Quattro "realtà" non profit in transizione per cui lo spazio è una variabile pur essendo un'idea fondante. Che agiscono in luoghi temporaneamente disponibili in cui marcare - o confondere - i passaggi nel tempo (Opera Rebis), oppure fortemente caratterizzati: come un lungo corridoio cieco (Condotto C), un rifugio con fenestrella fra privacy ed esibizionismo (Wunderkammern), magari ambiti in cui sviluppare mappe (Start).
Persone che mettono in comune le loro storie arrivando o rimanendo a Roma perchè l'hanno scelta. Caratteri diversi che emergono in queste 4 interviste, ma volontà che si incrociano sul territorio e si sono confrontate con altre domenica scorsa nell'incontro organizzato da Michela Gulia ed Eleonora Farina.
Interviste a cura di Michela Gulia ed Eleonora Farina
OPERA REBIS
Intervista ad Antonia Alampi
Opera Rebis è un’associazione non profit fondata nel 2008, attiva sia a Firenze che a Roma e priva di un proprio spazio espositivo. Tra i vostri intenti c’è quello di fornire occasioni di visibilità e crescita a giovani artisti, soprattutto italiani. In che modo si concilia questo proposito con la mancanza di uno spazio espositivo stabile? A che scelta risponde?
Per il momento le città in cui abbiamo “operato” sono Firenze e Roma, ma la mancanza di una base stabile ci stimola a pensare di lavorare potenzialmente ovunque. L’idea è proprio quella di inserire le nostre iniziative in contesti diversi, magari all’interno di spazi abbandonati, inutilizzati o in stato di “transizione” da una funzione ad un’altra. I cambiamenti profondi degli ultimi anni hanno implicato una rapida trasformazione dei luoghi, non soltanto dal punto di vista della loro fisionomia, ma anche delle loro caratteristiche di “presenza antropologica”. Scopo principale della nostra attività è quella di arrivare a una sorta di mediazione tra le caratteristiche – morfologiche, sociali, antropologiche, economiche - dei luoghi scelti e il portato della creatività degli artisti di volta in volta coinvolti. Il nostro proposito è anche la costituzione di archivi con video interviste, immagini, documentazione varia, anche di tipo storico - magari attraverso la collaborazione con l’Università - per creare una traccia significativa del passato e del presente prima del cambiamento. In sostanza, un intervento capillare sul territorio che implichi il coinvolgimento dei suoi attori principali e che contribuisca a dare un senso di continuità anche di fronte alle trasformazioni più radicali.
Il primo progetto di Opera Rebis è stato We are here, una mostra che riuniva le creazioni di 14 tra le più importanti scuole di gioielleria a livello internazionale, e che è stata seguita da un simposio tenutosi nella cornice del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze. Il secondo progetto invece, C’era una volta un futuro, apre a Roma con una mostra ospitata all’interno di una struttura non destinata ad accogliere opere d’arte, un locale in vendita che in precedenza era stato utilizzato come fabbrica di materassi. Puoi parlarmi di queste iniziative?
Credo che questi due progetti di segno così marcatamente differente siano abbastanza indicativi delle nostre intenzioni. L’analisi del territorio, delle sue potenzialità, del suo trascorso, delle sue peculiarità ci porterà a progetti sempre diversi. A Firenze la mostra era ambientata all’interno delle Pagliere di Porta Romana, struttura medicea, e la città è nota per una tradizione orafa antichissima. Abbiamo coinvolto i dipartimenti di scuole di oreficeria attive in tutto il mondo - da Chicago a Tel Aviv fino a Tallin - a riflettere sullo stato della gioielleria sperimentale in una città fondamentalmente molto tradizionalista e in un contesto storico-artistico fortemente caratterizzato. Il confronto diretto ha portato ad acquisire nuove consapevolezze e - per tutti gli artisti, compresi gli italiani - la possibilità di creare una rete di relazioni e di scambi tuttora attiva. C’era una volta un futuro (in corso fino al 19 marzo) è invece una mostra che riflette sullo status dell’Italia di oggi, in una struttura con molte potenzialità, ma “abbandonata a se stessa”, senza strategie e prospettive visibili. Il luogo diviene così metafora di una situazione “esistenziale” sicuramente sentita in gran parte del nostro Paese. Anche in questo caso il progetto è comunque partito dall’analisi di un territorio e di una struttura determinata.
