Teatro Manzoni
Milano
via Manzoni, 42
02 7636901 FAX 02 76005471
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Phillip Johnston Ensemble
dal 25/1/2003 al 26/1/2003
02 7636901

Segnalato da

Viviana Allocchio




 
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25/1/2003

Phillip Johnston Ensemble

Teatro Manzoni, Milano

Per la prima volta a Milano il gruppo di un artista fra i piu' inventivi, originali e appassionanti oggi sulla scena di New York: Phillip Johnston.


comunicato stampa

Domenica 26 gennaio 2003, ore 11.00

sassofoni, pianoforte Phillip Johnston
voce Kate Sullivan
fisarmonica Guy Klucevsek
violoncello Tomas Ulrich


F. W. MURNAU’s “FAUST”

Domenica 26 gennaio 2003, alle ore 11.00, presso il Teatro Manzoni (via Manzoni 42, Milano), “Aperitivo in Concerto” presenta per la prima volta a Milano il gruppo di un artista fra i più inventivi, originali e appassionanti oggi sulla scena di New York: Phillip Johnston.

Questo brillantissimo compositore e sassofonista, la cui surreale vena creativa reca evidenti le tracce delle influenze di Kurt Weill, Nino Rota, Steve Lacy, e che egli ha spesso posto al servizio della sonorizzazione di capolavori del cinema muto (ricordiamo le colonne sonore da lui create per alcuni geniali lavori di Méliès, nonché per un’opera filmica impressionante quale The Unknown di Tod Browning) presenterà, in prima italiana e contestualmente alla proiezione della pellicola, le straordinarie musiche da lui scritte per una pietra miliare della storia del cinema, il leggendario Faust di Friedrich Wilhelm Murnau, realizzato nel 1926, che lo stesso Johnston (con il medesimo gruppo ospite di “Aperitivo in Concerto”) ha illustrato in prima mondiale il 5 ottobre del 2002 al Lincoln Center, in occasione del celebrato New York Film Festival.

Lo accompagneranno, nei fitti e trascinanti dialoghi che animano l’eccezionale commento musicale, alcuni fra i più acclamati protagonisti della scena improvvisativa americana di oggi: il celebrato fisarmonicista Guy Klucevsek, improvvisatore di grandissima rilevanza e di fenomenale creatività; la cantante Kate Sullivan, di straordinaria agilità vocale e apprezzatissima interprete di Kurt Weill come del repertorio jazzistico; Tomas Ulrich, violoncellista virtuoso e improvvisatore di sopraffine capacità.

Se Goethe fosse vivo, sono sicuro che questo film gli piacerebbe, e gli piacerebbero soprattutto cose di questo tipo (il plastico del volo sulle Alpi), le uniche capaci di ricordargli la sua opera, affermava Friedrich Wilhel Murnau a proposito del suo Faust (cui Eric Rohmer dedicò la sua ben nota tesi, L'organizzazione dello spazio nel “Faust” di Murnau).
Murnau morì a soli 42 anni, sbalzato fuori dalla sua auto sulle strade assolate della California. Era il 1931 e da alcuni anni si era trasferito negli Stati Uniti dove, a giorni, ci sarebbe stata l'anteprima del suo nuovo film: Tabù, un documentario sui Mari del Sud che si avvaleva, per la prima parte delle riprese, della litigiosa co-regia di Robert Flaherty. La seconda parte vide il divorzio dei due per incompatibilità caratteriale. Poco si conosce della vita del regista al di fuori dei suoi film. Nacque a Bielefeld, Westfalia, nel 1888. Di certo non poteva permettere che il suo vero cognome, Plumpe, sciupasse il potere evocativo dei suoi sogni in pellicola. Per questo lo cambiò nel nome di una città germanica che ospitava una nota casa per artisti, e che era stata teatro, come lui ebbe ad affermare un giorno, di un evento importante della sua giovinezza. Non ci è dato sapere quale. Durante la prima adolescenza, la villa di famiglia (il padre possedeva una fabbrica di tessuti) fungeva spesso da palcoscenico per gli spettacoli allestiti dal giovane Murnau con i suoi fratelli e sorelle. Max Reinhardt, guru del teatro espressionista (l’arte di Reinhardt, con la sua enfasi sulle emozioni ed il suo uso di scenografie distorte e stilizzate, ebbe grande influenza su tutto il cinema tedesco degli anni Venti), lo volle con sé dopo averlo visto in una recita studentesca. La parentesi tragica del primo conflitto mondiale gli fece conoscere i cieli di mezza Europa come pilota dell`aviazione. Murnau sopravvisse a ben sei incidenti, l'ultimo dei quali lo portò al riparo in Svizzera, dove attese la fine della guerra.

