Yasmina Reggad e
Bérénice Saliou sono due giovani curatrici che lavorano tra l'Europa e il Nord Africa.
Entrambe hanno avviato da pochi anni programmi di residenza per la mobilità degli artisti nell'area mediterranea. Le abbiamo incontrate durante le giornate inaugurali della Biennale di Venezia e abbiamo cecato di capire il loro punto di vista sulla 55a Esposizione Internazionale d'Arte.
Il loro parere ci interessava non solo perché -per età e collocazione geografica- rischiano di trovarsi al centro di un enorme cambiamento socio-politico che non mancherà di riguardarci, ma anche perché il loro lavoro curatoriale mette l'accento sui processi di produzione piuttosto che su quelli di esposizione.
Dall'intervista, a nostro parere, escono tutte le spinte e le contraddizioni di chi, come Yasmina e Bérénice, lavora nei Paesi delle cosiddette economie emergenti: tra volontà di essere riconosciuti a livello globale e necessità di rispondere alle caratteristiche del territorio. E' palese invece che le loro risposte indicano la possibilità di raccontare e vivere la geografia dell'arte contemporanea in molte maniere diverse.
Prima di tutto, ci puoi raccontare il tipo di lavoro che stai portando avanti con Trankat in Marocco?
Bérénice Saliou: Trankat è stata concepita nel 2008 dall'artista marocchino Younès Rahmoun e da me, l'organizzazione no-profit Feddan è stata creata nel 2011 con lo scopo di implementarla. In Marocco nel 2008 c'era un numero limitato di strutture attive nell'ambito dell'arte contemporanea. Quasi tutte erano a Rabat, Casablanca e Marrakech; quasi nessuna aveva la forma di organizzazione no-profit. La costituzione di Trankat è una risposta alla mancanza di strutture attive, professionali e collegate a livello internazionale nel regno, in particolare nel nord del Marocco.
La parte settentrionale del Paese, e in particolare la regione del RIF, sono state storicamente trascurate. Le due/tre città di richiamo turistico erano Tangeri, Chefchaouen e forse Asilah. In certa misura, la situazione è ancora la stessa oggi anche se le cose iniziano a cambiare lentamente.
Trankat è stata pensata specificamente per la medina di Tetouan. La residenza per artisti, lo spazio espositivo e il programma educativo situati nella splendida casa storica della medina -annoverata come patrimonio mondiale dell'Unesco- rispondono alla specificità della città e alla sua peculiare situazione accademica.
Trankat invita in residenza artisti internazionali a vivere lì, lavorare in relazione con gli artigiani locali e tenere incontri e workshop per gli studenti delle scuole d'arte superiori della città. Il progetto include inoltre l'organizzazione di mostre ed eventi.
Concentrandosi sulle pratiche regionali, questi eventi esplorano il potenziale di un ambiente completamente decorato, agli antipodi del white cube, richiamando l'attenzione sulla medina di Tetouan e sui suoi tesori architettonici.
Qual'è la tua direzione? In che modo guardi all'Europa, ammesso che tu lo faccia?
Bérénice Saliou: Guardiamo all'Europa come partner e in questa dimensione collaborativa sta il centro del nostro progetto. Infatti Trankat è coprodotto dall'organizzazione Feddan e dall'organizzazione francese Sextant et plus, di base a Marsiglia. Sono soprattutto queste collaborazioni che ci consentono di incrociare la nostre reti e competenze e di aumentare le nostre possibilità di finanziamento.
Inoltre, la decisione di invitare artisti europei internazionalmente riconosciuti come Jordi Colomer (attualmente in residenza per tre mesi) è un modo per contribuire allo sviluppo dell'arte contemporanea nel nord del Marocco. Riteniamo che invitare artisti affermati a produrre delle opere a Tetouan è un modo genuino di supportare gli artisti emergenti locali e la professionalizzazione del settore.
Non solo i nostri residenti sono spinti a coinvolgere in maniera ravvicinata gli studenti locali attraverso seminari e conferenze, ma una volta tornati a casa loro sono i nostri migliori sostenitori. Raccontano ai colleghi le straordinarie risorse del Marocco e quello che lì sta succedendo.
Dal tuo punto di vista, la Biennale di Venezia rappresenta ancora un modello per la produzione artistica e culturale?
Bérénice Saliou: Trovo difficile fare riferimento alla Biennale come un format stabile e definito. Di questi tempi, tutto può essere chiamato biennale, purché coinvolga degli artisti e si tenga ogni due anni. Qual è il legame tra la Biennale di Venezia, la Biennale di Marrakech, la Biennale dei Giovani Artisti dell'Europa e del Mediterraneo o, per dirne una, la Biennale Internazionale di Arte Contemporanea di Melle?
A proposito, avete mai sentito parlare della Biennale di Melle? Si trova in una zona sperduta della campagna francese e la sua specificità è dare risalto a progetti artistici che si relazionano con la natura e il paesaggio.
Penso che la Biennale non possa più essere presa come modello perché il termine comprende troppe realtà differenti. Ogni biennale hai i suoi requisiti, i propri obiettivi da raggiungere. La Biennale di Dakar del 2013, per esempio mette in mostra solo opere di artisti africani o artisti della diaspora africana. Per essere selezionate, le opere devono avere meno di 2 anni, non essere mai state vendute o esposte in un contesto internazionale.
A mio parere, le biennali sono piattaforme per la promozione e la visibilità più che dei modelli per la produzione artistica. Anche se sicuramente fanno sì che gli artisti invitati producano nuove opere. Raramente però le commissionano e le producono direttamente.
In quali settori credi che la Biennale dovrebbe investire di più? Hai in mente dei modelli virtuosi in questo senso?
