di
Marco Senaldi
In genere, per principio, non torno su una critica una volta formulata; per una volta però, voglio provare a rispondere alle contro-argomentazioni espresse da Gioni alle mie critiche sulla Biennale nella sua ultima intervista pubblicata su UnDo.Net.
Di sfuggita, bisogna osservare che il metodo di semplificare fino al ridicolo le obiezioni dell’avversario, per poi poterle sbriciolare a proprio agio è un vecchio trucco retorico – però per fortuna anche io sono abbastanza vecchio da conoscere bene queste trappole e, per citare Gioni stesso, “mi fa un po’ specie” che un curatore intelligente e raffinato come lui si serva di mezzi così discutibili.
Capisco che le critiche possano non piacere, ma più ci si espone, più è naturale che ne arrivino, e dunque bisogna essere disposti ad accettarle e, invece che liquidarle come insussistenti, farvi fronte adeguatamente – cosa che Gioni non fa.
Quindi, devo precisare che io non ho mai detto, né mi sono mai sognato di pensare, che questa Biennale è “troppo bella”.
In primo luogo, questa Biennale non è “bella” o “brutta”, ma è semplicemente esagerata, esasperatamente museificata, anzi, per dirla tutta, ha un make up talmente “preciso” (per citare il curatore) da rischiare un effetto-kitsch.
In questo senso, trovo criticabile il look tardocapitalista che ostenta, e non si tratta affatto di una critica extra-artistica, cioè una critica “moralistica” o di tipo sociologico.
Il display espositivo in questo caso agisce come un sintomo – tradendo le intenzioni “reali” di una mostra che in superficie vorrebbe farci credere di allargare il campo dell’arte, mettendola “in dialogo con altre forme di creatività” – quando invece il fine ben preciso è quello di stabilire dei confini stabili al caotico sistema dell’arte, e soprattutto sbarrare definitivamente l’ingresso a chiunque non abbia un
pedigree adeguato per accedervi.
Come mai Gioni non risponde all’osservazione per cui anche il più eccentrico degli outsider è appoggiato da una Foundation?
In effetti, l’impressione che se ne trae è che la contraddizione tra outsider e insider sia più apparente che reale, e che entrambi giacciano entro un territorio protetto da una barriera invisibile, ma impenetrabile, dove l’eccentricità è già diventata un valore, anche in senso economico. Quindi, interrogarsi sul senso anche economico di questa Biennale non mi sembra impertinente, o desueto.
Il fatto che i fondi per la sua realizzazione siano stati messi a disposizione da “alcuni buoni amici” non solo non mi tranquillizza affatto, ma direi soprattutto che non tranquillizza nemmeno Gioni stesso.
Per difendere le sue scelte infatti dichiara che intendeva “togliere l'arte dal piedistallo, non per dissacrarla, ma perché spesso quel piedistallo è quello del mercato”.
E questa è una bella cosa.
Subito dopo, però, aggiunge che la sua mostra è stata resa possibile grazie alla “grande generosità di alcuni amici” – cioè galleristi, cioè collezionisti, cioè… del mercato.
Davvero possiamo star tranquilli, visto che l’ente statale non ci perde una lira, anzi ci guadagna, tanto è tutto offerto?
Ma offerto da chi? E in cambio di che? L’impegno di grandi fondi in campo culturale, il cosiddetto “capitalismo culturale”, non è un’opera di beneficenza, o un gioco filantropico: piuttosto esso implica una zona di opacità che si spalma sull’operato degli artisti, sulla selezione dei nomi, sulle scelte curatoriali, come una rete impercettibile che finisce per condizionare tutti.
Questo non è più mecenatismo – i grandi mecenate di una volta, i
donors e i benefattori, si limitavano al recupero simbolico del loro amor proprio con la presenza del nome nel colophon o nelle courtesy, mentre qui si tratta piuttosto di investitori che stanno semplicemente diversificando i loro portafogli e al tempo stesso costruendo ben architettate
corporate-image.
Non venitemi a raccontare che è una storia vecchia, che il mercato è sempre esistito ecc. ecc. – perché, semplicemente, non è vero: non è mai esistito in queste proporzioni e soprattutto in queste forme.
Questa critica è talmente fondamentale, che il secondo ordine di considerazioni che facevo mi pare rientri in essa.
Io ho infatti aggiunto che
Il palazzo enciclopedico si presenta, tra l’altro, come una mostra bicefala, con due teste (Auriti e gli outsider, da un lato - Jung e la tradizione delle wunderkammer dall’altro) che a mio parere non sono in accordo fra loro.
Ma questa incoerenza, in fondo, è solo un altro modo per far passare un messaggio assai più importante: cioè la selezione di pochi artisti veramente parte del “mercato” che così, con un gioco di prestigio (quello sì, sublime) cacciati dalla porta degli outsider rientrano dalla finestra degli intoccabili.
E questa sarebbe una Biennale che genera “tra le righe” una provocatoria domanda su ‘chi è l'artista e chi ha diritto di essere definito tale”?
Eh no, magari sarò moralista, e forse anche un poco autolesionista, ma davanti ai solidi bastioni bianchi di questa mostra uscite così suonano veramente canzonatorie.