Cosa motiva il desiderio di sostenere e valorizzare soprattutto artisti italiani?
Rispetto all’esterofilia a tutti i costi di molte strutture o organizzazioni, ci interessa scoprire e sostenere artisti italiani, anche se questo non costituirà un vincolo per le diverse iniziative. D’altronde un intervento e una riflessione sul territorio non possono prescindere dal coinvolgimento di artisti che in questo territorio vivono e lavorano.
Nei quindici giorni in cui la vostra mostra sarà visitabile, ospiterete all’interno degli stessi locali in via dei Volsci una serie di attività collaterali. Puoi parlarmene?
Vogliamo letteralmente “animare” il luogo durante l’intero periodo di apertura della mostra, coinvolgendo persone diverse e ospitando progetti di differente natura. Sono in programma diverse performance proposte da curatori esterni, un workshop di fotografia condotto da Marco Biondi e Delfina Todisco (dall’8 al 13 marzo), alcune rassegne di video, incontri con personalità e associazioni del settore, sempre inerenti al tema trattato dalla mostra… tutto sarà segnalato sul nostro sito internet.
Puoi anticiparmi qualcosa dei vostri prossimi progetti?
Stiamo lavorando a un progetto sulla didattica, non solo dal punto di vista dell’insegnamento nelle scuole e nelle accademie d’arte, ma anche sulle metodologie di mediazione tra opere e pubblico nelle strutture espositive. L’Italia purtroppo è ancora molto indietro su questo aspetto, considerato marginale e di poca importanza.
Opera Rebis
L'Associazione Opera Rebis è composta da Antonia Alampi e Anna Simone.
c/o Via dei Volsci 114-116, Roma
www.operarebis.com
opera.rebis@gmail.com
WUNDERKAMMERN
Intervista a Franco Ottavianelli, Afra Zucchi e Giuseppe Ottavianelli , fondatori di Wunderkammern a Roma
Siete nati nel 1998 quale associazione culturale in un piccolissimo spazio di Spello (PG), un profferlo in pietra rosa del Subasio all’interno di un palazzo medievale del delizioso paesino umbro. Come e perché è cominciata l’avventura di Wunderkammern, in tedesco letteralmente ‘Camere della Meraviglia’? (siete voi stessi che citate la frase del biologo inglese J. B. S. Haldane: “Il mondo perirà per carenza non di meraviglie, ma di meraviglia”)
Si, quando abbiamo fondato la Wunderkammern intendevamo proprio le ‘Camere della Meraviglia’. Con un semplice scarto semantico abbiamo voluto ritoccare il concetto classico di Wunderkammer, trasformando la raccolta delle mirabilia un po’ kitsch nella raccolta in progress di ‘eventi di meraviglia’. Proprio come Haldane.
Verissimo, la fenestella di Spello si affacciava sotto il profferlo e l’antica leggenda vuole che vi abbia predicato San Francesco. Come è cominciata l’avventura Wunderkammern? Una leggenda più attuale racconta che a suggerire la nascita fu un vigile del fuoco. Altre versioni riportano che fu un tafano a stimolare l’estro estetico del vigile stesso. L’ipotesi è da scartare. E’ confermata l’esistenza del tafano dell’arte ma non vi è prova che possa aver punto il pompiere. Forse, ma in modo indiretto. L’oistros dell’arte è sì benevolo e protettivo ma è improbabile che, nel pungere un dipendente della protezione civile, possa avergli suggerito quel meritorio atto estetico. Secondo una terza ipotesi avanzata da Mr. David Wilson, inventore del singolare Museum of Jurassic Technology di Los Angeles, la causa sarebbe da ricercare nella puntura della formica stridulante del Camerun. Sull’attendibilità del bizzarro personaggio non c’è garanzia alcuna.
I perché dell’avventura e l’identità del suggeritore rimangono così irrisolti: fu una traccia di mirabilite nascosta nella pietra rosa del Subasio o per qualche mirabile virtù del profferlo di San Francesco? Voi che ne dite?
Franco, artista e insegnante d’arte, Afra, insegnante di inglese, Giuseppe, dottorato in ingegneria aerospaziale: quali le motivazioni che vi hanno spinto a gettarvi nel no profit dell’arte contemporanea? Perché un nucleo familiare decide di investire tempo ed energie in un lavoro non redditizio come questo?
