Di
Barbara Fässler, 17 aprile 2012
Con Artur Zmijewski è stato invitato un’altra volta un artista a curare la rinomata Biennale di Berlino, dopo l’esperienza con Maurizio Cattelan nel 2006. Ma l’essere un “produttore d’arte” non è l’unico fattore che accomuna i due protagonisti: entrambi si sono fatti un nome con opere o con interventi che spesso sono stati percepiti come massime provocazioni. Di Cattelan basta ricordare i bambini impiccati, il dito medio davanti alla borsa di Milano, piuttosto che il Papa Giovanni Paolo II colpito da una meteorite.
Mentre l’artista padovano si caratterizza per l'ironia pungente, il suo alter-ego polacco sembra prendere la vita in modo serio, direi tragico, quasi portasse il mondo intero sulle spalle - come Atlante - e tentando di salvarlo trascinasse un peso insopportabile.
Infatti le opere di Zmijewski sono lontane anni luce dall'umorismo e da un’arte che riesce a formulare la sua critica tramite messaggi aperti o ambigui, in grado di stimolare riflessioni autonome in chi la guarda.
Nel suo video "80064", del 2004, convince l'ex-recluso di un campo di concentramento a "restaurare" il suo numero sul braccio, rinnovando il tatuaggio ormai sbiadito; il messaggio è diretto e brutale: non dobbiamo mai perdere la memoria dei peggiori orrori della storia dell'umanità. Perciò i residui e le tracce rimanenti vanno ristrutturati regolarmente, via via che rischiano di scolorirsi.
Poco prima della Berlin Biennale 7, la sua opera video "Berek" che significa "prendimi" (1999), è stata rimossa da una collettiva nel Martin Gropius Bau a Berlino, dopo una violenta protesta del presidente della comunità ebraica.
Nel video, ambientato in una camera a gas, delle persone nude si rincorrono giocando. L’atto di censura, piuttosto drastico, non è stato giustificato nel dettaglio dalla direzione del museo e vari giornali locali hanno affermato che il museo non si è reso conto "con chi avesse a che fare": cioè con il curatore della prossima Biennale di Berlino.
Come nel caso dei bimbi impiccati di Cattelan - rimossi dalla piazza dopo un'ondata di proteste e polemiche pubbliche -, lo scandalo ha visto l'artista per giorni in prima pagina sui quotidiani e anche Artur Zmijewski, dopo questo “colpo pubblicitario” involontario, non è più uno sconosciuto per il pubblico extra-artistico della capitale tedesca. Il tam tam pubblicitario dello “scandalo” gli ha gonfiato le vele.
Oggi Artur Zmijewski – che, in veste d’artista, ha partecipato nel 2002 a Manifesta di Francoforte, a Documenta nel 2007 e come rappresentante nazionale della Polonia alla Biennale di Venezia nel 2005 – è ormai un artista affermato e famoso.
Viene ora da chiedersi come un artista che si autodefinisce “introverso con tendenze autistiche” gestisca il ruolo pubblico di curatore, sempre sotto i riflettori della stampa ed esposto all’opinione pubblica. In un’intervista Zmijewski ammette che non gli dispiace essere al centro dell’attenzione e che è consapevole di avere in mano un grande potere. Il discorso del potere ci deve interessare particolarmente in questo caso, perché tutta la Berlin Biennale 7 è concepita come manifestazione “politica”, interventista e, soprattutto frontalmente opposta all’ordinario “mercato dell’arte” con le sue strutture e gerarchie commerciali.
Mi pare di capire che Zmijewski cerchi di usare due stratagemmi per sfuggire alla stessa contraddizione, per forza di cose inevitabile. Da un lato si è circondato da una squadra curatoriale - Joanna Warsza è la sua co-curatrice e il gruppo “Voina” completa il quadro - dall’altro ha iniziato il suo incarico di direttore della settima Biennale Berlinese con una “open call” aperta a tutti e, invero, si sono fatte vive oltre 5000 persone. Questi materiali da un lato saranno pubblicati su
artwiki.org
, libreria digitale d'arte priva di selezione, che aprirà i battenti con l'inaugurazione della BB7 e rimarrà in vita anche oltre.
Purtroppo, leggendo pubblicazioni e interviste non si evince – oltre questo utilizzo in rete – come la squadra curatoriale intenda gestire i materiali o come conti di arrivare ad una selezione realistica rispetto agli spazi fisici che ha a disposizione.
