Palazzetto dell'Arte
Foggia
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Roberto Buanne
dal 10/10/2003 al 25/10/2003

Segnalato da

ARTE & CARTE




 
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10/10/2003

Roberto Buanne

Palazzetto dell'Arte, Foggia

'Buanne e' particolarmente legato, nel senso che gli sembra giusto, dopo tutti i disincanti e le cadute provocati dall'idealismo e dalla retorica del titanismo, riportarsi in questa visione scabra, terrestre, risolta nei minimi termini letterari, nella storia piu' semplice che si possa inventare per le cose.' (Angelo Calabrese).


comunicato stampa

presentazione di Angelo Calabrese

Inaugurazione Sabato 11 Ottobre 2003, ore 19,00

Roberto Buanne è abituato, per lunga consuetudine di lavoro, a guardare l’esistenza senza farsi affascinare o distrarre dai fatti clamorosi, dalle narrazioni straordinarie della natura o dai particolari della cronaca. Il suo passo è misurato, diffidente verso ciò che mostra potenza e lucentezza, verso le cose gonfie di salute o strane. Ad accostarsi alla vita, con le esitazioni e l’impeto che gli sono propri, con un grande senso di rispetto verso i fenomeni umani e naturali, s’è accorto di certe imperfezioni, di certi luoghi inconclusi e brulli che proprio per la loro apparente inefficacia, per la modestia e la povertà espressiva quasi disarmanti, contenevano tanta più sotterranea poesia di tutte le luminarie alle facciate dell’estetica. Erano senz’altro da preferirsi alle esplosioni della fantasia, agli effetti dell’esasperazione dadaista o surreale, alle deformazioni stilizzatrici o edonistiche, e alla forma goduta come divinazione classica; elementi, questi, di una cultura cucinata a scopo di facili proventi artistici e letterari, o di sfilate seducenti in seno a un’Europa così distratta e preoccupata dai suoi orgasmi politici e sociali, da lasciar passare per buone anche le più banali, arbitrarie provocazioni del linguaggio. Buanne assume ciò che è rimasto della forma dopo la macerazione e lo scambio della fantasia in concretezza, il suo percorso è dalla struttura ideale, raffinata, alla visione palpabile da riscontrare in quanto è noto, acceso alla nostra esperienza dei sensi. Egli è pittore serale, pittore di una stagione d’autunno cauta nei colori e nelle reazioni della luce: il suo tempo è bruno e indaco; guarda, nella sua sera irripetibile, le cose che si aggrumano, che nella loro greve corposità si raccolgono, quasi si confortano, attorno a qualche luce rimasta accesa e diffusa, fatta di lontani riflessi. Guarda la natura tradotta in ruvida approssimazione lirica, di un ambiente che risente della passione umana, di sotterraneo senso tragico, di visioni provocanti: ne risultano forme lievitate nelle coltri variamente elastiche e sollecitanti, una complessa asperità di immagini che avverte la lotta tenace verso una materia che non si arrende facilmente alla sintesi pittorica e che viene proposta ancora vibrante di questa concentrazione creativa.

E logico, si direbbe fatale, che nell’opera di Buanne avvenga un continuo acutizzarsi e riaffermarsi di quelle sensazioni, delle definizioni che siamo soliti riconoscere nella natura, quindi in noi stessi, nel nostro magma emotivo e passionale nel quale convivono la brutalità, il vizio della prevaricazione e lo scioglimento sentimentale, le inguaribili tenerezze romantiche: con queste presenze Buanne dipinge, e sembra che impasti nel calamaio della nostra macchina mentale i suoi colori vischiosi e molli assieme con le nostre torbide intuizioni spirituali, le nostre paure della stasi, dell’imperturbabilità, oppure del moto, del rischio della vita che non ha o non può avere una direzione unica, invariabile. Nella nostra storia figurativa, emotiva, di cultura e di tempo, di luogo e di mito, Buanne provoca migrazioni spontanee di forma in altra forma, di sensi scoperti in eccitazioni sottese; caricata d’angosce e di cose non dette, la sua natura, così percorsa e sfiancata, viene assorbita in un’epopea reale che confina con l’ombra, con l’amorfo, l’incerto e l’indescrivibile, con quel velo di morte che Buanne tiene come sospeso, ma senza mai farlo cadere sulla sua traccia lirica. Sul filo di questa tumultuosa, incalzante aritmia della natura legata alla sua realtà nascosta, alle illusioni reali, alle forme che sono e non sono vere a seconda del tempo e della luce, a Buanne basta l’intuito, la sensibilità plastica e la partecipazione ai valori più semplici della poesia per risolvere il fatto pittorico cercato e trovato, nella rappresentazione (esemplificazione) elementare dell’essere totale.