Come ci si possa gettare nel no profit dell’arte contemporanea è il problema che interessa a tanti, compresi gli intervistatori, suppongo.
Per quanto mi riguarda è difficile elencarne le motivazioni per una questione di ridondanza; sono troppe le congetture, c’è il rischio di addentrarsi in un dilagare di superfluità. Provo a ridurre all’essenza e sintetizzo: siamo di fronte al classico “problema del nonno”. Un mix variabile tra fattori ereditari e fattori culturali, l’incrocio tra quanto i nonni ci hanno tramandato e quanto ci possono aver trasmesso per via genetica. Non a caso in Wunderkammern sono in bella mostra i ritratti di due nonni di Franco. Qualche artista ha notato la simbologia, dedicando loro graziosissime evoluzioni barocche.
Partiamo dall’ingegnere aerospaziale e dal suo interesse all’arte. Riguardo al fattore culturale, Giuseppe col primo latte ha succhiato arte. Quasi trent’anni di frequentazioni artistiche in casa, interrotte solo da studi spaziali tra l’Inghilterra e varie parti del mondo. Già alla fine degli anni Ottanta in famiglia c’era un’altra galleria d’arte, sempre nella mitica via delle Foglie a Spello, sempre no profit. Riguardo al fattore ereditario? A parte il padre artista, in famiglia non ricordiamo precedenti, nemmeno risalendo al nonno del nonno. Tutto sarà partito da un Nonno preso a caso, un Nonno Dionigi, il Nonno di Giovanni o il Nonno di Roberto. Nonno Adamo valga per tutti, fu il capostipite d’infinite varianti utili o inutili.
Per quanto mi riguarda, con la sorella gemella siamo nati sotto le bombe e subito siamo stati portati al rifugio. In paese la nostra cantina fu un ricovero per parecchi cittadini sfollati, fuggiti dalla guerra, da Viterbo e da Roma. Già allora mio padre nella cantina/rifugio s’inabissava nel no profit, offrendo riparo a tante persone. Per lui sarà stato un fattore ereditario o culturale?
Va a finire che la colpa sia proprio del tafano. L’ipotesi si giustifica ed è rafforzata dalla determinante presenza di Afra in Wunderkammern. Sempre vicina assistente nelle mie installazioni da artista, insieme abbiamo inventato la Wunderkammern come atto d’amore. L’oestrus dell’arte come sublimazione dell’estro di valenza erotica: in lei, in noi, i due fattori coincidono perfettamente. Ci lega una sintesi tra organizzazione neuronale e conoscitiva, una comprensione ormonale e umorale. Di Afra vanno considerate la matrice culturale latino-americana nonché l’esperienza didattica maturata nei licei, un buon osservatorio pluriennale e privilegiato sui giovani. Ne è scaturito un aesthetic brainframe ben strutturato, a dimostrazione dell’assunto di Kerckhove: “siamo continuamente creati e ricreati dalle nostre stesse invenzioni”. Una direzione eccellente. E nessun gap generazionale. Afra si confronta in modo naturale con le nuove generazioni di artisti e curatori always on, sempre connessi. I giovani nativi digitali, digital kids, lontani miliardi di anni luce dalle nostre esperienze ‘matusa’, eppure così affettuosamente vicini.
Il 18 ottobre 2008 segna l’inizio della vostra avventura romana. Avete infatti inaugurato un affascinante spazio (un’ex frutteria) nella zona di Tor Pignattara. Anche in questo caso una privata abitazione che a volte viene aperta al pubblico. Perché questo trasferimento? In che direzione state andando in questo momento, grazie anche al basilare sostegno delle istituzioni cittadine e a un fondamentale rapporto con il territorio capitolino (in primis si vedano le performance di Kinga Araya e di Alexander Hamilton Auriema a Piazza San Lorenzo in Lucina all’interno del progetto “Berlino del Muro”)? Come vi inserite nella moltitudine di spazi no profit romani, alcuni giovanissimi come voi?
