La Generazione delle Immagini


7 - 2000/01 - Racconti d'Identita'


Soo-ja Kim



Non so se abbiate avuto la possibilità di vedere il lavoro che ho presentato alla penultima Biennale di Venezia, nel 1999, o quello esposto nella collettiva di artisti coreani Tiger's Tail, sempre a Venezia, nel 1995, o quest'anno a Trieste, a Transforms. Vorrei darvi un'idea di questi lavori per condividere con voi il mio modo di vedere l'arte, per farvi comprendere il mio percorso dalle prime opere in tessuto, alle più recenti performance in video che vi farò vedere oggi.
Per quasi vent'anni ho utilizzato tradizionali stoffe coreane, copriletti e costumi realizzati soprattutto come corredo matrimoniale. Ho impiegato dei materiali che fanno parte del mio background, ma in modo sperimentale, cucendoli, legandoli, avvolgendoli, srotolandoli, inserendoli in altro e così via.

Quando ho realizzato il mio primo lavoro cucito, nel 1983, stavo già sperimentando l'uso di media diversi, come tele usate, carta, plexiglas, legno, oggetti trovati, stampe e fotografie. Ma non ero soddisfatta: continuavo a cercare la metodologia giusta con cui potermi identificare. Penso ai pittori come a dei "viandanti", che si avvicinano alla superficie di una tela, una parete o una barriera e vi trovano il proprio specchio. A me la storia della pittura pare una storia di esplorazioni, in cui gli artisti cercano risposte per se stessi e per gli altri. La ragione per cui ho cominciato a cucire non è perché sono una donna artista, o perché particolarmente intressata al cucito, ma perché ho sempre posto in discussione questa superficie e questa vita. Speravo di toccare la realtà della superficie, cioè la tela, superare la barriera di questo limite e raggiungere l'unione.
C'è stato un momento indimenticabile, che mi ha spinto a iniziare a cucire. Nel 1983, mia madre ed io stavamo preparando un lenzuolo come facevamo spesso insieme. Le lenzuola coreane sono composte di pezze di seta multicolori sovrapposte, avvicinate e cucite con del cotone bianco. Mi sembrava molto bello e stavo per infilare l'ago nella seta, per attaccarla a una pezza chiara di cotone, arrotolandola all'interno. Nello stesso momento in cui l'ago sfiorava la seta e la trapassava, sentì un brivido. Come se avessi subito un elettroshock, e l'energia del mio corpo si fosse incanalata nell'ago - e dall'ago alla stoffa, che sembrava espandersi a tutta l'energia del mondo. Lo shock fu tale che l'ago mi cadde di mano. Da quel momento in poi ho compreso il potere del cucire, e che la relazione tra l'ago e la stoffa è come la relazione tra il mio corpo e l'universo. Quello è stato il mio modo per identificarmi e collocare il mio lavoro nel contesto dell'arte contemporanea. Sono riuscita a trovare risposta ai miei quesiti sull'esistenza attraverso il processo contemplativo del cucire vecchi abiti e copriletti. Fino allora, avevo cercato l'unione con l'oggetto e me stessa, ponendo in discussione la struttura fondamentale del mondo, facendo esperienza di molti oggetti diversi, senza mai sentirmi del tutto appagata. Il mio desiderio di riuscire a entrare nell'"altro" e identificarmi con esso era molto intenso.

