Appunti di lavoro


M i c h e l   M a f f e s o l i
Il reincantamento del mondo

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Non sono un critico d’arte. Mi interesso all’arte e agli artisti come un galantuomo, come un uomo di cultura. Non saprei dire perché siano gli artisti ad interessarsi a me; forse è un cambio di prospettive.
Ciò che mi propongo di sostenere è che finalmente si è verificata un’estetizzazione della vita sociale; l’arte non può più essere relegata ad un dominio particolare della vita sociale, così come ha voluto fare la borghesia ma, al contrario, oggi essa rappresenta qualcosa che si è andato capillarizzando nel corpo della vita sociale. In un certo senso si potrebbe pensare, ed è ciò che ho cercato di scrivere, che la vita diventa un’opera d’arte. Fare della propria vita un’opera d’arte non è più però un movimento semplicemente individuale, ma è qualcosa che accade in un ambiente estetizzato e che contribuisce a crearlo.
Per ambiente generale non si intende un’idea, o un pensiero filosofico; si tratta di uno spirito generale del tempo che farebbe pensare per analogia allo Spirito del tempo di Hegel, come atmosfera generale di un’epoca. Quando si guarda a quella che viene definita la modernità, diciamo che l’ambiente generale di questa modernità è improntato all’attivismo, al fare.
Il Faust di Goethe, nel suo gabinetto, dopo aver letto tutti i libri e sentito la carne triste, compulsa la Bibbia e dice: all’inizio non vi era il verbo, all’inizio vi era l’azione. Penso che in questo apologo ci sia proprio quello che indica il cominciamento, l’inizio della modernità. Ciò che è la caratteristica generale dell’ambiente della modernità è l’azione sul mondo: agire sul sé e agire sul mondo. Abbiamo qui le caratteristiche dei due pensieri fondanti della modernità, Marx e Freud, l’economia del privato, l’economia del politico. Questo è quello che è stato definito il produttivismo sul quale risiede e si fonda la modernità. La chiave di questo attivismo è essenzialmente un modo di pensare la vita in funzione del futuro e al tempo stesso pensare il futuro in modo essenzialmente razionale. Due grandi prospettive hanno segnato la modernità: la grande concezione politica del mondo (politica non in senso particolare, ma il politico in senso filosofico) cioè pensare l’esistenza in funzione di un futuro a venire. Direi che il senso stesso del pensiero politico moderno è un senso che definirei progettuale, o meglio proiettivo, da projectum, scagliato in avanti. Non si pensa alla propria esistenza nel senso di ciò che stiamo vivendo, qui e ora, ma nel senso di ciò che viviamo come società o come individuo in funzione del futuro. Quello che possiamo pensare è, sostanzialmente, un progetto strategico. Nella modernità c’è sempre qualcosa che potremmo definire dell’ordine del "futurismo", della futurizzazione dei rapporti sociali e personali. Vi è un rinvio del godimento [report de jouissance]: ed è questo che caratterizza l’ambiente della modernità. È quello che Michel Foucault ha definito col termine episteme, cioè il modo che ha un’epoca di comprendersi e organizzarsi e questo supera di molto le proposizioni individuali. Per usare un termine popolare, siamo immersi dentro questa episteme. In qualche modo la succhiamo inconsciamente come il latte materno. E la grande caratteristica della modernità, l’episteme della modernità, è che la vita, anche senza rendercene conto, è sempre proiettata verso il futuro.
La seconda caratteristica, detto in modo semplicistico, è — per cercare di circoscrivere l’episteme dell’epoca — il predominio della Ragione. Non tanto la ragione come caratteristica facoltà umana, ma la Ragione strumentale, cioè l’impiego della ragione secondo un fine, il fatto che ogni azione umana si indirizza ad un fine dato, e questo si esprime bene nella filosofia del XIX secolo, nello sviluppo del meccanicismo. Infatti lo sviluppo tecnologico e scientifico è stato la grande caratteristica del XIX secolo, ed esso ha continuato a svilupparsi almeno fino agli anni 50 di questo secolo.
Questi due grandi elementi della modernità, cioè l’infuturazione e la ragione strumentale vanno a costituire, in qualche modo, il substrato dell’organizzazione sociale. La maggior parte delle volte non ce ne accorgiamo nemmeno, è come la faglia freatica che si muove senza che ce ne rendiamo conto ma che ci permette di capire che il mondo è vivo. È per questo che parlo di substrato dell’età moderna; possiamo dire che questi sono i grandi valori sociali dominanti. Essi si possono riassumere in una concezione moralista della società — dando al termine moralista il senso più largo possibile, qualche cosa che risiede nel dover-essere. Tu devi essere questo o quello, la società deve essere questo o quello. È un dover-essere che può essere di destra, di sinistra, o moderato. Ma ciò significa pensare che si possa determinare a priori quello che debba essere l’individuo o la società, e che si possa agire politicamente in funzione di questa predeterminazione.
