Museo Immaginario L'ecole des italiens
L'occhio nel taccuino: una selezione di venticinque scatti dello scrittore, giornalista, polemista, 'teorico politico', uomo di teatro e uomo di mondo.
In tre occasioni della sua vita, Curzio Malaparte - scrittore, giornalista, polemista, “teorico politico”, uomo di teatro e uomo di mondo - diventa anche fotografo. In tali circostanze è qualcosa in più dell’amateur, quella categoria composta da pittori, scultori, poeti, viaggiatori, architetti, cineasti e intellettuali riconosciuti e ammirati per il loro mestiere che si danno alla fotografia. Malaparte, se da un punto di vista strettamente tecnico può essere annoverato nella nobile schiera dei dilettanti (termine che al ribasso traduce quello francese di amateur) non è tale però su un piano formale e di contenuti, dimostrandosi un reporter consapevole della “verità” dell’immagine fotografica e a suo agio nella ricerca del momento decisivo in cui testa occhio e cuore sono sulla stessa linea di mira.
La prima volta in cui Malaparte affianca alla macchina da scrivere quella fotografica succede dal gennaio all’aprile del 1939, quando è inviato dal Corriere della Sera in Etiopia per raccontare in presa diretta e senza fiammeggiamenti retorici il processo di italianizzazione dell’Impero e le aspettative di quanti cercano un “posto al sole”.
Il viaggio dura poco più di due mesi, ma la pubblicazione del suo reportage andrà avanti, non senza polemiche con il direttore Aldo Borelli, ricriminazioni economiche, improvvise sparizioni e vere o presunte malattie, dal 4 maggio - quando “da bordo” del piroscafo Palestina racconta la traversata che da Napoli sta portando i nuovi coloni alla volta di Massaua e Assab - al 7 novembre, quando firma la sua ultima corrispondenza da Zendebur, nelle gole di Beresà.
In tutto Malaparte scrive 13 “articolesse” per la terza pagina del Corriere e scatta circa un migliaio di fotografie (i formati dei negativi sono quasi tutti 4,5 per 6; pochi quelli 6 per 6, e 6 per 9). «Caro Borellone, sono finalmente tornato, stanco morto ma vivo e allegro», scrive il 19 aprile 1939 al direttore del Corriere, che da due mesi ha perso le tracce dell’inviato. «Come già forse saprai, - continua Malaparte - ho compiuto un interessantissimo itinerario, per gran parte a mulo, (prima con 9° battaglione Eritreo, poi col 5°, poi col 10°) attraverso tutto il paese Amara, dal Tacazzè per il Goggiam fino a Addis Abeba, quindi il Mens-Marabetiè-Uorana, quindi il Galla e Sidama fin quasi a Magi. Ho partecipato a diversi combattimenti… Mi son buscata una medaglia al valor militare. Quel che ho visto e vissuto è interessantissimo, e per grandissima parte inedito. Ho con me un documento fotografico di primissimo ordine (le foto sono tutte mie) sui combattimenti, le regioni, i popoli etc.».
In altre due corrispondenze fa cenno esplicito alla fotografia: nel servizio che spedisce da Adua «Il Cristo di Axum» (pubblicato sul Corriere il 6 giugno) racconta di essersi recato a comprare le pellicole nella bottega di un fotografo italiano che già da tempo lavora nel Tigrai, e poi nel servizio «Allegria a Ghembevà» (14 settembre): qui, descrivendo uno scontro tra Ascari e sciftà, si rammarica di non aver fatto in tempo a caricare la macchina per fotografare una mandria di buoi spinta in avanti dai guerriglieri etiopici.
La seconda occasione di un vero e proprio reportage fotografico si presenta durante la guerra nei Balcani, dove dall’aprile al maggio 1941, sempre per conto del Corriere della Sera segue la disfatta dell’esercito serbo e l’avanzata delle truppe corazzate tedesche. Dal 10 aprile al 9 maggio scrive 12 articoli e scatta in questa occasione una ventina di rulli di formato Leika. Anche in questi “servizi” non v’è ombra di retorica, ma è accentuata - ancor più che in Africa - l’attenzione per un’umanità dolente e dignitosa di fronte ai disastri di una guerra che già s’intuisce tragica per tutti, per i vinti e per i vincitori: le distruzioni dei bombardamenti, i palazzi sventrati, i ponti divelti, i cumuli di macerie, lo smarrimento della gente, la natura ferita, gli animali sterminati e abbandonati sulle rive dei fiumi... anticipano per immagini le pagine più nere e senza speranza di Kaputt (1944). Si può dire che questi scatti, forse meglio dei testi delle corrispondenze scritte per il suo giornale, sono gli appunti più nitidi e più secchi di quel girone d’inferno che troverà forma di romanzo tre anni più tardi. Allo stesso tempo, sono immagini che vivono di vita propria: hanno quell’autonomia espressiva e narrativa inseguita e catturata dai grandi reporter in stato di grazia. Per queste fotografie Malaparte non deve fare i conti con nessuno, se non con una realtà che chiede di essere guardata con occhi ben aperti.
Il viaggio in Cina, fatto nel 1956, è infine l’ultima circostanza in cui lo scrittore fotografa.
Questi scatti (pochi rulli finora conosciuti, di formato 6 per 6 e quasi tutti in colore) sono i più deboli. A una prima verifica sembrano quasi fotografie turistiche, distratte, marginali: “ruba” sguardi di bambini o di vecchi nelle strade affollate di Pechino, appunta lo scorcio di qualche monumento o l’enigma di un Buddha senza tempo scavato nella roccia. Si ha la netta sensazione che sta guardando il mondo con la coda dell’occhio. La testa e il cuore sono altrove. Forse, sente di non aver troppo tempo davanti a sé per caricare le fotografie di altre attese. Meno di un anno dopo da queste ultime immagini, Malaparte muore. Ha cinquantanove anni.
Inaugurazione: 6 dicembre
Museo Immaginario
Via Mellerio, 2 - Domodossola
Ingresso libero