'Buanne e' particolarmente legato, nel senso che gli sembra giusto, dopo tutti i disincanti e le cadute provocati dall'idealismo e dalla retorica del titanismo, riportarsi in questa visione scabra, terrestre, risolta nei minimi termini letterari, nella storia piu' semplice che si possa inventare per le cose.' (Angelo Calabrese).
presentazione di Angelo Calabrese
Inaugurazione Sabato 11 Ottobre 2003, ore 19,00
Roberto Buanne è abituato, per lunga consuetudine di lavoro, a guardare
l’esistenza senza farsi affascinare o distrarre dai fatti clamorosi, dalle
narrazioni straordinarie della natura o dai particolari della cronaca. Il suo
passo è misurato, diffidente verso ciò che mostra potenza e lucentezza, verso le
cose gonfie di salute o strane. Ad accostarsi alla vita, con le esitazioni e
l’impeto che gli sono propri, con un grande senso di rispetto verso i fenomeni
umani e naturali, s’è accorto di certe imperfezioni, di certi luoghi inconclusi
e brulli che proprio per la loro apparente inefficacia, per la modestia e la
povertà espressiva quasi disarmanti, contenevano tanta più sotterranea poesia di
tutte le luminarie alle facciate dell’estetica. Erano senz’altro da preferirsi
alle esplosioni della fantasia, agli effetti dell’esasperazione dadaista o
surreale, alle deformazioni stilizzatrici o edonistiche, e alla forma goduta
come divinazione classica; elementi, questi, di una cultura cucinata a scopo di
facili proventi artistici e letterari, o di sfilate seducenti in seno a
un’Europa così distratta e preoccupata dai suoi orgasmi politici e sociali, da
lasciar passare per buone anche le più banali, arbitrarie provocazioni del
linguaggio.
Buanne assume ciò che è rimasto della forma dopo la macerazione e lo scambio
della fantasia in concretezza, il suo percorso è dalla struttura ideale,
raffinata, alla visione palpabile da riscontrare in quanto è noto, acceso alla
nostra esperienza dei sensi. Egli è pittore serale, pittore di una stagione
d’autunno cauta nei colori e nelle reazioni della luce: il suo tempo è bruno e
indaco; guarda, nella sua sera irripetibile, le cose che si aggrumano, che nella
loro greve corposità si raccolgono, quasi si confortano, attorno a qualche luce
rimasta accesa e diffusa, fatta di lontani riflessi. Guarda la natura tradotta
in ruvida approssimazione lirica, di un ambiente che risente della passione
umana, di sotterraneo senso tragico, di visioni provocanti: ne risultano forme
lievitate nelle coltri variamente elastiche e sollecitanti, una complessa
asperità di immagini che avverte la lotta tenace verso una materia che non si
arrende facilmente alla sintesi pittorica e che viene proposta ancora vibrante
di questa concentrazione creativa.
E logico, si direbbe fatale, che nell’opera di Buanne avvenga un continuo
acutizzarsi e riaffermarsi di quelle sensazioni, delle definizioni che siamo
soliti riconoscere nella natura, quindi in noi stessi, nel nostro magma emotivo
e passionale nel quale convivono la brutalità , il vizio della prevaricazione e
lo scioglimento sentimentale, le inguaribili tenerezze romantiche: con queste
presenze Buanne dipinge, e sembra che impasti nel calamaio della nostra macchina
mentale i suoi colori vischiosi e molli assieme con le nostre torbide intuizioni
spirituali, le nostre paure della stasi, dell’imperturbabilità , oppure del moto,
del rischio della vita che non ha o non può avere una direzione unica,
invariabile.
Nella nostra storia figurativa, emotiva, di cultura e di tempo, di luogo e di
mito, Buanne provoca migrazioni spontanee di forma in altra forma, di sensi
scoperti in eccitazioni sottese; caricata d’angosce e di cose non dette, la sua
natura, così percorsa e sfiancata, viene assorbita in un’epopea reale che
confina con l’ombra, con l’amorfo, l’incerto e l’indescrivibile, con quel velo di morte che Buanne tiene come sospeso, ma
senza mai farlo cadere sulla sua traccia lirica.
Sul filo di questa tumultuosa, incalzante aritmia della natura legata alla sua
realtà nascosta, alle illusioni reali, alle forme che sono e non sono vere a
seconda del tempo e della luce, a Buanne basta l’intuito, la sensibilitÃ
plastica e la partecipazione ai valori più semplici della poesia per risolvere
il fatto pittorico cercato e trovato, nella rappresentazione (esemplificazione)
elementare dell’essere totale.
