Qualcosa di personale. Senza essere diaristico, il lavoro di Michela Lorenzi e' uno sketch book che raccoglie degli appunti di viaggio attorno al proprio corpo e alla propria mente. Il disegno si affranca dal colore, tranne poche rapide tracce rosse come una lacca o un rossetto.
a cura di Valerio Dehò
Michela Lorenzi: Qualcosa di personale.
Un gioco completamente stupido come il tweester che diventa un vuoto da riempire nell'assoluto domenicale (domenica, maledetta domenica) . Oscillazioni, tante oscillazioni del corpo e dello sguardo, sulla parete impervia della carta a cui il segno si aggrappa per posizioni minimali, ma determinate. Messaggi rigorosamente self oriented, soffici esplorazioni di punti libidici in permanente quanto dolce dondolio.
Senza essere diaristico ( ne abbiamo visti troppi di ombelichi adolescenziali), il lavoro di Michela Lorenzi è uno sketch book che raccoglie degli appunti di viaggio attorno al proprio corpo e alla propria mente. Il disegno si affranca dal colore, tranne poche rapide tracce rosse come una lacca o un rossetto. Ma è un segno che comunque incide una superficie liscia e profonda.
E non abbiamo niente da dire sulla superficialità . E' tutto quello che ci rimane. Gli stessi oggetti che l'artista depone sulle carte, restano incollati alla pagina come se da dipendessero da queste e non potessero mai uscirne. Sono segni prigionieri di un respiro o di un ricordo.
Non vogliono aspirare alla terza dimensione, sono idee e vivono la perversione che oscilla tra il desiderio e il ragionamento. Ragionamento sul nulla cioè sui simulacri delle cose che non sono le cose ma sono meglio. Oggetti, come per gioco e come per incanto fino al momento in cui ogni dissolvenza porta ad una non conclusione.
Ma sono anche storie, che hanno una senso nel loro essere innocenti passatempi per adulti che hanno giocato o stanno per giocare. Il gioco simula la vita ma ormai si è sostituito completamente ad essa. Se i corpi femminili assomigliano all'archetipo contemporaneo della Barbie è perché i modelli si sostituiscono alle cose, la virtualità ala realtà . Distinguere tra le due è sempre più difficile e stiamo imparando a farne a meno.
La realtà non è nemmeno necessaria, non più del suo contrario. Se il centro è l'ombellico dell'artista, allora tutto il baricentro del lavoro si appoggia nel suo centro, cioè nel vuoto. Però l'ombellico è anche l'origine della vita, senza una necessità biologica sempre più improbabile, ma è un luogo di nostalgie e di attese per chi alla vita vuole sempre e comunque ritornare.
Punti di passaggio, forse anche di transizioni. La leggerezza è una dote di queste opere. Non vogliono essere, si accontentano di apparire quello che sono. Sono opere allo specchio. Ci stanno tanto davanti che alla fine vi passano attraverso. E' come se la superficie se ne impegnasse. E di là dello specchio quale mondo di meraviglie ci aspetta? Sarà diverso da quello che abbiamo desiderato o ne sarà un riflesso oscuro?
E se il disegno dice sempre la verità , tanto vale rassegnarsi alle sue bugie che sono le nostre verità . Quello che vediamo esiste realmente perché la realtà è inconoscibile se non in modo indiretto. Abbiamo imparato a conoscere attraverso le immagini, la verità delle cose e del mondo è sempre nascosta da uno specchio o da un sentimento.
Michela è quindi Alice: i suoi disegni sono lo specchio attraverso cui dobbiamo passare per giungere ad una realtà che ci appartiene perché è la nostra. Quello che accade o che è in procinto di accadere esiste là dove si posa il nostro sguardo cioè il nostro desiderio. Sfogliamo i disegni come le pagine di un libro che non comincia e non finisce. Storie di una storia che continuerà finché l'artista deciderà di raccontarla dall'inizio, da uno qualunque dei suoi inizi.
Valerio Dehò
D406 ARTE CONTEMPORANEA
Via Cardinal Morone 31/33, Modena
16 aprile - 11 maggio 2004