Attraversare le contingenze allargando le prospettive

19/05/2008
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ARGOMENTI

Non facciamone un dramma
Negli ultimi due mesi la città di Milano, e non solo, è stata letteralmente invasa da "corpi danzanti" e performance teatrali che proponevano la loro "mise en scene" sotto le pensiline dei tram, nelle vetrine dei negozi o nelle piazze all'ora dell'aperitivo. Aprile è stato il mese di Danae Festival, ma anche di F.I.S.Co. o di Up to date e la lista protrebbe continuare. Insomma le proposte non mancano, eppure gli addetti ai lavori lamentano la mancanza di una programmazione più attenta e duratura. Abbiamo chiesto il parere a due artisti, Romeo Castellucci, fondatore della Socìetas Raffaello Sanzio (che proprio in questi giorni ha inaugurato il festival Uovo con la sua ultima produzione: Hey Girl!) e ad Annamaria Onetti, direttrice, con Mario Nuzzo, della neonata rassegna Exister_Danzare nel silenzio. Due punti di vista differenti che introducono da un lato un festival attesissimo come Uovo, da anni sinonimo di una programmazione concentrata ma di altissima qualità; dall'altro una rassegna che ha preferito una programmazione protratta nel tempo e in luoghi eterogenei che hanno attirato l'attenzione di pubblici differenti. Un segnale del bisogno delle persone di riappropriarsi di una drammaturgia che, nelle parole di Castellucci, è l'elemento più importante della rappresentazione scenica, aldilà dei mezzi e delle tecnologie utilizzate. Il corpo del danzatore nello spazio, la "posizione del santo all'interno del quadro", della parola nel testo... tutto e' drammaturgia. In fondo come diceva Jerzi Grotowsky: "Il teatro e' una proposta di come il mondo dovrebbe essere"














Intervista a Romeo Castellucci
fondatore della Socìetas Raffaello Sanzio

A cura di Antonella Miggiano

Antonella Miggiano:ìComincerei proprio dalla partecipazione della Socìetas Raffaello Sanzio a Uovo-Festival, un progetto che fin dalle sue origini è nato come proposta multidisciplinare, rivolta proprio a quegli artisti che non si riconoscono in modo rigido nelle tradizionale suddivisione delle discipline artistiche. Qual è il vostro contributo al festival?

Romeo Castellucci: Presentiamo l'ultimo lavoro che si chiama Hey Girl!. Si tratta di un spettacolo concentrato intorno ad una figura, si potrebbe parlare di un ritratto. Utilizzo questa tecnica sia in senso letterario, quindi legata ai romanzi che ritraggono figure femminili, ma anche in senso artistico, quindi riferito alla storia dell'arte, della pittura e della scultura. In questo caso è un ritratto che non rispecchia una forma narrativa, non c'è nessuna aneddotica, è piuttosto il profilo di una persona qualunque che in questo caso è una ragazza, un'adolescente.
La struttura del lavoro è organizzata in modo da rendere immediatamente riconoscibile la situazione. E' la rappresentazione di una giornata qualunque, dal momento in cui ci si alza al mattino, ci si prepara per uscire, si esce di casa e si torna. Questa è la struttura.

E' un po' come la struttura narrativa dell'Ulisse di James Joyce...