Siamo a una svolta morale della pittura. A quando bisogna fare i conti con le radici dell’uomo. E, in questo caso, morale sta come vicenda che è giunta al suo filtro, come scelta di fatti e di poetica, e anche come scelta di soggetti, cioé di luoghi in cui far sopravvivere le possibilità dell’arte: finiti i clamori, spenti nella dimenticanza i pettegolezzi di salotto, sepolte anche le massificazioni ideologiche, all’artista non resta che addossarsi le sue responsabilità morali, appunto — quelle che lo trattengono nella vita e gli fanno superare l’idea appassionante del suicidio — nei confronti di questa storia che è chiamato a distinguere, a rendere propria quasi fosse una proposta nuova. O almeno ad agire come se la nuova storia possa decidersi anche nella sua opera. Non conosciamo di Buanne la ripugnanza per la speculazione erudita, per l’aneddoto fantastico, per le teorie rivoluzionarie: è la sua pittura che ci fa supporre quanto sia scavata e profonda la zona da cui prende i suoi interessi, al riparo dai venti, dai cambiamenti di umore della critica o dell’apparato mercantile. La calma, la lenta e quasi processionale chiusura morfologica di Buanne, che trasforma la realtà in massiccia poesia della realtà, in intenso groviglio informale, dà la caratteristica lessicale a un gusto antiletterario e antionirico, concluso in una cura assidua per l’ambiente dell’uomo, la sovrabbondanza sensuale e il piacere per la vita che si muove, ma con una estenuante quiete, nella quale l’artista si ritrova e affonda il suo sguardo, quasi impotente, così fragile da poter riassumere e ordinare gli elementi fondamentali solo con una sequenza lentissima. L’uomo è profilato in un senso di realtà, ma continuamente, ambiguamente disposto a negarla, questa realtà, a rientrare nel bozzolo delle sensazioni e dei profumi ignoti, delle forme non viste ma immaginate nei grandi effetti grafici e geografici della natura. In fondo Buanne reagisce stando lontano, si fa sentire guardandosi bene dal gridare, ed è il suo silenzio a descrivere la rinuncia verso le manifestazioni esteriori della produzione culturale. E’ il suo modo per superare l’estetica ripensando alle matrici prime, misteriose dell’esistenza, e porsi a riscontro diretto con ciò che è la natura, l’uomo umano, il motivo della sostanza e della materia, più che del profilo e della forma: ciò che è grottesco diviene oscuro, ciò che è solenne assume un aspetto arcano, ciò che sembra curioso diviene viscido e sfuggente. Spesso sembra di entrare e di affondare nella pittura di Buanne che ci attira e ci trattiene in un pensiero più assorto, attento a questo affare conturbante che è guardare l’uomo.

Buanne è particolarmente legato, nel senso che gli sembra giusto, dopo tutti i disincanti e le cadute provocati dall’idealismo e dalla retorica del titanismo, riportarsi in questa visione scabra, terrestre, risolta nei minimi termini letterari, nella storia più semplice che si possa inventare per le cose. Preferisce porsi, senza mediazione, vicino, insieme con ciò che dipinge, quindi non esalta e non brutalizza i significati, si limita a guardare e a dipingere con la calma, con la ribollente drammaticità della sua forza La pittura è difesa come precisa fase creativa, in sé solamente verificabile e agente, come arte che non ha necessità di ulteriori ridossi dialettici, e tuttavia li sopporta. Potrebbe sembrare un atteggiamento di superiorità, di purismo. E può esserci anche questa accezione di lettura in Buanne. Più evidente è però la sua preoccupazione di non farsi contaminare, di rimanere mondo dall’appiccicoso esercitarsi delle correnti e dal vizio della deviazione alla moda. La sua diffidenza è in effetti una dimostrazione di fragilità. Forse il pittore ha coscienza delle sue debolezze e preferisce rimanere in se stesso; piuttosto che trovare limiti negli altri approfondisce i propri limiti. E in una terra di giganti e di superuomini è così importante poter scoprire un artista che mostra incertezze e anche qualche timore. L’uomo granitico, del resto, non è un uomo, o per lo meno non si può identifìcare nella storia. Ci conosciamo abbastanza per sapere tutte le angosce quotidiane e i dispiaceri che ci provoca questa costruzione volubile e malata che è la nostra individualità materiale e spirituale, guidata come sull’orlo di un abisso fatto di impotenze, di timidezze, una costruzione sempre sul punto di frantumarsi. In considerazione di questi limiti, di questo assurdo non spiegato, di tante azioni subite anziché fatte subire, Buanne cresce di statura nell’arte contemporanea come figura limpida e utile, come pittore che non dimentica mai la sua dimensione nella realtà e nell’evoluzione storica. C’è un complesso tormento di scoperte nei suoi quadri, un ripassare sulle ombre della realtà, il senso di un’armonia raccolta appena e mai oltre insistita, che mostra quale sia stato il suo procedere di visioni: per Buanne un sobbalzo di luce, è importante, si direbbe esaltante, quanto un terremoto di colori, quanto l’accendersi della passione. Un trasalimento di viola in bruno e di verdi chiari in verdi penombre equivale allo scarto luminoso che c’è dal buio al sole. Il pittore non si permette mai la citazione di un oggetto superfluo né di un appiglio vago, a sé stante. Il soggetto è completamente raccolto in se stesso, compatto e riassunto come in un lampo, in una struttura definitiva. E questo è il risultato artistico di quel processo che si è individuato in Buanne di osservare quelle forme crescenti, quegli organismi mandati a mente e ripetuti come le prime parole imparate nell’infanzia Ciò che è proposto basta a spiegarsi e si contiene, un cielo è cielo sopra la terra e la terra e quella che conosciamo, con in più la poesia scoperta dal pittore.

