Il soggetto nella fotografia è sempre assente e presente al contempo. Il medium fotografico incarna una contraddizione: da visibilità a ciò che non esiste più.
Testimonia qualcosa che già pochi attimi dopo lo scatto è scomparso.
La fotografia, proprio fingendo di evidenziare la presenza di una cosa, in realtà mette in atto la sua assenza, quella definitiva, e accenna così perennemente alla morte come nelle
Vanitas del Seicento le candele e i teschi. L’oggetto fotografico è sempre già lontano, anche quando sulla carta appare essere vicino.
La fotografia fissa la memoria di un preciso attimo e luogo, visti da un determinato punto di vista, apparentemente in modo più fedele di altre rappresentazioni.
Al contrario, in realtà, essa gela un volto come non lo vedremo mai più e finge di mostrarci un essere umano, laddove l’unica cosa che ci dona, si rivela essere un’apparenza puramente esteriore e fittizia.
Diversi autori hanno evidenziato questo meccanismo ossimorico dovuto all’alto grado d’illusorietà della rappresentazione fotografica.
Roland Barthes costruisce il suo pensiero sulla fotografia partendo da uno scatto di sua madre fanciulla.
Per il filosofo francese – che non potrà mai raggiungere questa bambina che non ha nemmeno mai conosciuto come tale, e che nondimeno ha tanto amato negli anni successivi –, “il nome del noema della fotografia sarà quindi: ‘è stato’”
( 1 ).
Essa ci mette a confronto inevitabilmente con la perdita, con l’assenza, con il vuoto. Ciò che rimane, è un semplice pezzo di carta da tenere in mano e da fissare con il nostro sguardo incredulo.
Paolo Spinicci sottolinea l’effetto cupo che segue dall’irraggiungibilità del soggetto raffigurato: “All’invisibilità delle fotografie fa eco la presenza paradossale dei loro oggetti: vediamo qui e ora qualcosa che è accaduto tempo fa e in un qualche luogo del mondo. Le fotografie mostrano ciò che è irrimediabilmente lontano e insieme custodiscono l’incerta presenza di ciò che non è più.
Questa distanza temporale è la cifra malinconica della fotografia.”
( 2 )
Il tempo è passato e le immagini fotografiche ci ricordano tristemente e senza pietà la nostra caducità e fragilità e con esse l’inevitabilità della morte.
Quando Michael Somoroff manipola gli scatti provenienti dall’opus magnum
Uomini del Ventesimo Secolo di August Sander, “l’assenza del soggetto” si fa doppiamente acuta.
Il fotografo americano ha deciso di sottrarre alle immagini (e quindi alla nostra visione) – oltre all'individuo in pelle e ossa che si è ormai disperso in tempo e spazio – anche la sua traccia fotografica, immortalata da Sander.
Il tempo è passato e ha spazzato via i soggetti che posavano serenamente davanti all’obiettivo del padre della
Nuova Oggettività, per rappresentare, secondo il suo credo, una categoria umana del suo tempo.
Le figure sanderiane, perfettamente a fuoco, messe in evidenza da forti contrasti e bordi nitidi che si scagliano contro il paesaggio o la stanza, si sono tutte volatilizzate e hanno lasciato che gli sfondi indistinti, grigi e sfocati invadano completamente lo spazio rappresentativo.
Somoroff, sopprimendo qualsiasi traccia umana nell’immagine, radicalizza la nozione dell’”è stato” barthiano e spinge oltre l’allontanamento dell’individuo già iniziato da Sander, quando ha classificato le persone ritratte con didascalie tipizzanti e universalizzanti.
Già nella sua opera, che è progredita durante la Repubblica di Weimar, la singolarità della persona ritratta era destinata a diminuire gradatamente dietro il potente termine categoriale assegnato che trasformava il soggetto in un paradigma del genere umano.
La figura stava per una specie, il singolo lasciava posto all’universale.