Sì, forse l'Ulisse di Joyce potrebbe essere un buon riferimento per quanto riguarda il potere della trasfigurazione della banalità, anche se la tecnica adottata è molto diversa, non c'è nessun rapporto con la lingua per esempio, è un lavoro muto, anzi direi "mutacico". Mutacico è chi non è muto, ma sta zitto per scelta. Nello spettacolo ci sono pochissime parole sussurrate, perchè la dimensione della parola sussurrata è una dimensione che fa ricadere l'uso del linguaggio e della parola al proprio interno. Si sussurra per non parlare, in una dimensione che è più vicina ad una forma di pensiero: la protagonista parla, ma è come se parlasse tra sè e sè.
C'è anche un riferimento all'iconografia femminile del passato e quindi alla gloria al femminile, ma questa gloria è continuamente confusa con la banalità del giorno. Questa ragazza è una figura anonima, non ha un nome, quindi la banalità e la gloria si scambiano i ruoli continuamente, è come dire "la banalità della gloria" e la "gloria della banalità"…
E' presente inoltre un lavoro su alcuni oggetti che potremo definire dei simboli ed altri elementi riconoscibili e riconducibili a figure di eroine del passato, ma in realtà è una trappola, perchè è un lavoro attraverso i simboli, ma, allo stesso tempo, contro i simboli.

So che a Uovo ci sarà anche Teodora, tua figlia, che presenterà uno spettacolo di danza...

Si, è il secondo lavoro che fa con il suo gruppo, un gruppo completamente autonomo, dove io sono solo un osservatore. Anche per me è una sorpresa.

La Socìetas è una delle compagnie più orientate verso la sperimentazione teatrale, i vostri spettacoli fondono insieme diversi linguaggi contemporanei, dalla musica al video pur mantenendo i legami con la drammaturgia classica dando vita così a delle immagini e delle situazioni molto particolari, quasi oniriche e ancestrali. Qual è la giusta dose nel teatro contemporaneo tra tradizione e tecnologia?

Intanto devo dire che non esistono modelli, non esiste un maestro, nè uno stile, probabilmente la caratteristica è quella di spostarsi in continuazione e quindi di cercare nel principio di movimento la propria sostanza. E' necessario muoversi e attraversare i linguaggi senza cadere in nessun dominio specifico. D'altra parte questa è la forza peculiare del teatro, dove veramente tutto può accadere. Quindi si tratta di lavorare su questa possibilità.
In ogni caso il mio problema non è quello delle avanguardie, dove la questione principale era quella di spezzare dei codici, e di avanzare con movimenti iconoclasti; direi che la mia scelta è quella di ricercare un continuo rapporto con la rappresentazione classica, che per me è una struttura molto forte e importante. Per rappresentazione classica intendo il quadro, lo spazio, il volume, e dunque le posizioni che occupano le persone e gli oggetti, la geometria di un luogo, le assi fondamentali, le linee che si tracciano, i pesi, i suoni…e dunque la posizione del santo all'interno di un quadro. Questa è l'influenza più forte che si può avere rispetto alla storia dell'arte e il mio rapporto con la tradizione è dettato proprio da queste condizioni imprescindibili della rappresentazione.
Secondo me sarebbe meglio evitare gli stereotipi della multidisciplinarietà, perchè si possono creare situazioni poco interessanti. Quello che tiene in piedi una forma è il senso della sua necessità in un determinato momento: tutto dipende da questa necessità di tipo drammaturgico. E' la drammaturgia la cosa più importante, il modo di mettere insieme le cose, ed è questa la vera tecnologia, non è qualcosa che ha a che fare solo con gli apparecchi, è soprattutto uno stato mentale.

Le tue regie fanno del teatro un'arte plastica, questo probabilmente deriva dalla tua formazione artistica in senso stretto, visto che ti sei diplomato in pittura e in scenografia all'Accademia di Belle Arti di Bologna e hai anche fatto alcune mostre. Sicuramente non mancano i riferimenti alla pittura e ai linguaggi dell'arte visiva... Che rapporto hai attualmente con la pittura e con l'arte contemporanea?

In quanto osservatore c'è un rapporto che è sempre più stanco. L'arte è sempre più confusa col suo mercato, e questo le fa perdere terreno, perchè non ha più problematiche da risolvere. L'arte che rispetto è quella che pone dei problemi, che è essa stessa un problema. Il mercato tende invece, prevedendolo, ad eliminare questo problema, e poi molto spesso è fatto di stereotipi, di condiscendenze che rendono l'arte completamente debole e decisamente poco interessante.