L’ex-deposito di frutta ha una cantina con celle simili ai rifugi della mia infanzia. Inoltre ha tante finestre, chiuse, aperte e sbarrate, una superfluità dilagante che esalta le caratteristiche spellane della fenestella come spioncino, frame simbolico di privacy/esibizionismo. Così come il giardino dal grande muro, che fronteggia e fa fronte alla curiosità dell’impaziente vicinato. Il rapporto tra privato e pubblico è un nostro concetto base. In Wunderkammern l’arte inizia la sua parabola ascendente muovendo dal privato dell’artista alla privacy del collezionista. Gli arredi in Wunderkammern significano questo. Le foto dei nonni, le poltrone di raffinato design, le amichevoli spaghettate appartengono alla sfera del privato. Simbolici ma pregnanti.
Questo percorso lineare tocca il tema del diritto all’immagine, filo conduttore tra la sfera del privato e la sfera pubblica. Ci poniamo in rapporto con il territorio capitolino e questo giustifica il sostegno delle istituzioni cittadine, che tengono in considerazione la nostra attività. Sostegno a volte simbolico… la crisi, le crisi… “mala tempora currunt”. Con gli altri spazi no profit romani ci piace confrontarci nelle tematiche. Ben vengano i doppi alchemici e le coniuxio oppositorum. Incoraggiamo ogni voluta e volteggio.
La fenestella di Spello delineava chiaramente un rapporto pubblico/privato tra l’artista e il visitatore; le opere potevano essere infatti viste solo dall’esterno, attraverso un doppio gesto, esibizionista da una parte e voyeuristico dall’altra (come avete tenuto a sottolineare nella risposta precedente). Anche in questa nuova location una finestra è presente nel cortile dello spazio. Anche qui, quindi, volete svelare e nascondere allo stesso tempo la magia che ogni nuova mostra porta con sé?
Non credo nella magia. Anzi, come artista spesso metto a nudo la falsità dei maghi. Penso che gli artisti, gli studiosi e i curatori ci amino per via del nostro tafano estetico che punge senza alcun rischio chiunque si avvicini. Lo slogan preferito a Spello era: “Camere della meraviglia, camera dei miracoli”. L’estro di Wunderkammern invita a percepire nell’arte il miracolo, a conferma che non si fa magia. Per noi l’arte è come la scienza, inizia dove cessa la magia. Di fronte ad un problema insolubile viene spontaneo dire: solo la magia potrebbe risolvere. Arte e scienza non sono però cose di maghi, sono il patrimonio comune dell’umanità. Appena una mente fertile risolve l’irresolubile subito si grida al miracolo e la magia è già scomparsa. La soluzione permette di vedere nuovi confini avanzati e il problema risolto avrà perso il suo alone misterioso. Rimane solo il fascino del miracolo compiuto. I maghi invece sono un po’ spocchiosi. Per loro mi piace parafrasare Giovan Battista Marino, anche se in tutt’altro contesto: “Nel mare dove Wunderkammern pesca e dove Wunderkammern traffica, essi non vengono a navigare”. Continuando nelle citazioni mi viene in mente Robert Musil: “Il programma di ogni singola opera d’arte può essere questo: audacia matematica, dissolvimento della coscienza negli elementi, permutazione illimitata di questi elementi: tutto è in relazione con tutto, e da ciò trae sviluppo”. A Spello ogni artista ci ha sottoposto un progetto di miracolo. Noi abbiamo espresso il nostro desiderio di voler vivere lo spazio insieme all’opera. Abbiamo offerto una superficie espositiva voltata, scabrosa, fatta di pietre rosa del Subasio, con una microfinestra da cui non si vedeva quasi nulla. Ma uno spazio difficile è vitale, perché offre un bel po’ di problemi. Altrimenti diventa un ripostiglio invaso di polvere e ruggine e si rischia l’estinzione.
I problemi irresolubili hanno stimolato soluzioni originali, miracolose. Abbiamo offerto ogni collaborazione dove ci fu richiesta, con tutto il no profit possibile. E con grande rispetto abbiamo lasciato autonomia operativa. Abbiamo superato il concetto stesso di curatela, proprio con la permutazione illimitata degli elementi di cui ho fatto cenno a proposito di Musil. Abbiamo anche realizzato progetti con curatela, formale ma senza formalina, vivi, perché affrontavano problemi vissuti da tutti noi. La curatela autentica è sempre scaturita dall’idea Wunderkammern: camere della meraviglia, visibilità limitata dal tempo e dallo spazio, diritto/immagine.
