Galleria Maniero
Roma
via dell'Arancio, 79
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WEB
Quattro
dal 3/4/2003 al 4/5/2003
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Segnalato da

Liliana Maniero



 
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3/4/2003

Quattro

Galleria Maniero, Roma

Quattro artiste molto diverse l'una dall'altra ma con un sotterraneo filo conduttore che lega il loro lavoro: l'ironia sottesa nel cogliere il reale, l'attenzione per il mondo ludico dell'infanzia, l'ossessivita' seriale dell'immagine, la quotidianeita' assunta a valore simbolico e, soprattutto, un modo illusionista e prodigioso di recuperare la realta'.


comunicato stampa

Marilù Eustachio, Myriam Laplante, Sabina Mirri, Orsina Sforza

Quattro artiste molto diverse l'una dall'altra ma con un sotterraneo filo conduttore che lega il loro lavoro: l'ironia sottesa nel cogliere il reale, l'attenzione per il mondo ludico dell'infanzia, l'ossessività seriale dell'immagine, la quotidianeità assunta a valore simbolico e, soprattutto, un modo illusionista e prodigioso di recuperare la realtà.
La diversità dei linguaggi scelti dalle quattro artiste (dalla pittura ad olio alla performance, dalla fotografia al computer) rende ancor più stimolante il nesso tra i loro lavori e i significati che questi acquistano nel confronto. Qualcosa simile all'atto che crea immagini illusorie, immagini che compaiono e scompaiono, che si moltiplicano e che si pongono come un enigma nella loro visionarità.
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QUATTRO

testo di Bebetta Campeti

Scaglia di drago, dente di lupo, mummia di strega,
ventricolo e imbuto dello squalo che i mari devasta,
barba di cicuta nel buio divelta, fegato d'empio circonciso,
fiele di capra, rametto reciso di tasso all'eclissi di luna...
(Macbeth, atto IV, scena I)

Una ricetta non male.
Nel Macbeth sono tre. Qui sono quattro, come i lati di un quadrato, come le frecce dei venti, i punti cardinali e i momenti del giorno.
Nella notte di Myriam, un groviglio di stantuffi, alambicchi e teiere distilla una catena infinita di elaborazioni, che dissolvono grumi di senso in flussi di significati. Un lavorìo inesauribile prende corpo nella pace mortale racchiudente del buio, quando il corpo riposa svenuto dalla fatica del giorno e lo spirito vaga sfrenato nel mondo dei sogni. Nelle valli color cenere, tanti piccoli stomaci gnomici pompano bile per filtrare i veleni quotidiani: una circolazione instancabile, anche buffa, se non fosse terribile, pervicaci tentacoli avvinghiati l'uno all'altro e panciotte e boccucce e beccucci voraci, lì pronti a succhiare. C'è persino un imbuto, che sta in piedi su una pentola fra il saliscendi di liquidi e un intersecarsi di tubi contorti come un'allucinazione delirante, un'ossessione da idraulici folli. Dove inizia la catena della causa effetto infinita e quando finirà? Non si sa. Né si capisce, nel grigiore diffuso che circonda gli oggetti, dove inizia la realtà e dove finisce la fantasmagoria della mente. Eppure si dice che malgrado i suoi inganni, la mente sia l'unico alambicco capace di trasformare illusioni in verità, veleni in elisir, piombo in oro, attraverso un cammino indicato con istruzioni minuziose nel lingua dei testi crepuscolari, ma disatteso dai più. Chi lo sa. Nel frattempo, tanti piccoli stomaci gnomici pompano lo straordinario notturno fino a quando comincia il lavoro del giorno.

Orsina è il mattino: cammina per strade invase di luce azzurrina con passo veloce, il naso puntuto in preda all'abbaglio di fresche visioni, all'armonia ritrovata di una consapevolezza senza parole, né opinioni, né giudizi. Orsina si ferma e contempla i rifiuti con occhio incantato. Il bello si staglia come oro nella crepa del muro, nel biancastro di umido muffito che scolorisce l'intonaco, nell'accumulo di materie deformi stratificato fra fichi e detriti avariati. Nella loro condizione emarginata di scarti, alcune sostanze mantengono le vestigia dell'identità precedente. L'occhio penetra, esamina, si rassicura, identifica, qualifica: carta bruciata, plastica, una musicassetta. Di altre, non si capisce più che cos'erano. L'occhio si ritrae davanti al mistero della degenerazione e ritorna indietro. Le ombre mattutine sono livide, indaco, viola. La perfezione del caso trabocca dalle pieghe di cenci distesi come spiriti esangui sul cemento di strade e terrazzi; si svela in nature morte improvvise, senza fiori né frutta, soltanto un'ironica ortica. Una tela macchiata si snoda fra le monnezze come un panneggio barocco; lo sguardo riposa nella voluttà delle pieghe, si fa assorbire dal gorgo bluastro che fa da sfondo agli oggetti. Che splendore. Per un momento soltanto, ma tutto è perfetto. La trasparenza del mattino rivela universi in fondo a un bicchiere.

