Galleria Daniela Rallo
Cremona
piazza Sant'Abbondio, 1
0372 32089
WEB
Pino Settanni
dal 21/4/2010 al 11/5/2010
mer-sab 10.30-13 e 16.30-20

Segnalato da

Galleria Daniela Rallo



approfondimenti

Pino Settanni



 
calendario eventi  :: 




21/4/2010

Pino Settanni

Galleria Daniela Rallo, Cremona

Kabul: intrecci di storia. Il velo e il tappeto. La mostra racconta la donna della cultura afgana, come punto di partenza per una riflessione sulla condizione femminile. Il fotografo espone intensi ritratti di donne annullate nei loro burqa e, accanto, si osserva l'opera collettiva dei tappeti di guerra.


comunicato stampa

La Donna Selvaggia vive nelle storie personali e collettive. Le storie dei popoli sono storie di donne, spesso in penombra, sottovoce, in controluce ai grandi eventi. Le donne sorreggono la società e la storia con la loro forza costante, quotidiana. Persino quando tutto sta andando a rotoli, quando la Morte entra prepotentemente nella Vita, fino a togliere il respiro e la speranza, le donne resistono, reagiscono e agiscono, elaborando soluzioni con la loro capacità creativa di rinascere e di dare la vita.

La Galleria Daniela Rallo presenta una mostra che canta in sottofondo la donna, in particolare la donna nella cultura afgana, come punto di partenza per una riflessione sul ruolo e sulla condizione femminile in generale, nella contemporaneità. Il fotografo Pino Settanni espone intensi ritratti di donne annullate nei loro burqa e, accanto, si osserva l’opera collettiva dei tappeti di guerra. Si tratta di due sguardi apparentemente divergenti sull’essere femminile: da un lato la figura passiva, intrappolata, che diventa elemento estetico allo sguardo del fotografo; dall’altro si ammira il prodotto dell’arte della tessitura, in cui la donna afgana dimostra, oltre a una grande maestria, una profonda presenza nel reale, un’attenzione lucida a quanto accade attorno a lei e nel mondo.

Da una parte la donna è essa stessa stoffa e la sua identità si riduce al velo gonfiato dal vento (che Settanni espande attraverso l’elaborazione digitale), in cui si possono solo a fatica immaginare degli occhi, delle membra, una voce, dei desideri, delle lacrime, dei sogni; dall’altra le tessitrici scrivono la storia e la interpretano intrecciando ad arte trama e ordito a creare tappeti modernisti, i tappeti di guerra che, articolandosi in un alfabeto decorativo fatto d’armi, diventano libri, narrazioni e, in qualche modo, sono la loro voce, quella attraverso la quale esse raccontano al mondo dall’interno delle loro prigioni di tessuto. Le tessitrici, dunque, diventano narratrici e, parlando di drammi ed eventi collettivi, sono, in qualche modo, generatrici di fiabe, miti e leggende.

La presenza sconcertante delle armi, delle macchine mortifere nei tappeti tradizionali d’Afghanistan a partire dagli anni Settanta si può leggere a diversi livelli. Innanzitutto esse sono il simbolo della modernità, del progresso, come lo erano in Occidente per le avanguardie storiche, ma è ovvio che l’urgenza di rappresentazione tradisce soprattutto una pervasività atroce della guerra nella sfera privata.

E la mente, per sopportare il negativo, deve introiettarlo, senza rimuoverlo. La difficile opera collettiva di queste donne, quindi, è quella di riuscire a inglobare la violenza nella vita quotidiana e anche la morte, una morte, però, che ben si allontana dalla naturalezza della vecchiaia, del fato o della malattia, piuttosto, che si abbatte sugli esseri umani per la crudeltà di altri esseri umani e per assurdi e, forse, agli occhi velati delle donne, inspiegabili giochi di potere. Persino la morte innaturale, attraverso il vissuto di un popolo, attraverso lo sguardo e i sentimenti della gente, entra a far parte del ciclo della vita. Può essere che, in fondo all’anima, la violenza non sia solo subita o passiva, ma l’iconografia delle armi, trasformate in segni di decoro, potrebbe anche significare la necessità istintuale di reagire, di prendere una parte attiva nel corso degli eventi, di difendersi e persino di offendere se necessario.

Settanni, attraverso l’elaborazione digitale di fotografie di donne velate, compie sull’osservatore un’operazione per certi aspetti simile, riuscendo, attraverso l’estetizzazione, a rendere il burqa, normalmente portatore di significati negativi, nient’altro che un elemento decorativo: stoffe dalle cromie accese, in cui a malapena si distinguono le sembianze di esseri femminili, si espandono a catturare l’intera immagine. E’ ovvio che il fotografo, che fu anche reporter a Kabul, utilizzi il mezzo artistico e la gradevolezza estetica per sollecitare, in modo più insinuante, alla riflessione sulla condizione femminile, perchè l’arte, agendo direttamente sulle emozioni, arrivando alla razionalità attraverso un lavoro sui sensi, può comunicare e lanciare messaggi in modo più diretto ed efficace. Settanni, nella dilatazione degli abiti, inserisce anche l’elemento dell’aria, del “mosso”: la donna si fa velo che si fa vento.

Essa, quindi, è anche vento, il vento che, inesorabile, spazza quelle terre difficili e che è l’eco della storia. Il vento è voce, nell’immaginario, e narra di eventi personali, di accidenti collettivi, di eroismi e di sofferenze, di armi e di assassinii, ma anche, come si vede nelle fotografie, di speranze e maternità in tempi di guerra, come se fossero fiori intensi e delicati che crescono tra le macerie. Il burqa che tutto nasconde e che tutto occlude invita, naturalmente, alla riflessione sul corpo femminile nella nostra cultura. Estetizzare il burqa, fermarsi ad osservarlo, come ci porta a fare Settanni, vuol dire estetizzare l’anti-nudo per eccellenza. Da un estremo all’altro: se nella cultura afgana il corpo femminile è mortificato e prigioniero, in quella occidentale la natura femminile è prigioniera del corpo, un corpo esibito che, nel regno dell’immagine, si pretende avulso dal tempo, dai cicli della vita e dalle peculiarità di ognuno.

Si può pensare che, sì, noi siamo, fortunatamente, libere dal burqa, ma non siamo libere e basta. L’invasione totalizzante dello spazio fotografico di questi abiti-carcere diventa simbolo delle prigionie reali e metaforiche di tutte le donne del mondo, ognuna, a suo modo, in lotta contro il proprio carcere culturale.

Inaugurazione giovedì 22 aprile 2010 ore 18.30

Galleria Daniela Rallo
Piazza S. Abbondio 1, Cremona
mercoledì a sabato dalle ore 10.30 alle 13 e dalle ore 16.30 alle 20
Ingresso libero

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