate, ma è un frammento sulle boat people - la carenza di acqua potabile e il problema dei profughi in Ruanda. Durante il summit "ufficiale" sono andata ad ascoltare una riunione "non ufficiale" dei Verdi. Vorrei finire citando una frase che mi è stata tradotta durante la presentazione di Grazia Francescato: "Il 14% della popolazione mondiale sta usando l'80% delle risorse mondiali! Oggi la crisi dei rifugiati non può più essere separata dai problemi sociali, culturali e ambientali, e viceversa!". Domande del pubblico Pensi che il tuo lavoro sia legato all'estetica relazionale? È stato Pierre Restany ad affermare questo legame. Io non ho mai lavorato con Nicolas Bourriaud, ma mi piace pensare che il mio lavoro abbia molto a che vedere con le relazioni. Forse la mia estetica opera in modo diverso, ma in ciò che faccio il contenuto estetico è sempre molto importante. Prendiamo come esempio il servizio in porcellana di Limoges per il pranzo di Dieuze. Alcune associazioni locali si sono lamentate perché avevamo speso troppi soldi per i piatti, invece di usare quelli di carta! Io sono particolarmente sensibile alla necessità di offrire design e qualità originali a tutti ed è chiaro che la sigla Limoges e i commenti sui motivi grafici smaltati sui piatti erano una parte fondamentale dell'intero progetto. Sono diventati un souvenir e il centro d'arte contemporanea locale ha venduto più di settecentocinquanta piatti il giorno dell'evento, il che è abbastanza incredibile, se pensate che settecentocinquanta agricoltori hanno appeso delle opere d'arte decisamente contemporanea sopra al loro caminetto. Una domanda sul senso dell'attivismo politico posta da un ragazzo i cui nonni erano tutti partigiani, e sul crescente isolamento determinato dall'utilizzo della tecnologia informatica. Attività politica, dici. Mia madre ha svolto molta attività politica verso la fine degli anni Settanta in ambito post-femminista, ecologista, comunitario e antinucleare... Poi è diventata rappresentante dell'Independent Party locale. Non aveva nessuna possibilità di vincere le sue elezioni perché la nostra circoscrizione era conservatrice da sempre, eppure, pensava che valesse la pena di combattere quelle battaglie, anche se le sono costate la salute. Il lavoro che sto facendo ora non è politico e credo che sia importante ribadire che è un'opera d'arte. Con un'opera d'arte hai una maggiore libertà d'azione rispetto alla politica. Per creativi che potessero essere gli obiettivi di mia madre, non c'era verso che potesse vederli trasformati in una vera scultura. ... Certo, ci stiamo isolando dietro ai nostri computer, ma questo consente anche l'apertura di un nuovo dialogo, la condivisione e la creazione di nuovi network, meno formalità e più interazione. È interessante vedere come dei gruppi formati da personalità individuali riescano a espandersi e a connettersi facilmente con altri gruppi. I singoli possono continuare a restare tali, ma provano anche un senso di appartenenza alla comunità. In alcuni miei lavori più recenti, che ho chiamato Connector, sto cercando di trasmettere questo messaggio: bisogna essere indipendenti e aperti, ma anche sapersi legare, avanti e indietro, ad altre persone. È un concetto di libertà molto nuovo, una capacità che è un risultato positivo della nostra rete di comunicazioni. Che tipo di relazione hai con il tempo in un'era di accelerazione ed eccesso, di spreco delle risorse? C'è sempre tempo, ma è difficile coglierlo e alimentarlo in modo speciale, prima che fugga. Devo fare un grande sforzo per non farmi inghiottire dalla corrente, e sono la coscienza etica e la forza delle idee a mantenermi a galla. Quando riesco a rianalizzare dei gesti che sono diventati riflessi automatici, quello è uno dei momenti speciali in cui riesco ad alimentare il tempo. Per esempio, il gesto di buttare frutta e verdura per terra mi ha fatto pensare a un nuovo gesto, ha trasformato il tempo in azione. Il progetto dell'Esercito della Salvezza è un esempio di come mi relaziono al surplus. I vestiti di seconda mano sono come la banana buttata sul marciapiede: sono totalmente rigettati da una società che sta già consumando altri articoli. A essere importante non è solo il simbolo dell'oggetto scartato, ma anche il modo con cui verranno trasformati quei vestiti. Tutte le azioni sono studiate con cura, in modo che non ci sia spreco, che ogni singola striscia di stoffa venga riutilizzata, che non si butti via niente. È un modo per diventare più consapevoli delle cose che ci circondano, e i miei prossimi progetti si tradurranno in risposte più radicali di questi studi sul riciclo. È senz'altro un processo lunghissimo di trasformazione. Vorrei ringraziare Jorge Orta, Paul Virilio, Jen Budney, Jérôme Sans, Hou Hanru e Mark Sanders per avermi aiutato a strutturare questa presentazione. 1. Lucy Orta, Refuge Wear, Parigi, Editions Jean Michel Place, 1996. |
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