Sabina rimescola bacche rosse di fuoco in un labirinto di passioni attraente e maestoso, innocuo all'apparenza; sottigliezze di colori degradanti, quegli stami ordinati, quelle foglie, le ombre perfette: ma attenti, chi lo sfiora s'impiglia nelle spine che lacerano la carne, trova labbra che succhiano il sangue che sprizza da ferite d'amore, si fa coinvolgere dall'incandescenza di cuori che bruciano. Feroce è l'incantesimo del meriggio, quando non è la mezza luce lunare che t'inganna, ma l'abbaglio, il dardo del sole a picco che prima ti acceca e poi ti squaglia. Tu ti addormenti e dalle ombre attorno a te sbucano mondi sommersi che t'inghiottono. Sogni fiori di macchia, bacche di rose spinose, una foresta rossa che ti si avvolge intorno, finchè urli; quando non ne puoi più, quando vuoi perderti, ti accoglie un'estatica distesa di fighette rosa, pallidi ciclamini posati come farfalle lilla in una radura dorata. Li raccogli. Lì incontri Sabina, intenta a quel lavoro ossessivo di ritrarre fiori e bacche da mesi, forse anni. Uno dopo l'altro dopo l'altro, mentre raggrinzisce e scolora, per coprire la tela. Le chiedi perché lo fa. Vuole vedere come va a finire, dice, con un ghigno sardonico, ma anche un po' rassegnato; non si sa mai perché si cede alle proprie ossessioni finchè non si è provato. Il suo è l'incanto del troppo, la sofferenza del pieno, l'accumulo del tempo. La variazione sul tema. Le spine che pungono ancora fra fiori appassiti. Non è tutto rose e fiori, no, ci sono boccioli seccati dal gelo, avvizziti nella culla, quelli con le foglie mangiate dagli afidi, e quelli che non fioriscono mai...

Ci sono sere invase di nostalgia per la lucente pienezza intravista dallo spiraglio della porta aperta per un attimo su una vita diversa.
Quando cala il crepuscolo e il rimorso di un altro giorno smarrito si sposa con la mestizia del sole che sfuma nelle tenebre avvincenti, emergono scarni profili dall'ombra a chiamarci a rapporto. Dei volti scavati nel nulla, spettri, specchi magici, apparizioni, c'interrogano. La maschera di un uomo rosso inquietante col naso camuso ci fissa a labbra tese, da feroci fessure di occhi; un incappucciato monocolo lo sovrasta e lo veglia come un enigma perenne. Si susseguono sobri allacci di profili su spalle, presenze inquietanti in aloni rosati. Occhi foschi fissi sul punto di fuga oltre l'angolo del foglio.
Che cos'ho fatto? Chi sono? Che senso ha, oggi, la fatica di vivere?
Marilù non se lo chiede manco più: ridacchia, sapiente, malinconica. E' abituata a domande così, alle domande senza risposte accettabili. Il suo è l'incantesimo del sublime possibile. Cammina leggera sul crinale fra luce e ombra, passeggia nel golfo che si apre fra forma e fantasma, illusione e verità, potenza ed esistenza, qui e altrove. Evoca apparizioni che s'incidono nel bianco come una ferita di china e poi si squaglia. Così, improvvisamente com'era comparsa, svanisce. Scompare sull'orizzonte lascia dietro di sé una traccia nitida, un'ipotesi di assoluto, che si staglia nel fulgore del sole.

Testo in catalogo: Bebetta Campeti

Inaugurazione: 4 aprile 2003

Durata : fino al 4 maggio 2003
Orario: mart./sab. dalle 16 alle 20

MANIERO ASSOCIAZIONE CULTURALE 79, VIA DELL'ARANCIO - 00186 ROMA
tel./fax 06 68807116

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