CaseAperte CA Contemporary Art Gallery
I bianchi. L'artista indaga il concetto di 'memoria' come vera essenza del corpo e individua nel vestito il contenitore per eccellenza dell'identita'. Le sue ultime raffigurazioni sono ricche di bagliori argentati e bianchi profondi.
a cura di Denitza Nedkova
Un contenitore è un qualsiasi oggetto cavo atto a contenere altri oggetti o
sostanze... Un vestito è un contenitore?
Da questa domanda, evidentemente retorica, parte l'indagine artistica di Daniela
Davoli, giovane artista sarda. Dopo le prime ricerche, concentrate sul corpo e le
sue espressioni, sensi, emanazioni, Davoli indaga il concetto di "memoria" come vera
essenza del corpo nell'assenza figurata di esso. Da questa riflessione nascono una
serie di lavori che esaminano l'oggettivazione della memoria del corpo ipotizzata
nelle "Vesti".
"E' come se le vesti tenessero strette fra le trame la memoria, la storia e
l'identità dei corpi che hanno contenuto e le rivelassero. Questo crea il distinguo
con qualsiasi altro oggetto del vissuto..." afferma Davoli e sottolinea
l'eccezionalità del contenitore "vestito", il cui contenuto, il corpo, è il
contenitore per eccellenza dell'identità.
L'antropometria, dunque, come base sostanziale dell'antropologia. Sebbene il vestito
non è di natura, curarlo spetta alla ragione naturale, alla volontà personale. Le
scelte che facciamo su cosa indossare ci tradiscono, ci rendono "decifrabili" .E'
così che, ciò che indossiamo si trasforma in niente meno che una seconda pelle che
ci distingue e ci accomuna agli altri.
"Il vestito è superiore a chi lo indossa, perché in esso c'è l'immagine divina che è
nell'uomo" dice la teologia di Filippo. L'ottica gnostica del III sec. d.C. è la
base di tutta l'iconografia medievale cristiana dove l'abbigliamento caratterizza il
personaggio, lo mimetizza, lo costruisce, sostituisce il suo corpo e ancora,
definisce lo spazio con le proprie forme solide e geometriche inserite
prospetticamente in esso (ricordiamo le inconfondibili figure di Piero della
Francesca, per esempio). E' evidente la sovrapposizione di concetti antichi con
quelli contemporanei.
Il lavoro di Davoli dimostra il raggiungimento dell'essenza di un'immagine, di una
forma, la raffigurazione della quale diventa la raffigurazione dell'essere. Ebbene,
dall'oggetto geometrico medievale, il vestito diventa l'oggetto ansioso moderno, per
dirla con Rosemberg, destinato non più a contenere, ma a diventare il proprio
contenuto in una estensione non più temporale, che era quella dell'oggetto
"tessuto", ma atemporale, in quanto artistica.
Un atto comunicativo sintetico e diretto, a nostro avviso, in quanto dimostra e
racconta la vita del corpo identitario. Questo perché i vestiti "vissuti" sono
entità che hanno vita propria e, come con tutto ciò che ha vita, noi possiamo
entrarvi in sintonia e comprenderne le vibrazioni, le "emozioni". Se riusciamo a
capire che questo oggetto è parte di noi e dell'universo in cui ci troviamo, allora
capiamo anche che possiamo essere una sola cosa con esso. In questo senso la nostra
veste non ci racconta come una nostra fotografia, ma va ben oltre, trasmettendo con
le sue fibre le vibrazioni vitali del nostro corpo, la sua consistenza, il suo
calore, i suoi odori, i suoi liquidi, la sua forma: "E' la ragione per la quale,
quando prendiamo in mano, -stringiamo a noi- il capo di qualcuno di cui sentiamo la
mancanza ci rasserena, poiché in esso sono contenute le informazioni di chi l'ha
indossato, la sua presenza sensibile"- sostiene l'artista stessa.
Le vesti di Daniela Davoli ,all'inizio di questa ricerca iconografica , si colorano
di oro, di rosso nell'intento di rivivere, tramite il calore della cromia, la
carnalità del corpo, il suo sangue, la sua preziosità, e comunque la sua caducità...
così la veste è (sì!) superiore a chi la indossa perché gli sopravvive. In un
secondo momento viene abbandonata la policromia per concentrarsi sulla purezza
dell'immagine. Le ultime raffigurazioni sono, in effetti, ricche di bagliori
argentati di bianchi profondi simbolo di eternità.
Questo spinge l'artista a
integrare, completare le immagini con parole, pensieri materializzati, che avvolgono
le vesti e le trasformano in caratteri, simboli, lettere, in racconto. Un elemento,
questo, che ci fa pensare alla ben nota soluzione informale della pittura segnica di
un Hartung o di un Capogrossi, che si concentrano principalmente sulla costruzione
di alfabeti visivi, non concettuali ma calligrafici.
"Esiste una sede "naturale" dell'identità? Forse il corpo." sostiene Davoli , e noi
completiamo il sillogismo: "Esiste una sede "naturale" del corpo? Forse la veste?"
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