Se Somoroff dice nel catalogo della mostra, che “la loro assenza è una riflessione della loro presenza”, il meccanismo paradossale, di cui sopra, si fa più astratto: poiché della presenza di esseri umani che nell’immagine sanderiana “è stata”, possiamo soltanto sapere, se conosciamo la fotografia dalla quale egli parte e se possiamo paragonare ciò che era “prima” e ciò che era “dopo” la sua manipolazione digitale.
Ciò che vediamo nel lavoro di Somoroff, è che il sostituto di una realtà svanita è svanito a sua volta. La presenza si è fatta unicamente ipotetica e ideale. Rimane una lacuna.
Questa mancanza non è pertanto dovuta a un’assenza vera, ma si tratta di un vuoto costruito artificialmente con grande pazienza.
Che cosa fa Somoroff esattamente con i più famosi ritratti della Storia della Fotografia?
Si può davvero dire che egli abbia “cancellato il soggetto, trattenendo soltanto lo sfondo perché con un tocco su un tasto del computer si può alterare la realtà” come sostiene la curatrice della mostra, Diana Etkins, nel catalogo
( 3 )?
Come dobbiamo allora immaginare siano fatte le immagini fotografiche? Come quelle bambole stampate su cartone leggero che un tempo si ritagliavano insieme ai vestiti che si potevano mettere e togliere comodamente e che si reggevano con dei piccoli lacci laterali?
La fotografia è quindi da pensare come un collage a strati bidimensionali, che si possono rimuovere e riposizionare a piacimento?
Non credo proprio. La realtà non si modifica con un tasto del computer. Michael Somoroff non ha modificato la realtà e non ha rimosso nulla dalle immagini di Sander. Egli ha piuttosto manipolato delle immagini con il timbro di Photoshop, ricostruendo faticosamente millimetro per millimetro lo sfondo mancante, nella superficie determinata della sagoma che il personaggio di August Sander occupava.
Somoroff ha ricreato artificialmente una parte che non è mai esistita e che non si è neppure mai trovata davanti ad un obiettivo di una macchina fotografica.
Come un chirurgo plastico, egli ha ricostruito l’immagine, coprendo – non sopprimendo – la figura nella fotografia degli anni venti con dei pezzettini rilevati e copiati dalla parte di sfondo originale che si poteva percepire attorno ai soggetti.
Difatti, la sfida del progetto di Somoroff non è facile da vincere perché è un vero e proprio lavoro pittorico nonostante egli lo esegua con il mezzo digitale.
Guardando da più vicino, si nota ad esempio che il tavolo della sua versione del famoso pasticciere, mantiene anche nelle parti arretrate la stessa luminosità e lo stesso contrasto come nel primo piano, anziché sfumarsi lentamente dalla luce all’ombra e dal fuoco allo sfocato. Il mestolo si staglia in maniera innaturale contro lo sfondo nero nuovo, perché ha mantenuto i riflessi della veste bianca del pasticciere che ora è stata coperta con il nero e il grigio sfumato, clonato innumerevole volte.
Nel “Bambino borghese”, a sua volta, troviamo una superficie grigia e sfumata al posto del ragazzino e anche qui, il timbro di Photoshop ha riportato i pezzettini rilevati dal prato e dal muro esistenti, creando una struttura indistinta e tartagliante di toppe ripetute, laddove ci dovremmo invece aspettare dei bellissimi fiori mediamente nitidi e contrastati.
Osservando accuratamente, è facile trovare altri esempi in questa serie d'immagini ricostruite; essi dimostrano che Photoshop non è un dispositivo magico o alchemico, ma lo strumento di una tecnica faticosa che si tradisce nel pattern balbettante e svaporato che usa per materia.
Paragonando accuratamente la fotografia plastica ricostruttiva di Somoroff
e gli originali di Sander, salta all'occhio come l'autore tedesco trattava
gli sfondi. Essi sono spesso sfocati, costituiti da sottili sfumature di
grigio in assenza di contrasti o bordi netti.
Sono le figure in primo piano, invece, a possedere tali attributi: sono
contrastati e a fuoco e si stagliano quindi sulla grisaglia circostante
quasi come se fossero incollati.