Si potrebbe qui anche scendere nel dettaglio. Nel loro saggio
Mercanti d’aura (2006) A. Dal Lago e S. Giordano vanno proprio a toccare il punto del rapporto tra artisti-artisti e outsider (folli, emarginati, ecc.), arrivando a citare la rivista
Raw Vision che come sottotitolo recita
Outsider Art, Art Brut, Contemporary, Folk Art.
Il loro punto di vista è chiaro: secondo Dal Lago e Giordano vi sono tra gli outsider artisti ottimi, o perlomeno di pari valore degli artisti riconosciuti dal sistema, solo che
devono esserne tenuti fuori proprio perché quello che “fa il valore” dell’Arte-Arte è l’esclusività, la sua separatezza dagli altri mondi – segregazione su cui si basa “il mistero buffo” dell’arte contemporanea, cioè
l’aura.
Questa posizione è, in un certo senso, corretta. E’ vero: c’è un collage del 1929 di questo schizofrenico, Adolf Wolfli, quasi un incrocio tra Warhol e Twombly, che però non ha raggiunto le vette di mercato di Warhol – perché… non ha l’aura. “I guardiani dell’arte – insorgono i nostri autori – critici, galleristi e anche artisti… – sono impegnati in una lotta senza quartiere contro l’allargamento della sfera dell’arte”.
Già, ma allora come si spiega la Biennale che comprende Auriti e i suoi fratelli accanto a Sarah Lucas e a Cindy Sherman?
Sembra quasi che Gioni, dio non voglia, abbia letto con estrema attenzione le pagine di Dal Lago e Giordano – per trarne però delle conclusioni opposte: “e perché non contaminare davvero outsider con insider?” – sembra quasi essersi chiesto – “scommettiamo che si rinforzano a vicenda?”
Ah, benedetta ingenuità dei sociologi! Dal Lago e Giordano credevano che bastasse denunciare la “falsità” dell’aura artistica perché il trucco fosse svelato. Ma non è così: come mai, se tutti sappiamo che la finanza è un gioco truccato, che esistono i titoli tossici, ecc. ecc., ne siamo tutti coinvolti anche più di prima?
I “guardiani dell’arte” non fanno solo un lavoro negativo di sbarramento, ma, in quanto scaltri “mercanti d’aura”, sanno maneggiare l’aura artistica
al punto tale da approfittarsi anche delle critiche alla nozione di aura, per produrre altra aura…
Che è quello che accade in questa Biennale, dove l’eccentricità “autentica” del carcerato o del malato di mente fornisce un riverbero di autenticità all’eccentricità (sovente manierata, per non dire del tutto posticcia) della bluechip da mandare in asta dopodomani. Attenzione però: l’aura è un fenomeno riflessivo.
Come già ironizzava Marx, uno è re non perché ci è nato, ma perché gli altri si comportano da sudditi nei suoi confronti. E’ come la fiducia nei mercati: dipende dal credo soggettivo che ciascuno ripone in essa – se a un certo punto (come accade puntualmente alla fine delle bolle speculative) tutti improvvisamente “smettono di crederci” si dissolve come vapore nell’aria.
Ecco allora dove sta il merito di questa Biennale: se la si considera schiettamente, per quello che realmente rappresenta, pone tutti coloro che si occupano di arte (e di cultura) in qualunque veste e ruolo, di fronte alle proprie responsabilità.
Ogni fundraising, ogni sponsorizzazione, ogni singolo nome in catalogo e ogni courtesy implicano una scelta a priori, e costituiscono parte integrante del lavoro di ciascuno, artista, curatore, o anche editore che sia, al di qua e al di là di tutti i contenuti possibili e immaginabili.
Persino la scelta se andare o no a Venezia, se pagare o no il biglietto, se aggiungere, o no, un altro singolo numero nel conteggio finale dei “visitatori” di questa e di qualunque altra mostra, pesa sulla responsabilità individuale di ciascun spettatore come mai prima.
L’idea che cultura e creatività fossero un simpatico parco giochi dove si poteva entrare e uscire a piacimento, è finita: proprio come la crisi globale, anche queste mostre globali polarizzano il campo allargando la distanza tra gli happy few e la stragrande maggioranza dei
peones culturali, i servi della gleba creativa di ogni parte del mondo, che guardano attoniti lo spettacolo illudendosi un giorno di farne parte.
E proprio come nel tardocapitalismo, il meccanismo che fa andare avanti tutto è – come ha mostrato assai bene Michael Moore nel suo documentario
Capitalism. A Love Story – il desiderio di questi innumerevoli poveretti di diventare come quei pochissimi, un desiderio che intanto rinforza sempre più “l’aura” di questi ultimi rendendoli ancor più ricchi e potenti.
Mostre come questa sollevano il disturbante interrogativo su come mai, oggi, ad ogni livello (non solo artistico) la più feroce critica al capitalismo culturale sia parte integrante del suo sistema e non solo collabori attivamente per mantenerlo in vita, ma anzi ne incrementi il potere.
Marco Senaldi
Questo testo è stato scritto da Marco Senaldi in reazione alle affermazioni di Massimiliano Gioni pubblicate nell'intervista
Gioni risponde
realizzata da Annalisa Cattani e pubblicata il 6 luglio scorso sulle pagine di UnDo.Net in collaborazione con Radio Città del Capo. Qui puoi ascoltare
l'intervista audio integrale
.
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