Questo significa che preferisci guardare al passato?

Assolutamente no, preferisco guardare cose sconosciute, non pre-incanalate dal sistema. Questo non significa orientarsi verso il passato, direi che al contrario bisogna guardare alle forme del futuro e saperle vedere, perchè ci sono molti artisti fuori dalle categorie che pensano al futuro e per questo vengono tagliati fuori. In realtà è il mercato dell'arte che guarda al passato.

L'orientamento dell'intera opera della Socìetas Raffaello Sanzio è la concezione di un teatro inteso come arte che raccoglie tutte le arti, che cosa significa parlare oggi di multidisciplinarietà? Qual è per te oggi il significato di un Teatro Totale e quale dovrebbe essere la risposta del pubblico?

Direi che lo spettatore riveste un ruolo fondamentale, la sua è diventata una figura deflagrante che sta occupando tutto lo spazio possibile. Credo che l'arte e il teatro più interessante siano quelli che prendono in considerazione il punto di vista dello spettatore, il centro galleggiante del suo cervello che e' la' dove si svolge lo spettacolo, qualcosa in grado di superare la figura dell'artista, che diventa secondaria, meno pregnante, meno degna, meno sorprendente rispetto a quella dello spettatore. Dunque io faccio appello alla forza creatrice di chi guarda, che deve sciogliere le immagini congelate che l'artista gli pone.
Per quanto riguarda invece la multidisciplinarietà e l'utilizzo di diversi linguaggi come dicevo prima di per sè è addirittura noioso, perchè spesso si riduce ad essere una mera formula. Penso che non sia sufficiente dichiarare la propria commistione di linguaggi per essere interessanti. L'unica cosa che salva un'opera è il fatto che questa possa lasciare un segno.
Il teatro per me è una delle forme più radicali di arte perchè si prende tutto, sostituisce di fatto la realtà spostandola in tronco. Non è un problema di avanguardie, il teatro è da sempre un'Arte Totale che raccoglie in sè tutte le altre: la musica allude al teatro, così come la pittura, la scultura...

Come spieghi questa necessità di spettacolarizzazione della cultura sotto forma di festival, rassegne, premi ecc.?

Trovo che ci siano alcuni festival in Italia come Uovo ed altri che sono le uniche cose per cui vale la pena spostarsi per andare a vedere. Le istituzioni sono completamente ferme e hanno lasciato un vuoto politico ed economico tale da far diventare queste manifestazioni marginali, laddove in Europa svolgono un ruolo fondamentale, penso al Festival d'Automne, o a quello d'Avignon.
In Italia i festival sono piccoli ed hanno a disposizione pochissimi mezzi. Questa è una gravissima deficienza della politica culturale italiana, ma anche delle grosse città come Milano o Roma che hanno una programmazione veramente imbarazzante. Rispetto ad una qualsiasi città francese di provincia gli spettatori italiani conoscono pochissimo il lavoro teatrale internazionale.
La cosa veramente interessante di queste manifestazioni - e includo anche il Festival di Santarcangelo, il festival di Dro alla Centrale di Fies, e quello delle Colline torinesi - è che pongono un accento sul lavoro dei più giovani. Questo è un aspetto fondamentale perchè in questo momento la spinta viene proprio dalle nuove generazioni.

Intervista a Annamaria Onetti
responsabile, con Mario Nuzzo, di Exister_Danzare nel silenzio 2008

Antonella Miggiano: Comincerei a parlare del titolo che avete dato a questa rassegna di danza contemporanea. Due concetti molto forti: quello di "esistenza" e quello di "silenzio". Due termini che messi insieme fanno un effetto straniante e che trasforma quell'esistenza in un concetto più vicino alla "resistenza", soprattutto se penso che comunque si tratta di un evento di spettacolo, dove il silenzio non e' sicuramente l'arma migliore... Pensi che la danza abbia ancora bisogno di uscire allo scoperto? Di urlare la sua esistenza?