Se vedete quella piccola prima opera cucita del 1983, sembra quasi una prova: è un motivo semplicissimo di punti verticali e orizzontali. Eppure è facile cogliere la somiglianza con questo brano di un mio video recente, intitolato A Needle Woman (Una donna ago), dove una donna resta immobile al centro dell'inquadratura, nelle strade affollate di metropoli diverse. Nel mio lavoro, non seguo la logica. Credo invece che la logica della sensibilità (e cioè, l'essere certa di rispettare la mia onestà nel lavoro) mi abbia permesso di conservare la mia identità all'interno della mia ricerca.
Molti dei miei primi lavori cuciti sono a forma di croce: una forma a "T" che può far pensare a corpi o a triangoli. All'inizio degli anni Novanta, le mie opere non avevano alcuna relazione con le struttura verticali o orizzontali. I coreani hanno una tradizione vecchia circa cinquecento anni, che noi chiamiamo bojagi. Significa "stoffa arrotolata" ed è come un collage di ritagli e avanzi di stoffe colorate; è realizzata dalle casalinghe e ricorda le composizioni di Mondrian. Nel 1994, per la prima volta, c'è stata una mostra dedicata al bojagi. L'ho sentita molto vicina al mio lavoro, anche se non ne avevo mai visto uno prima e la motivazione personale alla base delle mie creazioni artistiche è completamente diversa. La somiglianza sta nella struttura della cultura, lingua e architettura coreane. Dopo aver scoperto questa tradizione e la sua somiglianza formale con le mie opere, ho deciso di evitare ogni relazione diretta. Anche se quella vicinanza manifestava una precisa sensibilità verso la mia cultura, io volevo affrontare problemi diversi. Così ho abbandonato del tutto le composizioni basate su una struttura orizzontale/verticale, e non ho mai più usato quella forma - almeno visivamente. Ho cercato di distruggere la struttura, assemblando abiti e stoffe in modo libero, secondo forme ad arco, tondeggianti o sferiche. Portrait of Yourself (Ritratto di te), 1990, Toward the Mother Earth (Verso la Madre Terra), 1990-1991, Mind and the World (La mente e il mondo), 1992, e Deductive Object (Oggetto deduttivo), 1990, fanno tutti parte di questa serie.
Oltre alle coperte, uso anche costumi tradizionali e gli abiti moderni che si indossano tutti i giorni. Quando inizio a cucire i vestiti sono tagliati: non li uso come una pezza intera, ma a brandelli, così funzionano più come materiali che come oggetti. È dal 1994 che utilizzo gli abiti come oggetti. Quelli usati conservano l'odore del corpo, la sua memoria e la sua storia. Non li lavo mai, apposta. Ho realizzato la serie Deductive Object in parallelo ai lavori cuciti dei primi anni Novanta. Cercavo di esaminare la struttura degli oggetti e utensili quotidiani avvolgendoli. Questo processo di bendare, arrotolare mi sembra avere una relazione con l'atto del cucire e con il modo in cui lo utilizzo io, soprattutto in lavori come Sewing into Walking - Kwangju (Cucire nel camminare - Kwangju), 1994, Sewing into Walking - Istiklal Caddesi, 1997, e Cities on the Move - 2727 Kilometers Bottari Truck, 1997, dove si lega al tema del viaggio e della migrazione. Cucire è un modo per avvolgere: avvolgiamo un lembo di stoffa con un filo, attraverso un'azione a spirale, dall'interno all'esterno e viceversa. Quindi avvolgere un tessuto attorno a un oggetto per me rappresenta un'altra dimensione del cucire, che ho provato ad analizzare nella serie Bottari (fagotti). Deductive Object, in un certo senso, coincide con un modo diametralmente opposto di lavorare: se cucire è sinonimo di accumulazione (si assemblano i materiali, li si fanno crescere), qui invece si riconferma la struttura esistente dell'oggetto, la sua forma originale. L'aggettivo del titolo, deductive, fa riferimento, per opposizione, al processo induttivo della cucitura. Come vedete, gli oggetti conservano la propria forma (telai, ruote, forchette, seghe, tamburi?), ma cambiano funzione: divengono forme puramente estetiche, che sottolineano lo Yin-Yang, la mascolinità o femminilità dell'oggetto.
Io divido i miei primi lavori in tre differenti fasi: i pezzi bidimensionali cuciti, gli oggetti tridimensionali avvolti o legati, e le installazioni che alludono alla pelle, ai nervi, alle ossa e al processo medico della guarigione.

