Terra cotta. Negli ultimi 2 anni, l'artista e' tornato a plasmare con l'argilla ripercorrendo i sentieri giovanili. A cura di Bruno Cora'.
a cura di Bruno Cora'
Negli ultimi due anni l’esigenza di tornare a plasmare le argille
ha indotto Giuseppe Spagnulo a rinnovare l’impegno nella
scultura ripercorrendo i sentieri originari della sua iniziazione
artistica quando, giovanissimo, nella fornace della bottega del
padre maestro vasaio a Grottaglie in Puglia, elabora le prime
crete, avviandosi lungo un percorso che lo avrebbe poi
condotto a studi più disciplinati all’Istituto della Ceramica di
Faenza, un centro vitale per la sperimentazione sui materiali
ad “alta temperatura”. Trasferitosi a Milano nel 1959 per
frequentare l’Accademia di Brera, collabora con l’amico Nanni
Valentini nella realizzazione di alcune opere di Lucio Fontana.
“È stato Valentini – ricorda Spagnulo – a farmi capire che l’arte
è un’avventura stupenda che va vissuta sino in fondo, a darmi
il senso profondo dell’uso delle terre”.
Nel capoluogo
lombardo, straordinario crocevia di incontri, entra in contatto
con Tancredi e Piero Manzoni, intensificando l’interesse per
l’informale che ispirerà larga parte del suo iniziale percorso.
Dopo l’esordio al Salone Annunciata a Milano nel 1965, dove a opere in grès si affianca una piccola scultura in legno, e
alcune personali tra il 1968 e il 1971, tappe fondamentali di una vicenda espositiva scandita dalla presenza in contesti
di rilievo internazionale sono la sala monografica alla XXXVI Biennale di Venezia nel 1972 e l’invito all’edizione del 1986,
le svariate mostre nei più importanti musei tedeschi: Kunsthalle Bielefeld nel 1978, Nationalgalerie di Berlino e
Kunstverein Braunschweig nel 1981, Städtische Galerie im Lenbachhaus a Monaco di Baviera l’anno dopo, Lehmbruck
Museum a Duisburg e Kunstverein ad Amburgo nel 1985, Württembergischer Kunstverein di Stoccarda e Museum
Ostwall a Dortmund nel 1991. Particolarmente significativa è l’esposizione E se venisse un colpo di vento? curata
da Luca Massimo Barbero alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia nel 2005, che l’anno prima ha accolto nel
Nasher Sculpture Garden l’imponente scultura in acciaio Torri del 1999, di ben cinque metri di altezza.
La Galleria dello Scudo presenta ora la prima personale dell’artista
interamente dedicata alla terracotta per documentare questa
sorprendente nuova fase della scultura di Spagnulo, con la ripresa
esplicita di forme spesso in scala ambientale che dà conto sia
dell’intima necessità di affermare la concretezza e la fisicità del
linguaggio plastico, sia di un bisogno di antica manualità. Le opere
esposte sono la prova della volontà di impegnare il vigore e la forza
per apprezzare nuovamente la percezione del peso e vincere così
l'inerzia della materia: l’artista non modella ma costruisce.
Impastare, plasmare, scavare, rompere, aggiungere, gettare: in
questi lavori si individuano tutti gli infiniti dei verbi connotanti azioni
che sembrano appartenere a un tempo dell’arte irrimediabilmente
perduto e che invece torna ad essere di estrema attualità.
La mostra si apre con Rosa dei venti del 2012, prodigio plastico che
denuncia un impeto delle forze naturali tale da travolgere e
disperdere gli elementi costitutivi del corpo circoare, ridotto così a
inquietante e solitaria rovina annerita dal fuoco.
Le due gigantesche installazioni anch’esse del 2012, Terramoto e
Turris, sono prova, in antitesi con l’orizzontalità dei Paesaggi a
due dimensioni realizzati nel 1976 come superfici a pavimento
composte di argille e mattoni, dell’accentuato sviluppo in verticale
di alcune opere in terracotta di grandi dimensioni del biennio
2012-2014, ostentando ora equilibri apparentemente instabili, quasi in
procinto di rompersi, ora il precario ricomporsi dei frammenti di un
edificio arcaico.