A Roma offriamo altrettanti problemi irresolubili, in attesa di miracolo. Le cantine, le scale, l’umidità, il muro esterno. La scientificità progettuale richiesta è ancora più rigorosa, abbiamo istituito un Comitato di garanti. Con la solita modestia ci mettiamo a disposizione completa, su richiesta offriamo aiuto scientifico o manuale no profit, passiamo lo straccio e passiamo le idee.
Progetti di mostre ci vengono proposti continuamente. Ogni tanto riceviamo qualche progetto di miracolo. Noi pure qualcuno ne inventiamo. Ci piace uscire in strada e guardarci intorno. Come sempre siamo interessati a potenziare una proficua interazione tra le potenzialità e specificità del territorio di riferimento e quelle della ricerca artistica più avanzata.
Wunderkammern
Via Gabrio Serbelloni 124, 00176 Roma
06.45435662 / 349.8112973
www.wunderkammern.net
postmaster@wunderkammern.net
CONDOTTO C
Intervista a Fabrizio Pizzuto
Inizierei chiedendoti dello spazio di Condotto C, una project room costituita da un corridoio lungo 16 m e largo poco più di 2, situata in una zona non centrale di Roma, che oggi, dopo un accurato lavoro di restauro, si presenta al pubblico con un aspetto fortemente connotato. Quali progetti avete immaginato per questo tipo di spazio?
La nostra idea è quella di proporre dei lavori site specific. Ci interessava dimostrare come un’installazione si possa impadronire di un luogo ben connotato e trasformarlo anche dialetticamente. Il progetto nasce da lunghe chiacchierate tra me, Marco Bernardi, Chiara Girolomini e gli altri artisti che frequentavano lo studio di Marco. In pratica nasce davanti a lavori d’arte e al desiderio di scambio e di confronto sul concetto di installazione. Marco è stato assistente di Fabio Mauri e noi due ci siamo conosciuti in occasione della mostra di quest’ultimo a Volume!, dove io lavoravo con Sauro Radicchi alla realizzazione delle installazioni. In seguito io stesso ho collaborato saltuariamente sia con Mauri che con Andrea Aquilanti, ed insomma, anche a causa di questa formazione, siamo da sempre interessati al discorso sulle installazioni: come occupare uno spazio, come far sì che un’opera si impadronisca di un luogo costruendo una sorta di stato d’animo sono temi che ci incuriosiscono.
Riguardo l’identità di Condotto C: non una galleria, non un’associazione culturale - nelle sue forme e denominazioni più varie - non un collettivo di artisti, ma una “cooperativa aperta”, priva di un profilo “ufficiale”. Da chi nasce Condotto C e cosa intendete precisamente con il termine cooperazione?
Anche se spesso veniamo erroneamente inquadrati e confusi con la solita formula del gallerista o del curatore, noi non siamo né l’uno né l’altro. Come ti dicevo Condotto C nasce da tre persone, un’artista, una coreografa e uno che scrive. Tuttavia erano molte le collaborazioni in atto. Già alle altre mostre curate da me, anch’esse quasi sempre installative, mi capitava di poter contare su artisti video-maker per le riprese, come Fabio Scacchioli e Bruno Menei, e grazie a loro di poter usare una comunicazione differente, dapprima nella forma delle video-interviste, poi in questa attuale dei video-inviti. Per le fotografie c’era Claudio Martinez, mentre Flaminia Masotti ha lavorato con noi alla comunicazione e all'ufficio stampa, ed insomma, alla fine ci siamo accorti di avere riunito, dopo alcuni anni, una sorta di staff. Anche io intervenivo spesso ad aiutare altri artisti e potevo contare su diverse persone.
Creare un profilo ufficiale sarebbe stato un limite, perché non volevamo perdere questa caratteristica di apertura, questo continuo “entra ed esci” di collaboratori all’allestimento o alla comunicazione, e nemmeno la possibilità di acquisirne di nuovi. Al Condotto C lavorano molte persone quando hanno tempo, per il gusto di farlo, non hanno limiti né obblighi. Come in ogni rapporto di fiducia, so che sarò avvisato per tempo in caso di assenza e sopperirò. Tutti sappiamo fare quasi tutto, dal montaggio video all’allestimento, ma è ovvio che preferisco sempre avere chi lo fa di mestiere. Da questa idea nasceva la frase “il Condotto C se vuole non firma, non è e non si cura di essere” . E in questo senso chi collabora con noi è il Condotto C.