L’essenziale della produzione intellettuale moderna è una produzione moralista in tal senso. L’intellighenzia moderna è moralista, e per intellighenzia intendo i professori universitari, ma anche i filosofi, i giornalisti, e in genere tutti gli operatori culturali. E in questo senso si può ben capire come mai questa intellighenzia sia totalmente squalificata (e naturalmente mi includo anch’io). Vi è una enorme frattura tra la base sociale e quelli che si prendono il compito di ciò che deve essere o deve fare questa base sociale. Questo moralismo si è assolutamente disconnesso rispetto alla base sociale.
Perché dico questo? Perché penso che vi siano molteplici indizi attualmente, che mostrano la saturazione di una società fondata sul moralismo. Dico saturazione, non nel senso di qualcosa che finisce in modo brusco, ma con riferimento a qualcosa che via via va sparendo. La nozione è interessante. Per dare un esempio semplice, posso prendere dell’acqua e metterci un po’ di sale o zucchero, e questa soluzione, via via che aggiungo materia al liquido, diventa satura. Tuttavia non so e non posso sapere quando la soluzione diventa satura. Io credo che il problema filosofico oggi sia quello della saturazione, cioè quello di conoscere, in qualche modo, quando un corpo dato si satura, donando l’esistenza a un altro corpo.
In questo senso, noi stiamo assistendo alla nascita di un altro ambiente, di un altro spirito del tempo. Certamente con una grande difficoltà, che sta nel cogliere il nascere di questo spirito del tempo. Usiamo ancora una metafora. Per lungo tempo noi continuiamo a vedere la luce emessa da una stella, benché essa sia già morta. In una certa maniera i grandi valori moderni del futuro e della ragione possono continuare a brillare nonostante che la loro matrice di origine abbia già cessato di esistere da tempo. E l’ipotesi è che questa metafora possa farci riflettere sul concetto di saturazione; in effetti ci sono ancora molti valori che stanno nascendo, ma essi sono ancora offuscati dai valori che ancora fanno luce. Ora, il problema di una intellighenzia che avrebbe il potere di impedire di capire il valore dei problemi che stanno nascendo, non è solo un problema politico. Possiamo prendere queste due affermazioni, il futuro e la ragione, e considerarli come due ipotesi che permettono di comprendere meglio l’ambiente che si sta delinenando. Uno dei valori fondamentali che a mio avviso sta emergendo in questo momento è l’accentuazione messa sul presente, ed è una riflessione che vado facendo da molti anni sulla conquista del presente. All'opposto del futurismo, vi è una accentuazione molto forte e multiforme su quello che chiamerei presenteismo. Il presenteismo consisterebbe nel riappropriarsi adesso e ora di quel godimento che abbiamo proiettato nel futuro. È qualche cosa che è quasi inconscio perché non vi è una coscienza chiara di tale fatto. Ma vi è in realtà il fatto che io voglio vivere adesso e qui nel carpe diem, a gioire ora con gli altri di quello che è l’istante eterno. Cioè, non più l’iscrizione della propria vita in una linearità storica, ma l’interpretare la propria esistenza come una catena di sequenze, ciascuna delle quali abbia un valore intrinseco in se stessa.
Questa è la cifra dell’edonismo postmoderno. Tutto ciò che mi sfugge, che non è presente, mi è indifferente. Si assiste in un certo senso ad una specie di "stoicismo popolare". La definizione stessa di stoicismo suona: quello su cui non posso nulla deve diventarmi indifferente. Di contro vi è un accentuazione di quello che è vissuto con gli altri in un momento dato e in un luogo dato. In un certo senso si tratta di una concentrazione della storia in uno spazio, che chiamerei una specie di einsteinizzazione del tempo, cioè il porre l’accento su uno spazio che è condiviso con gli altri. Se posso dare una piccola immagine di ciò, direi che è come la piccola madeleine di Proust; la madeleine è una specie di concentrazione della storia; un piccolo spazio in cui vivo con gli altri diventa una specie di concentrazione dello stare insieme. Vi è una grande differenza con le concezioni proprie della modernità: non è più la Storia che è predominante, non vi è più un fine da perseguire, sia per un individuo, sia per una collettività, ma per contro una accentuazione del territorio, ciò che potremmo chiamare un localismo, nel senso più generale del termine, e del presente, che potremmo chiamare presenteismo. E questo mi porta ad affermare la seconda idea a proposito di quello che sta per nascere: così come al futuro si opporrà il presente, alla ragione si opporrà l’immaginazione. Vediamo un po’: immaginare, immaginazione, immagine, sono tutti termini collegati. Il senso proprio dell’immagine rispetto alla ragione