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Enzo Gagliardino
dal 19/5/2014 al 19/6/2014
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Franz Paludetto



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19/5/2014

Enzo Gagliardino

Franz Paludetto, Roma

La pittura viene messa al servizio di una visione chiusa del mondo, di un'angoscia esistenziale che non si apre nemmeno lontanamente ad atmosfere malinconiche.


comunicato stampa

La storia pittorica di Enzo Gagliardino è letteralmente racchiusa in luoghi che rendono duplice il significato di protezione dall’esterno e di difesa da possibili intrusioni. Spazi di gruppi e di comunità che agli inizi dell’attività artistica erano sale d’attesa, mense, palestre, ospedali e dopo il 1976 sono diventati i luoghi di detenzione o i letti di contenzione manicomiale, spazi concentrazionari legati alla cultura dell’esclusione e della protezione della società nei confronti dei devianti, di tutti i tipi.

Le architetture degli anni ’80 sono apparse una sorta di liberazione, di apertura verso l’esterno, il paesaggio seppur urbano, periferico, connotato da lunghe sequenze di mattoni condensate in fabbriche e altri non luoghi della produzione e del lavoro.
Questo è l’universo del fobico e ripetitivo del pittore che ha anche trovato incredibilmente degli sprazzi di cieli e di nuvole.

Con guizzo geniale Gagliardino li ha mostrati quasi non direttamente ma in tralice, come emergenze casuali, non volute, oppure come riflessi nei vetri degli edifici industriali. Certamente questi sky line non potevano durare, probabilmente il cielo sarà anche blu e terso, ma da qualche altra parte e per qualche altro osservatore.

Enzo Gagliardino porta all’estrema conseguenza una pittura che è precisa e perfetta senza essere iperrealistica né tantomeno pop. Non vi è un elogio della realtà come siamo distanti dall’esigenza di un realismo che sia descrittivo. I mattoni prendono le intere superfici pittoriche, le finestre sono delle finte aperture sia per la loro tetragona opposizione all’esterno, sia perché diventano solo dei corollari della parte muraria che rimane assoluta, degli elementi di decoro la cui funzione sembra dimenticata.

Non vi sono neppure degli elementi di riferimento, marciapiedi, arredo urbano come si dice volgarmente, qualcosa che ci faccia ritornare all’umanità che si muove attorno. Gli edifici scanditi dal ritmo infinito e indefinito dei piccoli mattoni marroni sono tutto quello che c’è. Le ampie finestre dei ricordi consolatori di un rapporto tra dentro e fuori che può essere solo immaginato e supposto.

Gagliardino affida alla pittura come ha sempre fatto l‘idea che la costruzione logica del mondo sia stata già fatta e a noi non ci resta che guardarne il risultato. E questa volta la pittura non è consolatoria, non porta nulla sul piano della metafora, della simbolizzazione che distanzia l’arte dalla realtà.

La qualità del dipingere viene messa al servizio di una visione chiusa del mondo, di un angoscia esistenziale che non si apre nemmeno lontanamente alle atmosfere malinconiche e alcoliche del “Black Hawk” di Eduard Hopper. I giochi sono fatti e lo sono per sempre, non vi sono altre possibilità, altre aperture. L’unica cosa che possiamo vedere è the wall, con il sospetto che non sia rimasto nulla né prima né oltre.

Il linguaggio asciutto, impietoso, definitivo della pittura di Enzo Gagliardino non vuole aggiungere nulla a quanto sappiamo, né vuole ricamare sull’esistenzialismo come filosofia abbastanza demodé anche se imprescindibile per capire il Novecento appena trascorso. Non siamo alla tragedia, non vi sono drammi in corso se non quello banale del male di esistere. La stessa pratica pittorica lenta, precisa, estenuante, fa capire come l’artista segua una disciplina rigorosa e monacale. La coazione a ripetere è un modo per mettersi in sintonia con quello che dipinge, non vi sono altri universi, non vi sono scorciatoie.

Il muro, l’edificio industriale non è un simbolo legato alla storia alla sociologia, è un assoluto come la scelta del linguaggio da parte di Gagliardino. La coerenza è totale, il rispecchiamento coincidente, fare, vedere, vivere, sono la stessa cosa. Forse anche dipingere è una religione, una liberazione falsamente promessa.

Il mattone diventa l’unità di misura della non felicità, di una condizione invalicabile dello stare al mondo senza alternative. Essere e vivere fuori con la nostalgia dell’interno e stare all’interno sognando il mondo esterno.

Probabilmente una pittura così ossessiva, ha un senso proprio per la sua metodica, per la sua direzione obbligata, continua: ripetersi è un tentativo di perdersi e dimenticarsi. Un modo per cercare di comprendere la condizione umana passa attraverso questa ricerca interiore e vengono in mente altre ricerche analoghe, altre immagini che la letteratura ha reso universali dal deserto di Buzzati allo stato d’assedio di Camus, dal castello di Kafka ai labirinti di Borges. L’impossibilità di trovare delle soluzioni non impedisce di continuare a cercarle, sempre, all’infinito. Non sappiamo dove il muro finisca e neppure da dove abbia avuto origine, sappiamo che esiste ma non il nome di chi l’ha costruito.

“Another brick in the wall” di Valerio Dehò

Inaugurazione: martedì 20 aprile, ore 19

Franz Paludetto
via degli Ausoni 18, Roma
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