Quali criteri seguite nella scelta degli artisti e dei progetti curatoriali che vi vengono presentati? Mi sembra che la maggior parte delle vostre proposte finora – e dopo due anni circa di attività - si sia orientata su artisti gravitanti su Roma, come Andrea Aquilanti o Alessandro Bulgini, o comunque italiani….
In verità scegliamo l’installazione più che l’artista, ma forse, come dici tu, abbiamo avuto una leggera predilezione per artisti di cui conosciamo molto bene il lavoro, anche se non c’è una chiusura in proposito. Alessandro Bulgini è pugliese, ma vive a Torino da qualche anno, tuttavia l’ho conosciuto quando abitava a Roma, così come Federico Cavallini che è livornese. Nel prossimo evento ci sarà una ragazza romana che vive a Londra. La verità è che la scelta va sulla stima, sulla fiducia umana e sul progetto presentato: per me è abbastanza casuale la loro residenza. Tuttavia, anche se non sono romano, si sa che ho una predilezione per Roma, non solo perché la conosco bene, ma anche perché ritengo che in questa città in passato non sempre si è lavorato per lanciare le nostre “peculiarità” ma talvolta solo per dimostrare che siamo già lanciati. Ritengo malsano che un artista debba “esplodere” prima fuori casa e poi tornare da vincitore. Fortunatamente questa tendenza, se pure c’è stata, sta cambiando, o almeno credo e spero. Di sicuro avrei voglia di partecipare ad un momento di rinascita in maniera costruttiva.
Da un po' a Roma qualcuno, come dicevi anche tu ora, parla con entusiasmo di una rinascita. Certo un ruolo importante in questo senso è da attribuire ai nuovi spazi e soggetti che si sono fatti promotori di numerose iniziative, spazi non profit, fondazioni etc… Si sono già create possibilità di scambi e collaborazioni con le altre realtà che operano in città? E fuori dalla capitale?
Si, certo, ci interessa tutto. Noi facciamo la nostra strada e seguiamo le cose che ci piacciono, e vien da sé quindi che guardiamo con simpatia a chiunque cerchi con coraggio di costruire e di far procedere un’idea. Siamo aperti alle collaborazioni, ma abbiamo deciso che ciò che viene esposto da noi deve trasformarsi in un progetto site specific, un tema o un invasione di spazio da svilupparsi dentro allo spazio-corridoio Condotto C, che è molto, troppo, particolare… difficilmente adatteremo il condotto ad un progetto preesistente. Alcune cose le abbiamo già fatte. Abbiamo ospitato il gruppo Roaming, che fa eventi di un giorno in tutta Europa, ed abbiamo realizzato una bella collaborazione con Cecilia Tirelli e con un progetto veneziano di Marco Gobbi che si chiamava Al-bunduqiyya. Probabilmente continueremo il rapporto e collaboreremo con lei in un’altro spazio veneziano, dopo l’estate, ma ne parleremo meglio più avanti, eventualmente. Siamo aperti anche alla possibilità di intervenire noi come spazio gestito da artisti, e quindi con gli artisti, dentro ad altri spazi.
In che modo si sostiene, dal punto di vista economico, uno spazio come il vostro?
Il prezzo della libertà. Il nostro è un passivo pre-visto e da noi stessi progettato. Direi che usiamo il condotto per cadaveri per impadronirci dell’astronave e per tornare a casa.
Puoi anticiparmi qualcuno dei vostri prossimi progetti?
Dunque il 4 marzo ha inaugurato un lavoro installativo che prende le mosse, così come il Condotto C stesso, dall’omonimo racconto di Asimov, si intitola Back home ed è presentato da Chiara Mu, un’artista romana residente a Londra, come ti dicevo, molto interessante. Lei normalmente lavora soprattutto sull’installazione e la performance, e da noi presenta un lavoro che va "esperito" da una o due persone per volta. Poi ci sono molte cose che stiamo valutando, ma alcuni nomi posso già farli anche se non ci sono ancora le date definitive: Giuseppe Moscatello, che di recente è stato alla Biennale di Dubai, poi in ordine casuale Luana Perilli, Antonello Bulgini, Sandro Mele e anche una serie di performance di teatro danza di Chiara Girolomini, insomma il programma è molto ricco.