è che immagine vuol dire una forma, una cosa circoscritta, che si rapporta allo spazio. Faccio un esempio: nella tradizione che è la nostra, giudaico-cristiana, noi abbiamo una sorta di diffidenza nei confronti dell’immagine. Se consideriamo la Bibbia, vi è una lotta costante dei profeti contro l’icona o l’idolo (che sono altri modi di dire immagine). L’icona e l’idolo è ciò che impedisce di avere un rapporto diretto con Dio. E quando nella Bibbia i profeti lottano contro gli idoli dei luoghi superiori, lo fanno perché secondo loro in tal modo non adoriamo Dio ma icone e idoli. Che significa questo culto dei luoghi elevati? È un culto orgiastico; attorno ad un’immagine vi è effervescenza sessuale, musicale, sportiva. Lottando contro l’icona si lotta contro il sensibile. Dunque vi è una specie di iconoclastia fondamentale. Noi sappiamo che l’iconoclastia è ciò che traversa da una parte all’altra tutta la tradizione occidentale. Se facciamo un salto di parecchi secoli, abbiamo la stessa diffidenza verso l’immagine nella tradizione filosofica. Quando consideriamo uno dei fondamenti della modernità che è il pensiero cartesiano, vediamo che per Cartesio vi è della fol du logie. Troviamo la stessa idea anche in Sartre: ne L'immaginario che è un testo del ’36, egli dimostra che l’immaginazione è qualcosa che non permette il funzionamento dell’uomo sanamente razionale. Dalla tradizione religiosa alla filosofia c’è sempre la stigmatizzazione di ciò che non sia la Ragione. E questo è qualcosa che naturalmente va a impregnare il processo educativo, ossia qualcosa che caratterizza un ambiente generale. Cioè qualcosa che va a generare nella tradizione occidentale una tradizione iconoclasta. L’immagine è qualcosa che si può collocare in luoghi dati, come il museo, luoghi chiusi che non hanno rapporti con la vita pubblica. Ma che cosa vediamo oggi? Questa cosa stigmatizzata, ritorna in forza nella vita sociale; qualcosa che è secondaria, che non è di interesse pubblico, viene, attraverso televisione, pubblicità, informatica, ad entrare in forza nella vita sociale. Ciò che era stato stigmatizzato alla fine diviene un elemento determinante, che lo si voglia o no, per il meglio o per il peggio. Non abbiamo l’abitudine di trattare con l’immagine, ma essa fa un’irruzione forsennata nella vita sociale, rientra in forza nella vita privata e pubblica, cosa che dipende dalla intrusione della televisione nella vita sociale anche se ancora non abbiamo rilevato l’effetto di questa intrusione (poiché intrusione vuol dire entrare di forza). Con questo voglio indicare che uno degli indizi più importanti del nostro tempo, accanto a quello che ho chiamato il presenteismo, è l’immagine.
L’immagine è qualche cosa che si è capillarizzato nel corpo sociale, ed è nella congiunzione di questi due elementi, il presente e l’immagine, che si può vedere l’emergere di quella che ho definito l’estetizzazione della vita sociale. Alla morale sociale della modernità, sta succedendo l’edonismo estetico della postmodernità. Per questo che ho dato delle sfumature stilistiche, perché intendo questa estetica non come un’estetica separata, museificata, immagazzinata, ma al contrario qualcosa che costituisce essenzialmente il substrato da cui nascerà la cultura sociale.
Vorrei fare una piccola precisazione semantica. Quando i filosofi greci ma meglio ancora Kant, parlavano di estetica nel senso etimologico di àisthesis, volevano dire "esperire insieme", fare l’esperienza della passione in un luogo dato. In seguito c’è stato uno slittamento semantico e abbiamo chiamato estetico l’oggetto su cui si è portata la passione. Con ciò abbiamo avuto una staticizzazione dell’estetica, l’oggetto estetico è divenuto qualcosa che sta là, un quadro, una statua, una cattedrale, ecc. Per tornare al senso iniziale, quel che accade è che stiamo riscoprendo l’aspetto dinamico dell’estetica, come passione condivisa. Dunque vi sarà dell’estetica nell’insieme musicale, nello sport, negli affollamenti; vi sarà dell’estetica in tutto ciò che caratterizza l’effervescenza sociale; e possiamo pensare ad un’estetica come effervescenza intellettuale, o culturale, sessuale, religiosa, ecc. Ed è un po’ in tal senso che parliamo di una estetizzazione del sociale che sta caratterizzando questa fine del secolo.
Per riprendere il termine "disincantamento" del mondo, che riprendo da Max Weber, secondo cui il divenire razionale del mondo ha reso disincantato il mondo, è evidente che il dispiegamento della ragione ha prodotto il disincantamento del mondo — è anche ciò che pensa Hegel. A me pare che il dispiegamento dell’immagine procurerà un reincantamento del mondo, e che, in un certo modo, quello che noi stiamo per vivere è una nuova mitologizzazione dell’esistenza.