Anche cucire e avvolgere hanno una simile funzione terapeutica. Un ago è uno strumento che può ferirci, producendo una ferita o una cicatrice, ma al tempo stesso riconnettere anche due parti, farle ridiventare una, curarle. Avvolgere e legare stoffe per me è un altro modo per mettere in atto il processo di guarigione e cicatrizzazione prodotto dalla medicina. Molti degli oggetti bendati sono strumenti potenzialmente pericolosi, oggetti maschili, caratterizzati da un elemento aggressivo. Fasciarli diventa un sistema per proteggerli dal loro stesso pericolo, per guarirli e tenerli al caldo. Ma al tempo stesso, è anche un'azione possessiva. Questa intelaiatura, è nata avvolgendo un classico telaio per finestra coreano: si apre su uno spazio che fa parte dell'installazione Untitled del 1991, al cui interno ho collocato il necessario per cucire. A volte appoggio dei rami di bambù bendati alla struttura in stoffa, perché il modo in cui agisce il loro peso mi ricorda la relazione tra ago e stoffa. Questa struttura si ricollega anche alla videoperformance in cui sto in piedi immobile in mezzo a una folla, che vi ho mostrato prima. Ho realizzato il mio primo "fagotto" mentre vivevo a New York, grazie a una borsa al P.S.1, nel 1992. L'ho posto all'interno dell'installazione di stoffe cucite, vicino al bambù fasciato, in modo da creare tre diversi elementi: un pezzo bidimensionale, un oggetto e il fagotto, cioè una scultura tridimensionale. I tre diversi elementi corrispondono ai tre momenti del mio lavoro sulle stoffe.
Anche la direzione verso cui puntavo in quel lavoro è stata importante per me, perché l'orientamento dell'ago verso la stoffa, o del bastone di bambù verso la struttura cucita è simile a quello di opere come Cities on the Move - 2727 Kilometers Bottari Truck, un video del 1997, e in A Needle Woman del 1999-2001.
Ho realizzato anche altre installazioni che sono del tutto prive di elementi cuciti, anch'esse intitolate Deductive Objects. Una di queste è stata esposta al P.S.1 Contemporary Art Center: l'idea del cucire è ancora presente, ma invisibile. Ho riempito di pezzettini in stoffa dei fori nel muro, altri li ho impilati a terra. Questa volta, la stoffa funge da ago che incarna il mio desiderio e la mia energia. In un certo senso, quei brandelli di stoffa sono come il mio corpo, la mia energia trasferita all'"altro", che qui è il muro. Cucendo insieme vecchi abiti che conservano odori e ricordi, creo una rete di contatti umani - la stessa che ritorna nelle installazioni di "fagotti" e nelle ultime videoperformance. Un'altra "rete" della serie Deductive Objects è rimasta a New York, con l'elenco telefonico che ho avvolto in un copriletto prima di lasciare la città, nel 1993.

Per le prime opere della serie dei "fagotti" impiegavo pezze di stoffa usata. Nel 1994 ho capito che non potevano essere oggetti solo estetici: sono realistici, ci ricordano la realtà delle nostre vite. Rappresentano collocazione, dislocazione, separazione, distacco, migrazione e rifugio. Da quel momento in poi, ho avvolto gli abiti indossati ogni giorno all'interno dei copriletti coreane usate con un solo nodo.
I copriletti che uso di solito sono destinate a coppie appena sposate, e quindi hanno vari significati. Per esempio, le parti verdi e rosse, oppure rosa e blu accostate significano l'unione di maschile e femminile; i fiori, gli uccelli, le farfalle, le tartarughe, i cervi, i borsellini e i caratteri cinesi simboleggiano felicità, amore, lunga vita, molti figli, fortuna e pace. Sono valori tradizionali della società coreana, ma ovviamente la realtà delle nostre vite non si accorda sempre con essi. Credo che i letti siano molto importanti: è lì che nasciamo, dormiamo, riposiamo, amiamo, sognamo, ci ammaliamo e moriamo. Per me sono una delle cornici della nostra vita.
Quando stendiamo una stoffa il significato è: famiglia, coppia, amore, pace e stabilità; quando la arrotoliamo diventa: separazione, partenza, migrazione, allontanamento, protezione. In Corea [come in Italia, N.d.T.], "fare fagotto" vuol dire lasciare la propria famiglia e iniziare la propria vita, soprattutto per una donna.
La stoffa che uso per i miei fagotti può essere intesa come pelle che divide il mondo esterno da quello interno. Avvolgere qualcosa può servire a proteggerlo e conservarlo, ma anche a rigettarlo: scegliere il mondo all'esterno rispetto a quello esterno. Il corpo stesso è il fagotto più complesso di tutti. Il fagotto rappresenta anche i pochi averi che portiamo con noi dopo una catastrofe, un disastro o una guerra. È una storia d'individui, una storia di desideri, d'intimità o di segreti. La memoria e il tempo sono avvolti dal passato.

Un altro tipo di installazione con le stoffe è il mio progetto legato alle tovaglie, che ho presentato alla Fruitmarket Gallery a Edimburgo nel 1995, al Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam per Manifesta I nel 1996, e al Setagaya Museum a Tokyo nel 1997. Ho disteso dei copriletti sul tavolo, come se fossero tovaglie, e ho cercato di avvolgere le attività invisibili che avvenivano su quel piano. Ritornando alla tela con il semplice gesto di distendere la stoffa sul tavolo, sto tornando di nuovo alla superficie nella sua forma originale. Con questo progetto, volevo catturare i piccoli gesti della vita di ogni giorno, come parlare, guardarsi a vicenda, comunicare, dividere cibo e bevande, ascoltare. Poco a poco, la mia idea si è trasformata nella videoperformance Sewing into Walking - Kwangju del 1994. Da lì in avanti il mio lavoro si è relazionato di più con i fattori invisibili della vita quotidiana. Non mi interessava più "fare" delle cose, ma presentare la realtà con il semplice atto di avvolgerla o svolgerla. Le cose sono diventate più libere: non volevo più imprigionare dei materiali, ecco perché ho smesso di cucire.