Condotto C
Via Filippo Re, 8° - Roma
www.condottoc.com
info@condottoc.com
START
Intervista a Caterina Iaquinta
Per presentare l’Associazione Start, vorrei che tu mi parlassi brevemente della mostra che avete realizzato nel 2006 al CIAC di Genazzano, intitolata Dissertare/Disertare, una mostra costruita attraverso l’attivazione di un dialogo tra realtà indipendenti e grazie anche all’appoggio di rappresentanti di istituzioni culturali, come la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Puoi raccontarmi di questa mostra soprattutto in riferimento alla sua metodologia?
È molto stimolante poter rispondere a questa domanda dopo più di tre anni dalla sua realizzazione e alla luce di come si sono evolute le attività di tutti coloro che abbiamo coinvolto, artisti associazioni, curatori, enti.
La metodologia utilizzata per realizzare il lavoro è nata dall’interesse e dalla necessità di conoscere chi come noi operava nell’arte con la formula associazione culturale (solo dopo abbiamo inserito anche la voce “curatori indipendenti”). Tutto è nato dalla necessità - che penso sia comune a tutti quelli che come noi avevano appena concluso gli studi - di fare delle esperienze, di provare ad attraversare i linguaggi e le pratiche dell’arte per poter arrivare a immaginare una propria personale cifra espressiva. A questo si è legato l’interesse per la produzione femminile artistica italiana e la sua eredità in quel momento (il lavoro di ricerca è iniziato nel 2004).
Nei fatti è stato un lavoro di investigazione e assemblamento, un cucire tante parti con un unico filo che è ancora quello che abbiamo in mano e con cui continuiamo a lavorare. L’obiettivo di tutto questo si è costruito nel suo farsi ed è stato quello di mostrare non solo il lavoro di alcune artiste ma anche il processo attraverso il quale eravamo arrivate a loro, insomma tutta l’ossatura dell’intera operazione. Le fasi si sono articolate nella stesura di un testo, la ricerca di chi promuoveva e sosteneva artisti sul proprio territorio geografico (associazioni, curatori), la richiesta da parte di questi di una risposta progettuale che li contenesse e infine la presentazione del loro lavoro in una grande collettiva di più di cinquanta artiste, che abbiamo immaginato come un arcipelago composto da isole galleggianti, dunque in continuo movimento. Su queste fasi si sono articolati aspetti e linguaggi del lavoro femminile, il punto di vista di studiosi, critici e curatori con i quali abbiamo interagito, i rapporti con enti pubblici, le opere degli artisti che hanno dato un volto alle nostre parole.
Un secondo progetto, altrettanto interessante ed in un certo modo in linea con Dissertare/Disertare è stato La forza dei legami deboli, che prendeva in esame la questione del ruolo dei centri minori nella promozione e diffusione dell'arte contemporanea……
Infatti, il progetto La forza dei legami deboli è nato proprio in occasione della nostra selezione per il Premio Mauro Manara del 2006, il quale recitava: Mauro Manara e Castel San Pietro Terme: come portare un luogo periferico al centro del dibattito dell'arte contemporanea.
Questa proposta ci è sembrata in linea con Dissertare/Disertare in cui in fondo avevamo presentato giovani artiste, curatori e associazioni di tutta Italia in un luogo periferico (Genazzano, sede del CIAC). Così, pensando alle periferie, abbiamo ripreso in mano la mappa dell’Italia che avevamo disegnato con Dissertare/Disertare per iniziare a vedere dove si erano manifestate delle mancanze (in qualche modo delle situazioni “periferiche” anch’esse) e abbiamo constatato che nelle regioni del sud era stato più difficile attivare dei contatti e ricevere risposte e dunque abbiamo deciso di agire.
Per il premio abbiamo pensato di proporre, invece di una mostra, la presentazione di un progetto che si aprisse non subito con i lavori degli artisti ma a partire dai nuclei associativi che erano stavolta anche collettivi, gruppi, persino una fondazione, attivi su differenti regioni meridionali presentando in un altro luogo “periferico” del nord il loro lavoro. L'idea era in un certo senso annullare i confini, i concetti di periferia o minoranza, offrendo una visione più aperta. In questa occasione abbiamo monitorato insieme ai loro progetti ed anche una serie di artisti a loro vicini ai quali nelle successive fasi abbiamo dato voce.
