Over Time. ''L'artista in fondo cerca una forma di natura che non sia compromessa con il regime degli oggetti, delle infinite modificazioni del paesaggio'' (Valerio Deho').
Non sempre l’ironia porta conforto, non sempre serve ad avvicinare le cose ai pensieri.
Le opere di Nicola Genovese sono una danza sul filo, che unisce il grottesco e il tragico,
un elogio dell’estetica del brutto che passa attraverso i materiali che l’uomo ha prodotto, i
tentativi di esorcizzare la decadenza fisica e spirituale. Un sottile ma tenace legame ci unisce
agli oggetti, a quelli d’uso quotidiano che hanno legami con gli archetipi almeno quanti ne
hanno con il marketing. L’innovazione per Genovese è una digestione laboriosa che non
nasconde la cronicità della gastrite, l’infezione è in atto e avrà le conseguenze del caso.
L’arte ha bisogno d’ essere mitopoietica, con punte di religiosità raramente probabili e spesso
improvvisate.
Per questo Nicola Genovese non fa finta di nulla, prende tutto seriamente, la natura, i
paesaggi domestici, gli oggetti d’uso ma anche le immagini comprate ai mercatini che alcune
volte sono manipolate o lasciate come deja vù. Dipende dal grado di “mistero buffo” che
riescono a sollevare. L’artista in fondo cerca una forma di natura che non sia compromessa
con il regime degli oggetti, delle infinite modificazioni del paesaggio, del rapporto difficile tra
l’uomo e la natura. Forse proprio questo rapporto ce lo siamo già giocato. L’arte testimonia
di una scomparsa, di una morte attraverso il gioco dell’inusuale, del diverso, dell’improbabile
come creare qualcosa di artificioso sull’artificialità della nostra esistenza.
“Dirty flower” (2010) è una scopa in cui una parte della setola ha preso un’altra direzione,
quasi vi fosse qualcosa di organico che spingesse oltre la funzionalità, contro il destino stesso
della cosa. Una catena di DNA, una spirale, una forma archetipo viene interpreta in “Lawn”
(2010) partendo da delle spugnette abrasive che normalmente servono per lavare i piatti.
Ma già l’anno scorso “Moo cow in the box” era un efficace macchina per produrre il senso della
muccaggine, il celebre verso bovino, attraverso le macchinette alpestri che tutti abbiamo
avuto o regalato, un esempio perfetto di klangkunst.
E’ finto e si vede, ma nelle opere di Genovese si avverte la vacanza, cioè qualcosa che
non c’è e di cui l’arte ne è il fantasma. Così nel bel video “The losing game” (2009) lo
stesso Genovese manipola la sua immagine con disegni infantili che ne interpretano le
trasformazioni, cioè i personaggi storici o meno che variano con un vago sfondo di suoni e
rumori.
L’interpretazione delle ideologie e delle religioni ideologizzate conduce come sempre alla
conclusione della vita organica. I simboli che l’artista evoca con la sua trattenuta gestualità,
si accompagnano ad altrettanti segni in un gioco a perdere che conduce al simbolo finale
della morte, quel teschio che più si cerca di tenere lontano dalla vita, e più ritorna come
inquietudine. Ma la stessa serie dei moci, proprio gli strumenti che servono per lavare i
pavimenti, possono diventare delle forme evocative di strutture abitative elementari, vedi
i teepee indiani (d’America) e sono una versione moderna degli igloo di Merz. E’ chiara la
distanza, è chiara la mancanza di una fiducia illimitata nell’uomo e nelle sue strategie di
rapporto con la natura, ma anche l’impossibilità per un artista attuale di vivere quel clima degli
anni Sessanta che proponeva l’arte come soluzione dei problemi del mondo, come spiritualità
laica e salvifica. I tempi sono cambiati, forse oggi vi è più chiarezza sul nulla che ci circonda.
Oggetti animati, nuovi archetipi, video ma anche fotografie, La produzione di Nicola
Genovese ex sassofonista professionista transitato all’arte, va anche in direzione di un uso
volontario di immagini trovate, spesso già strane o comunque da reinterpretare.
Cosi “...and we are here in our empty houses , waiting for you 1 e 2” sono scene di vita
familiare in cui qualcosa non torna, certe cose strane accadono e non dovrebbero farlo. Un
tocco di surrealtà vi è certamente, ma forse torna in campo il caro e vecchio perturbante
( Unheimlich) freudiano, qualcosa che catalizzi l’esperienza facendola diventare diversa
dal solito, ma non per annullarla quanto per farla comprendere meglio. Diceva lo psicologo
viennese nel 1919: “Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto
da tempo, a ciò che ci è familiare.” Questo è il problema siamo attratti e respinti nello stesso
tempo da ciò che amiamo e temiamo.
Angoscia, confusione, estraneità sono nomi di una paura che ci prende spesso per cose
normali, per leggeri stravolgimenti della quotidianità. Ci sono tante cose che non sappiamo,
che qualcuna potrà sfuggirci. Cosa c’è “Under the carpet” (2010) ? Sotto il tappeto può
nascondersi tutto o niente: un buco, dei polacchi, un tunnel che non sappiamo dove ci
conduce: dall’altra parte dello specchio o in una latrina? Non lo sappiamo e non lo sapremo
mai, Nicola Genovese non ce lo vuole dire, perché questo è un gioco a perdere, non
dimentichiamolo.
Valerio Dehò
Inaugurazione 2 ottobre
Lab 610 XL
Loc. Servo (Via San Rocco 167/b) - Sovramonte (BL)
Ingresso libero