Luca Beolchi, Luca Matti, Elisabetta Tagliabue, Arianna Tinulla e Angela Viola lavorano sulle potenzialita' del linguaggio iconografico del disegno.
Se per l’individuo la parola rappresenta una forzata traslazione tra il proprio essere e il mondo esterno, il linguaggio iconografico del disegno risulta essere diretto e privo di filtri.
Per Jacques Lacan “parlare è anzitutto parlare ad altri” nella comunicazione segnica “disegnare è anzitutto disegnare ad altri”.
Per Ferdinand De Saussure il “segno” non è solo l’immagine acustica (il detto), ma la designazione totale del tutto tenendo separato il significante che è il linguaggio parlato e scritto e il significato che rappresenta il concetto insito nella parola detta. Ma il “segno” concepito come sistema dei segni è il linguaggio stesso in qualunque sua forma.
L’estetica del segno rappresenta così una tangibile traccia del passaggio umano, un tentativo di utilizzare un linguaggio trascendentale capace di mettere in relazione l’io con il mondo là fuori. Un medium visivo in grado di trasferire riflessioni personali consce in quanto ciò che appare è vero, ma anche inconsce tra le trame della nostra psiche.
La traccia rappresenta solo l’inizio di un viaggio visivo in cui non è fondamentale l’indagine tecnica, in quanto modus operandi esecutivo, ma le sollecitazioni intellettuali che l’opera intende sottoporre. Non ci si aspetta di osservare l’artista, semmai ciò che l’opera è in grado di far osservare a chi la guarda. Per dirla con Oscar Wilde “[…] rivelare l’arte e nascondere l’artista, è il fine dell’arte”1.
Luca Beolchi racconta attraverso la metafora delle sue favole visive. I suoi disegni sono trame uscite dalla fantasia di un bambino diventato adulto e consapevole del mondo circostante.
Le sue rappresentazioni fluttuano tra l’onirico e il fumettistico in cui il reale sembra perdersi nell’immaginazione di una visione fantastica, dove a prima vista tutto appare rassicurante tranne noi coi nostri bagagli psicologici.
Luca non sente il bisogno di creare impianti segnici artificiosi per farci riflettere su un nuovo mondo possibile, basta la leggerezza delle sue figurine che arrivano come carta velina ai nostri pensieri.
Elisabetta Tagliabue esegue planimetrie e mappature in luoghi dove è stata, dove ha vissuto, che ricostruisce a memoria per non perdere la fisicità dell’esperienza reale fatta in quei luoghi.
Le tracce che affiorano sono quindi ciò che rimane del tempo e dello spazio esistito nella sua storia esistenziale dove il passato è idealmente fermato in un’ambra fotografica in cui nulla può più sfuggire.
Elisabetta cristallizza la propria memoria attraverso dei “frame” che restituisce rielaborati architettonicamente o lasciati così come son nati.
Arianna Tinulla osserva l’infinito attraverso gli occhi delle sue creature che sembrano sfuggire alle proprie stesse forme, come nuvolette di fumo, per andare oltre la materia.
Dice: “Disegno e mi diletto nel liberarmi gli arti dalle manette senza usare le chiavi”. Arianna in questo modo libera se stessa e i suoi personaggi fiabeschi dall’incombenza della realtà, senza tuttavia sfuggirne, ma reinterpretandola.
Una interpretazione associabile a orizzonti poco riconoscibili e fumosamente netti. Sfondare con dolce veemenza il quotidiano in prospettive liquide le piace molto, onde parole musicali di china.
Luca Matti disegna palazzi che occupano ormai ogni centimetro del pianeta terra, incombenti sinistri e claustrofobici. Crea atmosfere artificiali che sembrano uscite dal romanzo di Isaac Asimov “The Caves of Steel”.2
I suoi personaggi sono il risultato genetico di una trasformazione che il pianeta terra ha subito in seguito alla sua mutazione.
Gli individui di Luca hanno somatizzato fisicamente i palazzi, divenuti quest’ultimi carne e sangue, dove la traccia della loro esistenza si può solo immaginare attraverso le infinite luci accese dentro ai blocchi grigi delle megalopoli.
Angela Viola crea una trama di collegamenti tra le immagini che disegna e altre recuperate dal mondo esterno. Ci sarebbe materiale per Freud se immaginassimo tali composizioni come sogni.
I suoi fili sono come cordoni ombelicali che nutrono visioni attuali e passate, si impossessa di fotografie, frasi ritagliate da giornali, oggetti, tutto ciò che può dar senso alle sue storie.
Storie in cui l’immaginario femminile è quasi sempre presente, dove la donna è il corpo che dà vita ad altro corpo, dove il pensiero genera altro pensiero.
1 “Ritratto di Dorian Gray” prefazione Oscar Wilde 1891
2 “The Caves of Steel” Isaac Asimov romanzo 1953
Bergamo, giugno 2012
Inaugurazione 5 luglio ore 21.00
Galleria Marelia
via Guglielmo d'Alzano, 2b - Bergamo
Lunedì – venerdì 14.00 / 20.00; sabato 15.30 / 20.00
Ingresso libero