Parte interessante di questo lavoro è stato il coinvolgimento dell’artista Maria Chiara Calvani, alla quale abbiamo proposto di visualizzare la nostra idea di minoranza-periferia e di “legame debole” e la quale lo ha sintetizzato nel disegno della pianta di un pianerottolo di condominio in cui tutte le associazioni inviate erano legate tra loro da rapporti di vicinato…
Quali sono secondo te, anche in riferimento agli anni passati, i punti di forza ed eventualmente quelli deboli delle realtà indipendenti italiane? In particolare, come si presenta dal tuo punto di vista la situazione a Roma?
Ti rispondo dando per scontata la difficoltà della gestione economica di una realtà associativa oggi. Ti rispondo intendendo per “realtà” quelle attività culturali rivolte all’arte che si danno luoghi fisici come no, che producono una programmazione cadenzata come anche progetti a lungo termine e circa la definizione ”indipendenti”...
A dire la verità questa parola mi mette un po’ paura… penso che se queste realtà fossero un po’ più dipendenti anche solo al livello di scambio culturale le une dalle altre, forse tante difficoltà sarebbero superabili e tanti punti deboli diverrebbero punti di forza, se non altro per la condivisione e il superamento di certi meccanismi che altrimenti si ripetono all’infinito. Le grandi associazioni che sono oggi realtà affermate in Italia con una loro autonomia anche economica ci insegnano molto, a loro dovremmo guardare, ma da loro anche ripartire e avanzare.
Roma è una città che tende per sua natura ad inglobare, ma nonostante ciò resta il desiderio di creare, c'è un’operatività riconoscibile e diffusa anche al di fuori della città, lo dimostrano le associazioni, i collettivi, i progetti editoriali, alcune Fondazioni che nascono e che resistono negli anni. Forse a differenza di altre città italiane siamo molto eterogenei per approcci, intenti, modalità operative e siamo disseminati, credo che questo possa a volte creare dei cortocircuiti, ma penso anche che questa sia una grande opportunità.
In che modo l’Associazione Start si confronta con gli altri non profit presenti a Roma? Quali sono i vostri progetti per il futuro?
Il confronto con i nostri vicini romani esiste ma siamo una realtà non profit sui generis rispetto alle altre, non abbiamo uno spazio fisico in cui accogliere (anche se fino a poco fa abbiamo avuto una sede operativa-ufficio a Via Libetta) e non abbiamo una programmazione scandita a cui poter far partecipare un certo pubblico, piuttosto siamo operative in maniera fluida rispetto a ciò che ci circonda e per i progetti che strutturiamo ci troviamo ad interagire e lavorare nei luoghi più diversi, dal CIAC (Dissertare/Disertare, 2006) allo studio di Cesare Pietroiusti (Sud Km0. Racconti di viaggio, 2009)… questo a volte forse può rendere difficile il dialogo con altre associazioni. Mi auguro che in futuro le singole difficoltà rafforzino un pensare e un agire comune.
Associazione Start
Costituita nel 2004, è composta da Gaia Cianfanelli e Caterina Iaquinta.
associazione.start@gmail.com
Maggiori informazioni su Out of the box, l'incontro fra associazioni non profit romane che si è svolto domenica 14 marzo 2010
Michela Gulia è laureata all'Università "La Sapienza" di Roma in storia dell'arte contemporanea, con una tesi sugli spazi artistici indipendenti nell'Italia degli anni '60 e '70. Dopo aver lavorato presso la Fondazione Baruchello (Roma), da gennaio del 2008 collabora con UnDo.Net ad un'indagine sulle realtà non profit in Italia, attraverso una serie di interviste ai suoi protagonisti. Nel 2009 ha fondato con Gabriella Arrigoni la piattaforma curatoriale Harpa Projects.
Eleonora Farina è laureata all'Università "La Sapienza" di Roma in storia dell'arte contemporanea. Ha curato il progetto di arte pubblica "Imperceptible Vision" con l'artista Marina Fulgeri. Dopo un anno di lavoro a Bucarest presso il dipartimento curatoriale del Museo Nazionale d'Arte Contemporanea, al momento vive a Berlino dove sta iniziando un dottorato di ricerca sull'attuale situazione dell'arte romena. Collabora con UnDo.Net e con la rivista "Arte e Critica".