Bérénice Saliou: Di nuovo, la questione è piuttosto complicata e, se consideriamo quello che ho appena detto, non posso rispondere una volta per tutte. In ogni caso, sono particolarmente interessata alle biennali che coinvolgono le comunità locali o che almeno cercano di considerarle o di puntare su di esse. A questo proposito, ho sentito che il successo principale della nuova Biennale di Cochin in India è stata la partecipazione della popolazione locale, che è accorsa numerosa a vedere la mostra.
Penso sia qualcosa che dovremmo guardare con attenzione e su cui dovremmo interrogarci.
Per contrasto, l'afflusso di professionisti durante l'inaugurazione della Biennale di Venezia a volte sembra un'invasione. Gli alberghi sono presi d'assalto e i vaporetti così pieni che vengono organizzati dei turni aggiuntivi.
Sebbene la Biennale di Venezia sia sicuramente redditizia a livello commerciale, ci si potrebbe chiedere quale valore culturale abbia per gli abitanti dell'isola. In questo senso, qualche anno fa ho partecipato ad una nuova biennale in un paese dove quasi non si parla inglese.
Tuttavia, i testi a muro e tutte le tavole esplicative erano in inglese.
Non posso non farmi la domanda: per chi sono le biennali?
Durante le ultime Biennali sono cresciuti gli eventi che a diverso titolo dichiarano di indagare la "cultura araba". Non solo abbiamo visto nascere padiglioni nazionali come quello degli Emirati, ma tra gli eventi collaterali grande risonanza hanno avuto mostre come "The Future of a Promise" (Edge of Arabia, 2011).
Credi che il termine "Arab" sia un minimo comune denominatore adeguato? Puoi dare un giudizio, complessivo o parziale, di queste iniziative?
Bérénice Saliou: L'aggettivo “Arabo” è una nozione molto vaga. Marocco ed Emirati hanno davvero poco in comune per esempio. Anche se l'Islam è la religione prevalente in entrambi i paesi, la gente non parla la stessa lingua, la loro storia e le loro situazioni socio-politiche differiscono drammaticamente e distano più di 3500 km l'uno dagli altri.
Il mondo dell'arte contemporanea sembra avere sempre bisogno di mettere gli artisti dentro delle scatole. Prima si parlava di scuole e movimenti, ora di aree geografiche: si pensi all'approccio curatoriale della Saatchi Gallery negli ultimi anni.
Ma cosa significa l'aggettivo “Arabo”? C'è un'arte araba? Lasciatemi riformulare la domanda utilizzando un altro esempio: che cosa significa "arte americana" o "artista americano"? Quali sono le somiglianze tra un artista colombiano e uno di Los Angeles?
Per andare oltre, possiamo considerare il termine MENASA, spesso usato nel mondo dell'arte contemporanea per segnalare artisti provenienti dal Medio Oriente, Africa del Nord e Asia del Sud. Anche se a volte è allettante e pratico usare questi aggettivi, dovremmo pensarci due volte prima di farlo, perché spesso derivano da una prospettiva eurocentrica.
Detto questo, non c'è motivo per cui io debba giudicare negativamente la presenza degli Emirati nella Biennale di Venezia poiché sono stata estremamente felice per la loro scelta curatoriale. Mohamed Kazem è un artista importante, non solo per il suo lavoro ma anche per il suo significativo contributo nella formazione delle nuove generazioni.
L'installazione immersiva che ha presentato in Biennale è esistita solo nella forma di progetto per più di dieci anni a causa della mancanza di finanziamenti. Per me è un'opera coerente ed efficace: è questo quello che conta.
A prescindere dalla mostra in sé, la Biennale ha rappresentato per te una concreta occasione di scambio e networking?
Bérénice Saliou: Le Biennali più importanti come Venezia, Sharjah o Istanbul offrono concrete occasioni di networking ma in un modo del tutto paradossale. I professionisti dell'arte da tutto il mondo si radunano nello stesso luogo, nello stesso momento. Così puoi essere sicuro di fare nuovi incontri e stabilire connessioni interessanti.
In ogni caso, ognuno è così impegnato e c'è così tanto da vedere in un tempo così breve che è quasi impossibile incontrarsi in maniera adeguata e lavorare. Per essere cinici, i giorni di inaugurazione della biennali sono un modo per dire: “Ehi, guardami! Sono qui, nel posto giusto al momento giusto. Faccio parte del gioco!”
Hai visto qualche progetto, mostra o opera che ti ha particolarmente colpito durante questa Biennale?
Bérénice Saliou: Quest'anno il Leone d'Oro è stato assegnato all'Angola. È stata una grande sorpresa per tutti, persino per i curatori e gli artisti! Non avevano avuto nessuna anticipazione della loro nomination e circa 30 minuti dopo l'annuncio c'erano una sessantina di giornalisti e professionisti dell'arte isterici che spingevano davanti alla porta chiusa di Palazzo Cini.
Il lavoro dell'artista Edson Chagas consisteva in pile di poster colorati (originariamente fotografie) che mostrano dettagli di architetture e oggetti abbandonati nelle strade di Luanda. Tutto il senso dell'installazione stava nel dialogo che questo lavoro fragile e semplice stabiliva con i capolavori rinascimentali di Piero della Francesca o Filippo Lippi. Tuttavia, quando le porte si sono aperte, la folla dell'arte si è precipitata nelle stanze non illuminate e ha letteralmente iniziato a smantellare l'opera senza neanche guardarsi attorno. Quel che è successo quel giorno è abbastanza rappresentativo della follia delle giornate di inaugurazione a Venezia...
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