Quando vedo queste stoffe usate, i copriletti usati, abbandonati, immagino sempre i corpi che coprivano, le loro memorie e storie. Per la prima Biennale di Kwangju ho installato un'opera intitolata Sewing into Walking che ho dedicato alle vittime del massacro di Kwangju del 1980. Come colonna sonora ho scelto Imagine di John Lennon. Era una pila di vestiti usati che alludevano alle ombre nascoste di quei corpi sacrificati, ammucchiati su una collina, che la gente poteva scalare fino in cima. Avevo usato due tonnellate e mezzo di abiti usati, ma due mesi dopo una tonnellata era quasi sparita, perché molta gente era venuta, aveva preso i vestiti e sciolto i fagotti. Con il cambio di stagione, le foglie cadute, la polvere e la pioggia hanno creato dei veri e propri strati di stoffa, tutti mescolati con la terra, come i corpi dei morti durante una vera guerra. In quel momento il mio lavoro è giunto a compimento.

Un'altra installazione importante con le stoffe è Laundry Field - Sewing into Walking, Looking in Sewing (Campi di panni da lavare - Cucire nel camminare, guardare nel cucire), che ho esposto alle Oakville Galleries di Toronto e in altre sedi. Nell'edificio delle Poste centrali a Trieste ho installato A Laundry Woman (Una donna-panno da lavare), 2001. Ho realizzato progetti simili anche per il Queensland Museum di Brisbane, per l'Asia Pacific Triennale del 2000, e la Rodin Gallery di Seul nel 2000. Per la Biennale di Istanbul del 1997 ho inserito delle pezze di stoffa colorata nei fori dei muri del museo di Hagya Eireni, una ex-basilica e moschea. A prima vista erano quasi invisibili. Avevo già fatto l'intervento al P.S.1 a New York nel 1993, estendendo però l'azione da un'unica parete a tutto l'ambiente.

Encounter - Looking into Sewing (Incontro - Guardare nel cucire) al Museum Friedericianum di Kassel, 1998, era stata annunciata come performance. In realtà, non succede nulla: c'è un manichino nascosto all'interno dei copriletti e tocca al pubblico interagire con la figura. Questo si lega alle mie ultime videoperformance. Io considero i movimenti del pubblico come un altro tipo di performance. Il performer è una figura immobile, come in A Needle Woman, mentre in Sewing into Walking - Istiklal Caddesi si vedono solo persone che camminano su e giù per la strada.

Cities on the Move - 2727 Kilometers Bottari Truck è una nuova versione della serie Bottari che esplora tempo e spazio. È un oggetto in movimento che ho portato con me attraversando la Corea, in undici giorni, visitando città e villaggi in cui una volta vivevo, dov'ero nata, o legati a particolari ricordi. Credo che sia interessante confrontare questo lavoro con i miei precedenti lavori bidimensionali. La mia mente era sempre altrove, seguiva il movimento del cucire. In seguito, ho compiuto un altro viaggio da Seul a San Paolo e a Venezia, in veicoli diversi. A essere interessante per me è anche il modo in cui i lavori di un artista vengono identificati e collegati tra loro. Credo che lasciare sviluppare le cose in modo naturale, ascoltare la propria voce sia il modo migliore per consentire questa identificazione, dall'inizio alla fine. In occasione della mostra intitolata dAPERTutto alla Biennale di Venezia nel 1999 ho chiuso la parete di fondo delle Corderie con uno specchio nel quale si rifletteva il camion. Lo specchio fungeva da "tenda" che avvolge lo spazio e ne apre un altro (anche se falso) davanti al veicolo. Era la prima volta che impiegavo un materiale diverso e mi ha aperto la mente verso nuove possibilità. Ho iniziato a interessarmi a come andare al di là della materialità delle stoffe.