Annamaria Onetti: Penso di sì, in questo momento siamo solo all'inizio di un lavoro di ricostruzione. Sicuramente ora la danza e le arti performative contemporanee stanno beneficiando di una particolare attenzione e di una forte spinta, ma c'è ancora molto da fare. In questo senso i primi mesi di quest'anno sono stati molto intesi, basta pensare alla ricca programmazione del mese di aprile, ma già a maggio e giugno si trovano meno occasioni di "danza", ritornando a quel silenzio che noi vorremmo non esistesse.

Nelle linee guida del vostro progetto proponete di completare la programmazione esistente con l'integrazione dei "corpi ai margini" in alternativa all'attuale proposta di danza come intrattenimento. Però i festival di teatro e danza sono tantissimi in tutta Italia, penso a Danae, Up to Date, Uovo, Oriente Occidente, Interplay, solo per citarne alcuni... Pensi che tutti questi festival non bastino ancora a restituire alla danza quella "parola" della quale è stata privata?

Sicuramente tutti i festival italiani fanno un importante lavoro, ma noi ci stiamo rivolgendo ad una città come Milano, una metropoli dove non dovrebbe esserci una programmazione discontinua; quello che noi abbiamo denunciato fin dall'inizio è un "vuoto" fatto in particolare di assenza di continuità.
Exister non è un festival: di fatto la nostra ambizione è di gridare forte l'esigenza di una stagione di danza, richiedere una cadenza temporale che permetta alle persone di seguire al meglio la programmazione. I festival spesso sono fatti per gli "appassionati": chi ha una vita comune, un lavoro o una famiglia, fatica a seguire una programmazione serrata, concentrata in pochi giorni, le maratone si susseguono e a Milano, in particolare, c'è bisogno anche di alternative.
I festival devono essere momenti di approfondimento di un tema, una "riflessione" precisa su un argomento, da qui siamo partiti per tentare una strada diversa, complementare ma, appunto, alternativa.
La gestione economica di un'iniziativa come Exister, con 10 appuntamenti distribuiti in quattro mesi è molto diversa da quella di un evento concentrato in 10 giorni. I festival si sono sviluppati in modo così anomalo perchè la legislazione e il sistema teatrale italiano hanno tracciato dei confini molto precisi.

Quali sono state le difficoltà che avete incontrato nell'organizzare la rassegna?

A livello organizzativo non abbiamo incontrato nessuna difficoltà, la nostra squadra era già ben collaudata ed è stata un'esperienza umana e professionale molto bella. Gli unici problemi sono stati quelli relativi ai finanziamenti. I fondi sono sempre molto pochi, ma nonostante questo e grazie ad un successo così eclatante abbiamo avuto molte conferme, sia dal punto di vista organizzativo che artistico. Abbiamo sempre avuto tutto esaurito e siamo stati seguiti in tutte le date dalla stampa; gli artisti proposti non erano nè sconosciuti nè scontati. Il rischio che ci siamo presi è stato soprattutto rispetto alle capienze delle sale, infatti abbiamo scelto luoghi con cento ma anche con più di mille posti.

Nella vostra programmazione avete dato spazio ad ospiti italiani ed internazionali piuttosto noti, che a mio avviso non danzano proprio nel silenzio. Penso a Nigel Charnock o a Virgilio Sieni, ma anche al duetto Zappalà-Sollima, abbastanza noti al pubblico. Come hanno risposto gli artisti al vostro invito? E quali sono stati i criteri di scelta per quegli artisti che invece agiscono ancora nell'invisibilità?