Siamo a una svolta morale della pittura. A quando bisogna fare i conti con le
radici dell’uomo. E, in questo caso, morale sta come vicenda che è giunta al suo
filtro, come scelta di fatti e di poetica, e anche come scelta di soggetti, cioé
di luoghi in cui far sopravvivere le possibilità dell’arte: finiti i clamori,
spenti nella dimenticanza i pettegolezzi di salotto, sepolte anche le
massificazioni ideologiche, all’artista non resta che addossarsi le sue
responsabilità morali, appunto — quelle che lo trattengono nella vita e gli
fanno superare l’idea appassionante del suicidio — nei confronti di questa
storia che è chiamato a distinguere, a rendere propria quasi fosse una proposta
nuova. O almeno ad agire come se la nuova storia possa decidersi anche nella sua
opera.
Non conosciamo di Buanne la ripugnanza per la speculazione erudita, per
l’aneddoto fantastico, per le teorie rivoluzionarie: è la sua pittura che ci fa
supporre quanto sia scavata e profonda la zona da cui prende i suoi interessi,
al riparo dai venti, dai cambiamenti di umore della critica o dell’apparato
mercantile. La calma, la lenta e quasi processionale chiusura morfologica di
Buanne, che trasforma la realtà in massiccia poesia della realtà , in intenso
groviglio informale, dà la caratteristica lessicale a un gusto antiletterario e
antionirico, concluso in una cura assidua per l’ambiente dell’uomo, la
sovrabbondanza sensuale e il piacere per la vita che si muove, ma con una
estenuante quiete, nella quale l’artista si ritrova e affonda il suo sguardo,
quasi impotente, così fragile da poter riassumere e ordinare gli elementi
fondamentali solo con una sequenza lentissima.
L’uomo è profilato in un senso di realtà , ma continuamente, ambiguamente
disposto a negarla, questa realtà , a rientrare nel bozzolo delle sensazioni e
dei profumi ignoti, delle forme non viste ma immaginate nei grandi effetti
grafici e geografici della natura. In fondo Buanne reagisce stando lontano, si
fa sentire guardandosi bene dal gridare, ed è il suo silenzio a descrivere la
rinuncia verso le manifestazioni esteriori della produzione culturale. E’ il suo
modo per superare l’estetica ripensando alle matrici prime, misteriose
dell’esistenza, e porsi a riscontro diretto con ciò che è la natura, l’uomo
umano, il motivo della sostanza e della materia, più che del profilo e della
forma: ciò che è grottesco diviene oscuro, ciò che è solenne assume un aspetto
arcano, ciò che sembra curioso diviene viscido e sfuggente. Spesso sembra di
entrare e di affondare nella pittura di Buanne che ci attira e ci trattiene in
un pensiero più assorto, attento a questo affare conturbante che è guardare
l’uomo.
Buanne è particolarmente legato, nel senso che gli sembra giusto, dopo tutti i disincanti e le cadute
provocati dall’idealismo e dalla retorica del titanismo, riportarsi in questa
visione scabra, terrestre, risolta nei minimi termini letterari, nella storia
più semplice che si possa inventare per le cose.
Preferisce porsi, senza mediazione, vicino, insieme con ciò che dipinge, quindi
non esalta e non brutalizza i significati, si limita a guardare e a dipingere
con la calma, con la ribollente drammaticità della sua forza La pittura è difesa
come precisa fase creativa, in sé solamente verificabile e agente, come arte che
non ha necessità di ulteriori ridossi dialettici, e tuttavia li sopporta.
Potrebbe sembrare un atteggiamento di superiorità , di purismo. E può esserci
anche questa accezione di lettura in Buanne. Più evidente è però la sua
preoccupazione di non farsi contaminare, di rimanere mondo dall’appiccicoso
esercitarsi delle correnti e dal vizio della deviazione alla moda.
La sua diffidenza è in effetti una dimostrazione di fragilità . Forse il pittore
ha coscienza delle sue debolezze e preferisce rimanere in se stesso; piuttosto
che trovare limiti negli altri approfondisce i propri limiti. E in una terra di
giganti e di superuomini è così importante poter scoprire un artista che mostra
incertezze e anche qualche timore. L’uomo granitico, del resto, non è un uomo, o
per lo meno non si può identifìcare nella storia. Ci conosciamo abbastanza per
sapere tutte le angosce quotidiane e i dispiaceri che ci provoca questa
costruzione volubile e malata che è la nostra individualità materiale e
spirituale, guidata come sull’orlo di un abisso fatto di impotenze, di
timidezze, una costruzione sempre sul punto di frantumarsi.
In considerazione di questi limiti, di questo assurdo non spiegato, di tante
azioni subite anziché fatte subire, Buanne cresce di statura nell’arte
contemporanea come figura limpida e utile, come pittore che non dimentica mai la
sua dimensione nella realtà e nell’evoluzione storica. C’è un complesso tormento
di scoperte nei suoi quadri, un ripassare sulle ombre della realtà , il senso di
un’armonia raccolta appena e mai oltre insistita, che mostra quale sia stato il
suo procedere di visioni: per Buanne un sobbalzo di luce, è importante, si
direbbe esaltante, quanto un terremoto di colori, quanto l’accendersi della
passione. Un trasalimento di viola in bruno e di verdi chiari in verdi penombre
equivale allo scarto luminoso che c’è dal buio al sole.
