Il mondo della bellezza trasparente. I dipinti di Giunta sono composti da una pittura tenue, evanescente e impalpabile. Segni leggeri e vibranti si dispiegano su carte di riso trasparenti e sete iridescenti, formando complesse microvariazioni.
Il mondo della bellezza trasparente
A cura di Alessandro Riva, Chiara Canali e Siva
”Il mondo della bellezza trasparente”: nelle opere di Daniele Giunta in mostra alla Galleria Bianca Maria Rizzi, un misterioso mondo di visioni, di miraggi, di favole nere, bizzarre ed enigmatiche, storie leggere e appena accennate.
Compaiono su supporti leggeri e cangianti giovani donne dall’aspetto fragile e adolescenziale, oltre a paesaggi oscuri animati da misteriosi spettri.
Il lavoro dell’artista è caratterizzato dalla compresenza, da un lato, dell’osmosi con l’ambiente circostante, di chiara derivazione orientale, e dall’altro lato della fiducia nell’immagine mentale, definita e lineare, come nella tradizione occidentale.
I dipinti di Giunta sono composti da una pittura tenue, evanescente e impalpabile.
Segni leggeri e vibranti si dispiegano su carte di riso trasparenti e sete iridescenti, formando complesse microvariazioni.
Daniele Giunta, nato ad Arona (NO) nel 1981, vive e lavora a Milano. Negli ultimi due anni ha esposto in numerose collettive e personali in tutta Italia.
Leggerezza della trasparenza
di Chiara Canali
Il linguaggio artistico di Daniele Giunta sembra obbedire in tutto e per tutto al concetto di “leggerezza” che Calvino sviluppa magistralmente all’interno delle Lezioni americane. Tre sono le accezioni di leggerezza esemplificate nello scritto: la prima è un alleggerimento del linguaggio che convoglia i significati su un tessuto verbale senza peso; la seconda riguarda la narrazione di un ragionamento o di un processo psicologico in cui agiscono elementi sottili e impercettibili, o qualunque descrizione che comporti un alto grado di astrazione; la terza invece si riferisce a un’immagine figurale di leggerezza che assume un valore emblematico.
Queste tre accezioni, che possiamo riassumere in tre livelli, formale, contenutistico e simbolico, influenzano i punti chiave del lavoro di Giunta. Innanzitutto appare la levità dei materiali utilizzati, dalla carta di riso alle scatole di seta, dall’inchiostro di china alle sfumature ad acquerello, che caratterizzano una pittura tenue, evanescente e impalpabile, in equilibrio tra la trasparenza delle forme e la leggerezza delle sostanze.
In secondo luogo l’ambivalenza della figurazione non consente di dare una definizione univoca e salda alla rappresentazione, ammettendo la possibilità di una miriade di letture e di significati che accrescono il senso di instabilità e di astrazione. I paesaggi di Giunta possono essere delle scene notturne, dark e gotiche, infestate dai “distruttori segreti” (gli infedeli) che risucchiano le energie dei protagonisti, oppure sono territori neutrali, trasparenti ed eterei, spirituali e trascendenti, abitati da immagini luminose, da “Regine di Luce” alla ricerca della pienezza della loro natura. Le figure femminili di Giunta sono portatrici di un’ambivalenza interiore che le rende fragili ma taglienti come cristalli di neve, gracili nel fisico ma forti mentalmente come eroine giapponesi.
L’arte orientale è infatti stimolo all’operare dell’artista sia per quanto riguarda alcuni principi esistenziali su cui si uniforma il suo pensiero, sia per l’utilizzo di caratteri formali all’interno della composizione delle tele. Nell’arte giapponese mancava il concetto di prospettiva occidentale: primo piano e sfondo erano schematicamente separati e disposti verticalmente l’uno sull’altro senza in alcun modo concedere la fuga del colpo d’occhio. La scansione delle parti, con la sovrapposizione continua degli elementi, permetteva di nascondere la profondità del paesaggio, per distogliere qualsiasi idea destabilizzante di infinità. Come nell’espressione artistica giapponese, così nelle opere di Giunta le figure si giustappongono al paesaggio senza amalgamarsi, suggerendo una forma di immedesimazione alla realtà delle cose per osmosi, attraverso lenti passaggi di materia ed energia secondo i canoni della filosofia orientale.