Il titolo della rassegna si riferiva ad una situazione specifica: la danza c'è ed è molto "sonora", ma a Milano spesso risulta costretta al silenzio. Questa è stata la nostra visione. Ci sono artisti che comunque lavorano molto, ma non a Milano. Virgilio Sieni non era ospite in questa città da molto tempo, Zappalà aveva proposto il suo ultimo spettacolo a Saronno, al teatro Giuditta Pasta.
Gli operatori culturali che lavorano per la danza a Milano hanno fatto delle scelte molto belle negli ultimi anni, scelte d'avanguardia, coraggiose, ma che alle volte rischiano di tenere fuori artisti molto interessanti che sono fuori dalla loro particolare "interpretazione" della danza. Noi abbiamo voluto dar voce ad alcune compagnie che lavorano moltissimo a livello internazionale come gli A fleur de peau o gli Alias, ma anche a cinque compagnie italiane. Tra queste abbiamo scelto di promuovere lo spettacolo di Ariella Vidach, per sostenere vivamente il lavoro di una "coraggiosa" che continua a stare a Milano da anni nonostante tutto, e di una giovane compagnia come Schuko, che merita di essere supportata perchè è una promessa per il futuro e sta sviluppando un lavoro molto serio con pochissimi mezzi e con grande professionalità.

Parlando invece del concetto di nomadismo, concetto del quale la danza sembra si stia appropriando, penso appunto alle rassegne itineranti, ma anche alla necessità di danzare per strada, sui tram, sotto le pensiline dei bus, tutti luoghi molto lontani dal palcoscenico tradizionale. Qual'è il posto che secondo te si presta meglio alla danza contemporanea?

La nostra scelta è stata quella di dare più spazio possibile alle intenzioni e preferenze dei coreografi. La danza contemporanea non è "una", la danza contemporanea racchiude in sè tante forme di danza, da quella più lirica a quella più performativa. Danzare in strada è un modo per comunicare direttamente con quel pubblico che a teatro non va.
Nel nostro caso si è voluto agire in maniera diversa: per ogni compagnia abbiamo cercato un palcoscenico che esprimesse al meglio la natura dello spettacolo e che ne esaltasse il contenuto. Gli abbinamenti fra l'artista e il luogo sono stati meditati sia per le forme, sia per la natura degli spazi che per la loro storia.
La performance numero Zero improvvisation di Sollima-Zappalà, ad esempio, è stata presentata all'Auditorium, in un luogo frequentato prevalentemente da appassionati di musica, ai quali era interessante far incontrare anche la danza, ma questo è anche un luogo strutturalmente adatto ad esaltare la musica del violoncello di Giovanni Sollima. Abbiamo avuto la piacevole sorpresa di incontrare un pubblico nomade che ha seguito la manifestazione con fedeltà.

La danza insieme alla musica e all'arte visiva è sicuramente uno dei mezzi espressivi più antichi che ogni società ha a disposizione per rispondere al bisogno di comunicazione e di aggregazione. Tuttavia si pensa ancora alla danza come qualcosa di distante dai "comuni mortali", forse perchè abbagliati ancora dai canoni classici e tradizionali del balletto. Pensi che il festival o la rassegne possano avvicinare l'arte al pubblico e restituire quell'insieme di elementi rituali che la società contemporanea a perso?

La danza possiede sempre questo duplice valore: da un lato ci conduce in territori molto lontani, ci ammalia con virtuosismi e "atti" quasi sovrumani, mi riferisco alla danza lirica o classica, ma dall'altro lato è vicinissima a tutti noi.
Quello che mi ha fatto innamorare della danza contemporanea è stato lo sfuggire da un formalismo precostituito, una libertà espressiva che in altri stili non avevo incontrato.
Con la scelta di "Des gens qui dansent" di Jean Claude Gallotta il 29 Aprile agli Arcimboldi - lo spettacolo conclusivo della Giornata della danza del Comune di Milano che coordiniamo noi artisticamente - abbiamo voluto dare proprio questo messaggio: danzare in qualunque momento della vita e a prescindere da qualunque fisicità, sempre.

So che tu e Mario state preparando già la prossima edizione basata sul concetto di "partecipazione". Intendi una partecipazione più attiva da parte del pubblico o degli artisti?