Così Terramoto, pur tradendo l'imminenza di un
sisma interno alla massa investita dall'emotività dello scultore, si
erge in realtà sottraendosi alle leggi della natura tenendo ben saldi
i blocchi variopinti di cui si compone. In Turris l’acquiescenza
della terracotta a ricevere ogni minima impronta offerta dalla
mano dell’artefice, quindi ben altra cosa dalla resistenza e dalla
pesantezza di quel metallo industriale tante volte forgiato, si presta a
un’intenzione figurale che rimanda a forme archetipiche di
immediata riconoscibilità simbolica e di forte presa emozionale.
L’opera, franta e dolorosamente evocativa di tragici eventi della
storia, si ricompone quindi grazie alla mano dello scultore che agisce
con impeto e con rabbiosa aggressione in un drammatico, continuo
confronto con la materia.
La circolarità come esigenza di delimitare lo spazio entro cui si muove
l’artista, ovvero il “paesaggio”, è perentoriamente significata in Fine d’Io
datata 2013: zolle di argilla pressate e assottigliate sono solcate da
impietose fenditure ortogonali che vorrebbero aprirsi a lacerazioni più
profonde se non fossero trattenute dalla dolorosa sutura del filo di ferro.
Ancora, Panorama scheletrico del mondo del 2014, imponente e minacciosa
costruzione inscritta in un cerchio che faticosamente la trattiene quasi a
rasentare la concavità, rimanda allo scontro degli elementi scavati con
prepotenza, in una dialettica insanabile tra forze centrifughe e centripete.
Tornano le ferite, che gli ossidi enfatizzano con superba vigoria cromatica.
Da situazione terrena a condizione dello spirito è il passaggio cui tende
l’artista con Trasfigurazione, un lavoro a parete anch’esso del 2014. La
materia si raggruma, le forme sembrano perdere i connotati, il colore della
terracotta ingobbiata si uniforma, tra opacità e lucori, nel cupo presagio
della morte. Mentre i tre coevi elementi Da “I volti del dio Penn”, ispirati a
una divinità di origine celtico-ligure, rimandano a una numenicità
“naturale”, di sembianze umane impresse nella pietra.
Le sculture sono affiancate da carte dipinte, o meglio “scolpite”, mediante sabbie di origine vulcanica, ossidi di ferro,
carbone, connotate da impeti, pulsioni, scatti pronti a lacerare l'integrità delle superfici violate, perforate, strappate, in cui
appare evidente come l’azione formativa di Spagnulo abbia raggiunto “l'intensità di una liturgia panica e sciamanica”
(Bruno Corà). Nei dittici e nei trittici ora esposti, il senso dinamico della composizione si estende in programmi iconografici
esenti da una figurazione esplicita, ma non per questo meno eloquente né priva di un fortissimo pathos elaborativo. È il
caso di Sacrificale, composto di tre elementi di recente esecuzione: il supporto cartaceo, per l’elevata percentuale di cotone
e la densità degli impasti a base di fibre naturali, resiste all’urto dell’azione pittorico-plastica dell’artista.
Erede di quella plastica che dopo Medardo Rosso ha avuto
interpreti autorevoli in Arturo Martini, Lucio Fontana, Leoncillo
e Fausto Melotti, quella di Spagnulo si afferma oggi come una
delle più efficaci e convincenti lezioni di scultura nel panorama
internazionale. Un pronunciamento che rende emblematica la
sua statura tra le personalità celebrate negli ultimi
quarant’anni, come gli europei Cragg, Gormley e Baselitz, o gli
statunitensi Morris e Serra.
Inaugurazione 13 dicembre alle 19
Galleria dello Scudo
via Scudo di Francia 2, 37121 Verona
orari di apertura lunedì - sabato 10:00 - 19:30