Mi chiedo, inoltre, se davvero abolendo i criteri di scelta e di qualità si possa “evitare” di esercitare il potere che ognuno avrebbe in una posizione paragonabile alla sua, in un’istituzione che gestisce due milioni di euro per ogni edizione della Biennale. I soldi e la potenza istituzionale, direi, non diventano innocenti di colpo solo perché si parla di temi e azioni “politicamente impegnati” e al servizio della comunità. Non è detto che l’arte acquisisca davvero, come per magia, la capacità di diventare più democratica e che non si rischi, con questo tipo di apertura a campo largo, di perdersi in una massa indistinta di prodotti e azioni qualunquiste.
La pubblicazione “No Fear”, uscita recentemente per anticipare la mostra, si presenta come un catalogo di intenti. Qui Zmijewski spiega che non vuole gestire oggetti artistici trovati viaggiando attorno al globo, ma che intende “moderare tra diversi punti di vista politici” che si materializzano in forma di “azioni artistiche”. Questa affermazione, di per sé più che ragionevole, ha però un retrogusto di scarsa credibilità, visto che l’artista polacco si schiera molto chiaramente da una parte del panorama politico.
Zmijewski si è dichiarato più volte di sinistra e quindi ci si chiede come sia possibile che lui e il suo team siano in grado di guadagnare la distanza necessaria per presentare un quadro equilibrato delle varie posizioni politiche (come pretendono). Sembra che l’artista di Varsavia veda l'impegno politico di sinistra non come atteggiamento critico, bensì come un attivo “impadronirsi” della realtà.
Il ruolo dell’arte è visto da lui con una funzione ben precisa: si legge che “deve essere pragmatica ed efficace, al servizio della società”.
L’arte deve quindi uscire dal suo ruolo di decoratore del re e attivarsi verso “una meta concreta in un processo di cambiamento tramite uno stato di militanza politica e religiosa”. Da un’altra parte, si legge, invece, – ormai senza filtri –, che l’arte ha il compito di “manipolare” la società e che si è stufi di limitarsi sempre a fare domande: ciò che serve ora sono risposte e soluzioni.
In un’intervista alla rivista Spike, Zmijewski dichiara: “Lavoriamo con martelli, non con bombe o granate”. Manipolare e martellare, sono le strategie di questa arte che non sembra lasciare aperte molte possibilità interpretative al suo messaggio univoco.
In un’intervista nell’Exberliner l'artista polacco si spinge a dire: “Non credo che servano più domande al mondo; se c’è una risposta alle domande che formuliamo, allora sono soddisfatto.” E quando la giornalista Ruth Schneider gli chiede dove, nella sua opera “Berek” – le persone denudate che giocano a “prendimi” nella camera a gas – veda una risposta a qualcosa, Artur replica che non ha mai dichiarato che questo lavoro debba dare delle risposte… Infatti, nel proprio lavoro artistico il curatore della Berlin Biennale 7 procede attivando dispositivi sperimentali, dei quali – direi per fortuna – non controlla gli esiti. La loro impostazione è quindi sostanzialmente aperta e anche se l’autore prepara una situazione ben precisa, non si limita certo a dare delle risposte chiuse e monosillabiche. In altre parole, si nota una grande differenza tra le sue espressioni artistiche e quelle verbali. Mentre le prime ci lasciano comunque delle possibilità interpretative, le seconde ci dettano il modo in cui intendere i messaggi.
Se gli si chiede che cosa intenda concretamente con “risposta” quando parla di arte, ci nomina un solo esempio: Marina Naprushkina, un'artista bielorussa che realizza fumetti politici. Eppure nella pratica Zmijewski continua a scegliere un'arte che mette tutto in “questione” e manifesta problematiche da risolvere, che sollecita delle risposte.
Come ad esempio il gruppo “Voina”, che ha chiamato a partecipare alla curatela dell’evento. Il collettivo di San Pietroburgo, il cui nome significa “guerra”, in realtà organizza azioni politicizzate (per le quali i membri finiscono regolarmente in prigione) e pretende di non usare soldi e non pagare l’affitto. Artur li ha invitati, non tanto per farli partecipare davvero alla costruzione della Berlin Biennale, ma per sottrarli alle grinfie dello stato russo.