Buanne non si vuole estraniare dal tradizionalismo ma ne rifiuta il significato celebrativo e mistico per una traccia più scavata nei sensi e nella materialità umana. Dipinge figure e se ne serve per entrare in altri sistemi, cioè nell’incanto sconosciuto o appena lampeggiato della natura ormai schiusa alla cupidigia dello sguardo, ormai divaricata e congiunta con chi la vede; e qui protagonista è l’uomo, ancora, non se lo lascia sfuggire, lo costringe a rivolgersi con più verità alla terra, al senso della maternità terrestre, atavica. In questa storia arrivata all’osso, in questa pagina che copia privilegi innati, è inutile, dannosa anzi, da parte del pittore, la raffinatezza dialettica, la sapienza descrittiva, l’intuito magico: la lezione che teniamo dentro si è rivelata da sola, attraverso la conoscenza e il conseguente rifiuto del dato illustrativo, della stilizzazione, della decorazione e dell’arabesco. Niente cultura come vizio, ma ascolto di quel nucleo centrale che è l’immagine ibrida, informale della conoscenza anteriore alla capacità di giudizio, del dramma che nasce con noi e con noi si risolve. E’ una posizione filosofica ben determinata, che comunque Buanne non formalizza poiché uno dei presupposti della sua pittura è proprio di lasciare lo spettatore quanto mai libero di inventarsi una sua giustezza esistenziale, la propria scansione ritmica. All’accadimento visivo l’artista dà una forma interna, ci lascia solo intravedere una narrazione, non ce la spiega mai. Così i suoi sentimenti affondati nella materia, sono fatti di quella stessa pasta con la quale dipinge la vegetazione, ma qui la forma tenta di affermarsi con un problema diverso di sensibilità, cioè con un vigore plastico che superi quello altrimenti con ferito da Buanne. Nella sua piana spuntano e meglio si gonfiano i suoi segni in un discorso che vuole arrivare a dimostrare lo stesso impalco, la sostanziale uguaglianza tra forma umana e forma della natura, che anzi procede come richiamo dell’umano alla natura. Ed è un tema, in cui Buanne non ha finito di lavorare, ma che chiaramente accenna a questa metamorfosi, a questa intercorrenza, operando sulle soluzioni di base della materia-forma: tenta di uscire in modo più risolto, cioè nella sua pienezza simbolica e fisica, da quel prato carnivoro che lo trattiene e lo condiziona, che vorrebbe mantenerlo nella dimensione di una radice. Infatti Buanne ritrova nella sua natura, che gli palpita come un’idea fissa, è simile a un gonfio lombrico che si allunga o si contrae senza beatitudine, con incoscienza, dietro l’appannata stagione serale, in una terra umida, piovosa, sotto il velo delle ombre che fondono i colori.

Ci sembra lontana da Buanne l’intenzione di offrire questa duplicità di interessi come dilemma di sopravvento tra natura e uomo, piuttosto è una traccia di conciliazione tra le due forze affini, e ancor più, di avvicendamento e di fusione, in margine ai significati riflessi che i due argomenti esprimono. Non è la conciliazione di marca religiosa e tanto meno la separazione dogmatica, quanto la verifica di due potenzialità che hanno la medesima radice fisica, lo stesso periplo di vita e di morte, quasi la stessa consistenza chimica. Contribuiscono splendidamente le materie di Buanne a questo avanzamento parallelo e unitario delle tematiche: l’olio gonfio di pigmenti ha scabrosità a volte taglienti e, altrimenti, si spiana in una larga spatolata piena di quei succhi da qui prende argomento. Il modo di ritmare le superfici non solo nel colore, ma nel linguaggio della materia, cioè nella modulazione degli spessori e degli impasti, dà a Buanne la possibilità di rendere quanto mai sottile e penetrante il suo dipingere, con una relativa povertà di tessitura formale. Così si torna, senza dispersione, alla polpa del corpo della terra, alla meditazione per strade recondite dei fatti intesi come relazione di proprietà organiche e di soluzioni mentali.

orario 9/13 - 17/20, lunedi escluso

Sala Grigia del Palazzetto dell'Arte - Foggia
Via Galliani, 1

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