Il passato tedesco di Murnau era ricco di cultura, oltre che di teatro e di cinema. Dopo gli studi di filosofia, letteratura, storia dell’arte, girò 23 film, metà dei quali andati perduti. Tra quelli rimasti, divenuti classici, la suggestiva riduzione del Faust di Marlowe e di Goethe ed una tragedia sublime come L’ultima risata, con uno dei più intensi interpreti del muto, Emil Jannings, nei panni del portiere di un albergo che, dopo aver perduto il lavoro, affonda nella disperazione e nell’alcool. Questo film, celeberrimo e stupefacente per l’epoca in virtù dei suoi movimenti di macchina (l’inquadratura iniziale fu realizzata piazzando la macchina da presa su un ascensore in discesa; un’altra con la macchina collocata, insieme al protagonista ubriaco, su una piattaforma che ruota velocemente fino a trasformare lo sfondo in un vorticoso turbinio indistinto), gli valse nel 1925 un invito a Hollywood da parte di William Fox. Vanno inoltre ricordati lavori fondamentali come Der Januskopf (1920) e Tartuffe (1925) con Emil Jannings e Werner Krauss, rilettura dissacrante di Molière che diventa pretesto per parlare anche di quel momento storico, rimodellando personaggi e situazioni attualizzati. Soprattutto fondamentale è il suo espressionistico Nosferatu, der brennende Acker (1922), storia di un mostro assetato di sangue (Max Schrecht) che per il suo amore per la giovane Ellen, moglie di un giovane agente immobiliare, è costretto ad abbandonare (dissolvendosi) la città in cui imperversava.

Passato a Hollywood, diresse Aurora (Sunrise, 1928), in cui evidenti sono ancora i segni dello stile espressionistico tedesco: vi si narra la drammatica vicenda di un giovane trascinato da una passione morbosa che tenta di affogare la moglie per convolare a nuove nozze: nel momento fatale si ravvede e la moglie lo perdona. Il film, dall’alto budget, mandò in perdita la Fox, che stanziò sempre meno denaro per le successive pellicole del grande tedesco, ed esercitò sempre maggior controllo sulla sua libertà artistica, decretandone un rapido declino. Quel che aveva di peculiare Murnau, nella sua arte, era proprio il suo considerarla tale. Al Cinema occorreva trovare un linguaggio che gli fosse proprio, non mutuato né dalla letteratura né dal teatro. La sua ambizione era di liberare l’immagine in movimento persino da quelle poche didascalie che necessariamente inframmezzavano i film muti. L'immagine doveva parlare da sola, con il suo potere, la fascinazione delle sue ombre, la perfezione della costruzione del set e delle inquadrature.

Il Faust , come già detto, è del 1926: mescolando Goethe e Marlowe, ma soprattutto alternando le precedenti ispirazioni dostoevskijane, fatte di sacrificio, con un’evoluzione dell’allucinazione di luci fluttuanti tra le ombre sulfuree tipiche dei più ispirati film dei primi anni ‘20, non più semplicemente "ammonitrici" che diventano qui a tratti futili scherzi da attore teatrale e a volte rappresentazione degna dell’opera di Gounod, senza però perdere l’ossessività dei toni.
Il processo che sta a monte del Faust sembra un compendio di tutto ciò che era stato l’espressionismo e valida rappresentazione del "periodo stabilizzato": la paralisi di Weimar, il sonno della ragione che genera mostri nazisti, intenzioni realistiche fanno capolino e sono soffocate da quelle più esplicitamente espressioniste, allucinate, dove il paesaggio stesso è congelato, non solo perché invernale ma perché espressione dell’autorità e del caos.
Gli incubi da camera della Neue Sachlichkeit vengono ostracizzati con l’accettazione dell’abisso, la perdita di sé, quasi che solo chi si perde possa ritrovarsi, diverso, purificato dal fuoco e dall’amore: in fondo lo stesso tema di Nosferatu, il tiranno assetato di sangue sconfitto dal grande amore di Nina, che apparentemente si arrende ai denti del vampiro ma in questo modo si sacrifica per salvare il mondo. Un sacrificio inconsapevole.
Cadenzato sulle escursioni nell’inconscio, ma agganciato ai testi classici che ne organizzano la trama, Faust filtra i momenti di dissociazione mentale, collocandoli all’inizio e imparentandoli con l’attività di studioso, poi è la normalità a trasformarsi con le luci (la soglia della casa di Gretchen vista da fuori illuminata in base alle emozioni e invece l’interno ordinato ma senza angoli vivi, tutto arrotondato) e infine a paralizzarsi in attesa della bufera, dell’ordalia, della catarsi, che invariabilmente non possono non abbattersi sull’uomo rassegnato. Autobiografia ideale in chiave di autocritica preveggente, che troverà poi nel dopoguerra in Thomas Mann l’autore più adatto per riprendere il testo di Goethe (in Doktor Faustus) dopo il nazismo.


TEATRO MANZONI
Via Manzoni, 42
Milano

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