Il pittore non si permette mai la citazione di un oggetto superfluo né di un
appiglio vago, a sé stante. Il soggetto è completamente raccolto in se stesso,
compatto e riassunto come in un lampo, in una struttura definitiva. E questo è
il risultato artistico di quel processo che si è individuato in Buanne di
osservare quelle forme crescenti, quegli organismi mandati a mente e ripetuti
come le prime parole imparate nell’infanzia Ciò che è proposto basta a spiegarsi
e si contiene, un cielo è cielo sopra la terra e la terra e quella che
conosciamo, con in più la poesia scoperta dal pittore.
Buanne non si vuole estraniare dal tradizionalismo ma ne rifiuta il significato
celebrativo e mistico per una traccia più scavata nei sensi e nella materialitÃ
umana. Dipinge figure e se ne serve per entrare in altri sistemi, cioè
nell’incanto sconosciuto o appena lampeggiato della natura ormai schiusa alla
cupidigia dello sguardo, ormai divaricata e congiunta con chi la vede; e qui
protagonista è l’uomo, ancora, non se lo lascia sfuggire, lo costringe a
rivolgersi con più verità alla terra, al senso della maternità terrestre,
atavica.
In questa storia arrivata all’osso, in questa pagina che copia privilegi innati,
è inutile, dannosa anzi, da parte del pittore, la raffinatezza dialettica, la
sapienza descrittiva, l’intuito magico: la lezione che teniamo dentro si è
rivelata da sola, attraverso la conoscenza e il conseguente rifiuto del dato
illustrativo, della stilizzazione, della decorazione e dell’arabesco.
Niente cultura come vizio, ma ascolto di quel nucleo centrale che è l’immagine
ibrida, informale della conoscenza anteriore alla capacità di giudizio, del
dramma che nasce con noi e con noi si risolve.
E’ una posizione filosofica ben determinata, che comunque Buanne non formalizza
poiché uno dei presupposti della sua pittura è proprio di lasciare lo spettatore
quanto mai libero di inventarsi una sua giustezza esistenziale, la propria
scansione ritmica. All’accadimento visivo l’artista dà una forma interna, ci
lascia solo intravedere una narrazione, non ce la spiega mai.
Così i suoi sentimenti affondati nella materia, sono fatti di quella stessa
pasta con la quale dipinge la vegetazione, ma qui la forma tenta di affermarsi
con un problema diverso di sensibilità , cioè con un vigore plastico che superi
quello altrimenti con ferito da Buanne. Nella sua piana spuntano e meglio si
gonfiano i suoi segni in un discorso che vuole arrivare a dimostrare lo stesso
impalco, la sostanziale uguaglianza tra forma umana e forma della natura, che
anzi procede come richiamo dell’umano alla natura. Ed è un tema, in cui Buanne
non ha finito di lavorare, ma che chiaramente accenna a questa metamorfosi, a
questa intercorrenza, operando sulle soluzioni di base della materia-forma:
tenta di uscire in modo più risolto, cioè nella sua pienezza simbolica e fisica,
da quel prato carnivoro che lo trattiene e lo condiziona, che vorrebbe
mantenerlo nella dimensione di una radice. Infatti Buanne ritrova nella sua
natura, che gli palpita come un’idea fissa, è simile a un gonfio lombrico che si
allunga o si contrae senza beatitudine, con incoscienza, dietro l’appannata
stagione serale, in una terra umida, piovosa, sotto il velo delle ombre che
fondono i colori.
Ci sembra lontana da Buanne l’intenzione di offrire questa duplicità di
interessi come dilemma di sopravvento tra natura e uomo, piuttosto è una traccia
di conciliazione tra le due forze affini, e ancor più, di avvicendamento e di
fusione, in margine ai significati riflessi che i due argomenti esprimono.
Non è la conciliazione di marca religiosa e tanto meno la separazione dogmatica,
quanto la verifica di due potenzialità che hanno la medesima radice fisica, lo
stesso periplo di vita e di morte, quasi la stessa consistenza chimica.
Contribuiscono splendidamente le materie di Buanne a questo avanzamento
parallelo e unitario delle tematiche: l’olio gonfio di pigmenti ha scabrosità a
volte taglienti e, altrimenti, si spiana in una larga spatolata piena di quei
succhi da qui prende argomento. Il modo di ritmare le superfici non solo nel
colore, ma nel linguaggio della materia, cioè nella modulazione degli spessori e
degli impasti, dà a Buanne la possibilità di rendere quanto mai sottile e
penetrante il suo dipingere, con una relativa povertà di tessitura formale. Così
si torna, senza dispersione, alla polpa del corpo della terra, alla meditazione
per strade recondite dei fatti intesi come relazione di proprietà organiche e di
soluzioni mentali.
orario 9/13 - 17/20, lunedi escluso
Sala Grigia del Palazzetto dell'Arte - Foggia
Via Galliani, 1