Ci sono molti modi di leggere "danzare il silenzio". In un articolo apparso sulla Repubblica tutti gli artisti partecipanti hanno dato la loro interpretazione al tema, con sfumature molto diverse tra loro e, alle volte, diverse anche dal filo conduttore della rassegna. Questo varrà sicuramente anche per il concetto di "partecipazione", inteso come la partecipazione degli artisti anche nella scelta del luogo, e quella del pubblico nel seguire le proposte, con l'obiettivo che la partecipazione della "città" sia sempre maggiore. E' importante che una città come Milano, ricca di proposte ma caotica nell'offrirle ai cittadini, possa beneficiare degli aspetti organizzativi e trasversali - in termini di artisti e di luoghi - di un'iniziativa come Exister. Exister è un progetto triennale, che propone un'alternativa, ma soprattutto un completamento di quanto esiste già nella città, è una sorta di tessera che unisce altri importanti elementi, come i festival e le rassegne, di Milano. Cerchiamo così di dare altri stimoli, una nuova visione.

In che direzione sta andando la danza contemporanea? Come vedi questa ibridazione con le arti visive e con le nuove tecnologie?

La contaminazione fra arti visive e tecnologie ha avuto un grande successo in tutta Europa, ma secondo me ci troviamo ora in una fase di ritorno al rigore tecnico e coreografico. L'integrazione di mezzi differenti è un concetto molto vicino alla nostra quotidianità ed è quindi normale che anche nella danza contemporanea divenga sempre più usuale.
Mi auguro che questo non porti ad una omologazione delle proposte, ma rimanga sempre una certa diversità fra gli stili, e che ci sia sempre modo di poterli vedere tutti.
Gli operatori culturali, noi per primi, devono essere promotori di un pluralismo che consenta la libera circolazione di idee e di stili. Non vedo un'unica direzione ma tante: la contemporaneità è fatta di ricerca, di tentativi, di concetti, di ritorni, che si incrociano continuamente, non esiste una direzione specifica ma tante e diverse. Sta a noi creare le occasioni perchè questa diversità e ricchezza non venga mai meno...

Romeo Castellucci, artista e regista è fondatore insieme a Chiara Guidi e Claudia Castellucci della Socìetas Raffaello Sanzio. Gruppo artistico di punta della sperimentazione teatrale italiana, nata a Cesena nel 1981.

Annamaria Onetti, danzatrice e coreografa, nel 2003 fonda ArtedanzaE20; dal 2008 è referente per la Lombardia del progetto di rete nazionale Anticorpi e vice presidente del c-DAP (coordinamento danza e arti performative contemporanee della Lombardia). È l'organizzatrice insieme a Mario Nuzzo di Exister 2008_Danzare nel Silenzio, rassegna di danza contemporanea.



Uovo - Performing Arts Festival 2008
Un progetto indisciplinato sulla contemporaneita'
Superstudio Più, via Tortona, 27 Milano
Scuola d'Arte Drammatica Paolo Grassi, via Salasco, 4 Milano
Triennale di Milano, viale Alemagna, 6 Milano
Magazzini Generali, via Pietrasanta, 14 Milano
Info e prenotazioni Superstudio Più: 02 42250131
Il comunicato del festival
info@uovoproject.it
www.uovoproject.it


Exister - danzare nel silenzio
Rassegna di Danza contemporanea
www.exister.it


Queste interviste in formato PDF da stampare

Le immagini:
Hey Girl!, foto di Francesco Raffaelli e Steirischer Herbst Manninger
A Fleur de peau
Virgilio Sieni
Zappalà-Sollima
Nigel Charnock
Schuko
Ariella Vidach AIEP
Alias

Antonella Miggiano è esperta in Comunicazione e didattica per l'Arte Contemporanea. Collabora con UnDo.Net, vive e lavora a Milano.

staff@undo.net



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