Non sono certa se gli sfondi, talvolta geometrici, talvolta sfumati, oppure monocromi si reggano in piedi “da soli”, senza fare contrasto con il personaggio in primo piano.
Gli ambienti sono stati pensati da Sander come piani secondari, in stretta relazione con il primo piano, con la funzione di dare massimo risalto alle figure e non dimostrano perciò – visti da soli –, il rigore e l’autonomia di un quadro astratto o minimale.
Oltre agli sfondi, alla “pulizia“ di Somoroff sopravvive un altro elemento primordiale del canone sanderiano: le didascalie. Si produce così una situazione curiosa.
La didascalia che denomina un genere universale, non indica più un individuo che lo rappresenta come in Sander, bensì, si riferisce ora a una superficie con sfumature grigie.
Leggiamo ad esempio “Il pianista” e vediamo un rettangolo diviso in una parte grigia scura e l’altra chiara.
La didascalia diventa allora un rimando al lavoro di Sander che evoca il ricordo del rappresentante della classe indicata, ora scomparso.
Come interpretare la mossa di Somoroff? La linea costruttivista è accennata da lui stesso nel catalogo: “sperimentiamo il mondo attraverso immagini e ancora sogniamo in immagini. Le nostre creazioni sono legate alle immagini (…) Per me, la prima condizione per una costruzione sociale della realtà, è semplicemente la nostra immaginazione, la nostra possibilità di avere un’esperienza spirituale, cioè una visione interna da dove fabbricare il reale. Questo è ‘immagin-azione’”
( 4 ).
Siccome la realtà può essere considerata una costruzione umana attraverso la percezione, l’esperienza, le immagini, i condizionamenti, perché non accentuare questa idea, manipolando le immagini (storiche) e quindi fabbricandoci la nostra idea del mondo passato e attuale?
Siamo ormai d’accordo che un mondo oggettivo non esista e neppure una verità unica e assoluta, ma piuttosto tanti punti di vista e diverse verità.
Nella serie rielaborata di Somoroff, il secondo piano è diventato protagonista di primo piano, e tutto ciò che nel progetto di Sander traspariva di vitalità, di individualità, di originalità e di umanità – nonostante l’ordine pseudoscientifico e astratto delle categorie – è ora sparito dalla faccia delle fotografie.
Michael Somoroff porta con le sue
Vanitas postmoderne la perdita e la caducità alla nostra coscienza e rammenta che dalla “cifra malinconica della fotografia”
( 5 ) e della vita, non c’è scampo per davvero.
Barbara Fässler, Milano, 9 febbraio 2013
1 - Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino, 1980, pagina 78
2 - Paolo Spinicci, Simile alle ombre e al sogno, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pagina 57
3 - Absence of Subject, The images of Michael Somoroff and August Sander, Buchhandlung Walther König, 2011, published by Stativ Ldt. Inc. New York, pagina 11
4 - Absence of Subject, The images of Michael Somoroff and August Sander, Buchhandlung Walther König, 2011, published by Stativ Ldt. Inc. New York, pagina 24
5 - Paolo Spinicci, Simile alle ombre e al sogno, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pagina 57
Absence of Subject. August Sander e Michael Somoroff è in corso presso la Fondazione Stelline di Milano fino al 7/4/2013.
Di questa mostra puoi vedere anche il
videoFocus realizzato da UnDo.Net con le
fotografie esposte e l'intervista al co-curatore Julian Sander.
Barbara Fässler, artista zurighese, formatasi alla Villa Arson a Nizza, opera prevalentemente con i linguaggi della fotografia, del video e dell'installazione. Dagli anni '90 cura mostre per varie instituzioni (ProjektRaum a Zurigo, Istituto Svizzero a Roma, Belvedere Onlus a Milano). Scrive regolarmente per la rivista d'arte contemporanea "Studija" di Riga e insegna 'Arti visive' al liceo della Scuola Svizzera di Milano.