L'autobus navetta E=Mc2 che ho realizzato in Giappone nel 2000 è un buon esempio del mio processo di cucire e avvolgere progetti viaggianti. Ho inserito E=Mc2 sulle tratte percorse regolarmente da un autobus che attraversa cinque regioni, per la Echigo-Tsumari Art Triennial. Era un modo per studiare e affermare la natura del processo alla base dei miei lavori, lo stato di energia generato dal corpo del viaggiatore e dalla velocità del veicolo.

Per il mio primo video, Sewing into Walking, 1994, ho cercato di usare il mio corpo come uno strumento per cucire, un ago che cuce la grande stoffa della natura. Era una documentazione del mio lavoro di tutti i giorni e non pensavo di usarlo per altro. Si vedeva tutto al rallentatore: il momento in cui cammino tra le stoffe, le prendo, le avvolgo, le porto in spalla, le installo. Ho scelto di usare il rallentatore per sottolineare la dimensione di trasformazione delle stoffe. Quando ho iniziato a lavorarci volevo evocare una sorta di cornice video proiettata o un monitor, come in Image Bottari. Sewing into Walking - Istiklal Caddesi, Istanbul, 1997, e Cities on the Move - 2727 Kilometers Bottari Truck contengono in sé l'idea di cucire insieme, collocare e dislocare. Creano un contrasto tra l'immobilità del mio corpo, che è "avvolto" dallo sguardo dello spettatore e la lente della telecamera. Come ho detto prima, Encounter - Looking into Sewing, 1998, e Sewing into Walking - Istiklal Caddesi, Istanbul, 1997, mi hanno spinto a realizzare il mio più recente progetto di videoperformance, intitolato A Needle Woman, 1999-2001: ho iniziato questa serie a Tokyo, proseguendola a Shanghai, Delhi, New York, Città del Messico, Il Cairo, Lagos e Londra. Usando il mio corpo come un medium che distingue gli altri e li collega, lo uso come cruna dell'ago, attraverso la quale la gente fa passare la propria individualità, la coscienza collettiva, il proprio livello socio-economico e la propria cultura. Restando in piedi con la schiena rivolta all'obiettivo, il mio corpo funge da barometro della società, delle persone, dell'ambiente e della natura. Quando il pubblico vede la mia figura, presta attenzione alla mia schiena e alla mia presenza, ma quando si accorge della sua immobilità inizia a spostare lo sguardo, a identificare il proprio corpo con il mio, cercando di indovinare che cosa io stia guardando.

All'inizio delle performance A Needle Woman per me era molto difficile resistere alla forte energia proiettata dalle persone che camminavano verso di me per strada, ma dopo qualche tempo riuscivo a concentrarmi e il mio corpo si liberava dai loro sguardi, diventava sempre più leggero. E io iniziavo a sentirmi sempre più sottile, come un foglio di carta, sempre più libera. Anche l'ago scompare quando si cuce: serve solo come strumento per riparare, guarire o avvicinare, ma alla fine non esiste, perché non rimane in situ. Lascia traccia di sé in forma di punti, poi scompare. In un certo senso l'ago è uno strumento ambiguo in termini di genere: può essere maschile o femminile. Può ferire, guarire, avere una forte presenza ma anche sparire. Trovo sempre tanti elementi affascinanti nel processo di contemplazione dell'ago e delle sue funzioni.
Quest'immagine si riferisce a un altro video della serie A Needle Woman che ho realizzato su una collina calcarea a Kitakyushu. Nel video il mio corpo è disteso su un fianco su una roccia e funge ancora una volta da strumento che evidenzia la relazione tra maschile e femminile, ciò che sta tra roccia e cielo, collegando gli elementi opposti. Io lo considero un crocefisso. Un altro video, A Laundry Woman - Delhi, 2001, presenta una situazione analoga: sul mio corpo immobile scorre lentamente un fiume. L'ho girato vicino a un luogo in cui si effettuano le cremazioni, lungo il fiume Yamuna, a Delhi, e i fiori, le ceneri e i resti bruciati scivolano sopra di me. Durante questa performance mi sentivo molto confusa, non riuscivo più a capire se a muoversi fosse l'acqua del fiume o io stessa? Ho capito che ero io, anche senza un movimento, a cambiare, non il fiume. Il fiume sarà sempre lì, ma il mio corpo scomparirà presto da questo mondo.

Lo so e non so dove sto andando, ma vorrei scoprire più cose, arrivando fino in fondo alle domande che ci poniamo sulle cose e sull'umanità. Forse verrà un tempo in cui non avrò più bisogno di fare nulla e sarò semplicemente felice di essere.