Nel frattempo ha organizzato una serie di manifestazioni di solidarietà in varie istituzioni europee - tra cui l’Istituto Svizzero di Roma - per il Teatro Valle occupato a Roma, per la Libera Università Metropolitana (LUM) di Roma, per l’Istituto di Ricerca di cultura visiva a Naukma, piuttosto che per il movimento “Occupy” in tutto il mondo. Iniziative costituite di movimenti culturali ma che non necessitano di un'esposizione nella vetrina artistica.
La Berlin Biennale 7 si svolge quasi contemporaneamente a dOCUMENTA (13) a Kassel. Un paragone sembra d’obbligo, così si scoprono una serie di affermazioni addirittura opposte tra Artur Zmijewski e Carolyn Christov-Bakargiev. Mentre a Berlino si esigono azioni concrete dagli artisti, a Kassel si parla di azioni indirette al posto di intenzioni dirette. La manifestazione nella capitale tedesca rivendica in maniera definitiva la necessità di trovare risposte smettendola di bombardare il pianeta con domande inutili, mentre l’evento nell’Assia settentrionale parla esplicitamente di una “strategia del differire” che si contrappone al “trovare delle risposte”. E ancora, mentre a Berlino si auspica di cambiare il mondo con interventi performativi mirati, a Kassel si preferisce riflettere sul mondo.
Riassumendo potremmo quindi dire che, mentre la BB7 reclama un’arte rigorosamente al servizio della società, d13 propone un processo di riflessione come scambio in una rete dinamica tra diverse competenze, alla ricerca di nuove conoscenze, perché Christov-Bakargiev “ama le cose che non capisce”. La posizione sofista, di chi sostiene principi fermi e definitivi, si scontra quindi, nello stesso anno e nello stesso Paese a pochi km di distanza, con un atteggiamento socratico che “sa di non sapere”.
Zmijewski si spinge addirittura fino a proclamare, nel Tagesspiegel del 18 gennaio 2012, che “gli artisti dicono più facilmente la verità”. Chiaramente questa affermazione ci rivela che il curatore della settima edizione della Biennale Berlinese, è convinto: primo, che una verità esista; secondo che esista qualcuno che la conosce; un’affermazione non solo filosoficamente, ma direi anche politicamente, assai pericolosa. Viene in mente che l’organo di stampa del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e del governo si chiamò proprio “Pravda” (verità) e mi pare che il significato fosse abbastanza chiaro: esiste una “verità” e questa verità la detiene il governo che non tollera assolutamente pensieri differenti dalla linea del Partito.
In un dialogo con la co-curatrice Joanna Warsza pubblicato sul sito web della Biennale, Zmijewski descrive Berlino come una città ideologicamente passiva e vuota, nella quale nessuno si prende delle responsabilità. Ma cosa intende Zmijewski per ideologia? E con “soluzione” (Lösung)? Chi dispone di un minimo di conoscenza storica, necessariamente sente risuonare quella “soluzione finale” (Endlösung) che, credo, non necessiti ulteriori commenti.
La quarta definizione che mi sembra importante sottolineare, è quella di “Realismo Socialista”. Il curatore polacco rivendica un’universalizzazione del linguaggio visivo e dice che il “Realismo Socialista“ è un linguaggio “ingiustamente bandito”, nonostante egli ammetta che si tratti di un “paradigma estetico nato sotto costrizione politica”.
Concludendo oserei dire che, anche mettendo insieme tutti i materiali disponibili - tra websites, interviste, video online e dichiarazioni d’intenti - è molto difficile capire che cosa ci aspetterà alla Auguststrasse, quando, il 27 aprile, la settima Biennale di Berlino aprirà al pubblico. E tantomeno durante l'opening: ci sarà un revival del Realismo Socialista in veste di “vintage”, oppure per le strade di Berlin Mitte le signore in tacchi a spillo si imbatteranno improvvisamente in azioni “disobbedienti”?
In ogni caso, Artur Zmijewski ha pubblicamente dichiarato che non è interessato ad essere rinominato curatore di una mostra…
Maggiori informazioni sulla settima edizione della
Biennale di Berlino
Questo articolo sarà pubblicato nel prossimo numero della rivista
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Barbara Fässler, artista zurighese, formatasi alla Villa Arson a Nizza, opera prevalentemente con i linguaggi della fotografia, del video e dell'installazione. Dagli anni '90 cura mostre per varie instituzioni (ProjektRaum a Zurigo, Istituto Svizzero a Roma, Belvedere Onlus a Milano). Scrive regolarmente per la rivista d'arte contemporanea "Studija" di Riga e insegna 'Arti visive' al liceo della Scuola Svizzera di Milano.