Il lavoro di Giunta, benché abbia come punto di partenza sembianze della vita adolescenziale contemporanea (per es. l’icona di Kate Moss), astratte dal contesto e rese diafane e traslucide, intende ragionare sulle leggi invisibili che muovono le idee, sulle forze misteriose che spostano gli eventi. Per questa ragione i risultati a cui perviene sono molto simili agli aspetti tramandati dal simbolismo ottocentesco, e questo ci permette di introdurre il terzo livello della leggerezza di Calvino, riguardo al valore emblematico delle immagini.
Il simbolo, per evocare la definizione del poeta Jean Moreas, autore del Manifesto letterario del Simbolismo, è elemento rivelatore, testimonianza visibile di un’essenza segreta, nei confronti della quale è necessario procedere per allusioni e analogie. Secondo il principio della trasposizione, l’immagine non significa più soltanto ciò che rappresenta, ma richiama alla mente significati altri e spesso indecifrabili. Nel simbolismo si afferma un’ideologia e una condizione di gusto per cui la vera realtà non sta nell’essenza oggettiva delle cose, ma risiede nel mondo platonico delle idee.
Ultimo discendente post tempus della stirpe dei simbolisti, Daniele Giunta si colloca in quel filone di artisti malinconici e solitari, che fondano la propria arte sulla contemplazione visionaria e sulla preminenza della vita interiore, sulla percezione delle zone “d’ombra” e dei sogni rivelatori.
Benché tralasci approfondimenti di tipo religioso e mitologico, la ricerca di Giunta si relaziona all’esperienza del simbolismo soprattutto sul piano dell’espressione: rifiuta la retorica del realismo e sceglie i valori della grafia e della nitidezza del disegno, predilige sensazioni materiche raffinate e preziose e opta per pigmentazioni inedite e inconsuete.
L’algida idealizzazione di un artista simbolista quale Fernand Khnopff è trasferita con singolarità nelle adolescenziali figure di Giunta: icone verginali, immagini evanescenti e lontane, queste fanciulle appaiono come vasi chiusi, ripiegati su se stessi, simbolo di incomunicabilità. Anche la barriera brillante e trasparente di fiori arii, che circonda e racchiude le sagoma delle ragazze, oltre che allusione ai Fiori del Male di Charles Baudelaire, diventa sinonimo di impenetrabilità.
Un nuovo rapporto si instaura tra natura e individuo, un nuovo equilibrio, indecifrabile per chi non è ammesso a partecipare a questa foresta di simboli: le figure di Giunta aspirano a raggiungere un’unità integrale con la natura, che comprenda ciò che è nelle cose e ciò che sta al di là delle cose, e che può essere realizzata solo attraverso una specie di osmosi tra universo e uomo, secondo un principio già mutuato dalla filosofia orientale. Un’osmosi che si attua nelle forme di una leggerezza espressiva, una leggerezza della pensosità, come dice Calvino, una leggerezza come reazione al peso di vivere che trasforma l’arte in oggetto irraggiungibile di una quête senza fine.
Di Alessandro Riva
C’è un passo, in un’intervista rilasciata da Daniele Giunta in occasione della sua partecipazione al Premio Italian Factory per la giovane pittura italiana, che è illuminante per comprendere la poetica dell’artista, e i retaggi culturali presenti sotto traccia lungo le esilissime e diafane linee della sua pittura. Alla domanda su quali siano le sue letture preferite, Giunta risponde con un lungo elenco che comprende - cito testualmente – “l’oroscopo e le riviste d’arte, i saggi, le favole, le favole nere. La poesia. I Visionari dell’800 e del ‘900. Gli haiku e la letteratura giapponese: Soseki, Tanizaki, Kawabata, Murakami. Il Vecchio Testamento, dove ho trovato che versi di rapimento, estasi e amore possono contenere sentimenti apparentemente opposti - odio, vendetta, crudeltà - che non si escludono a vicenda”. Credo che in questo lungo elenco, solo apparentemente caotico e discordante, si celi il centro nevralgico, il cuore oscuro e segreto dell’ispirazione primaria dell’artista; e che già nel fatto che esso ci si riveli nella risposta a questa domanda, relativa alle sue letture – apparentemente secondaria nella poetica di un artista visivo - e non, invece, come sarebbe forse potuto sembrare più logico, in quella relativa alla domanda sui suoi debiti artistici e visivi, sia da ricercarsi il senso ultimo del lavoro di un artista che è innanzitutto, prima ancora che pittore, un poeta, uno di quei poeti visionari e fuori dalle regole che capita a volte di trovare, lungo il percorso delle arti visive, generalmente isolati e malcompresi, o per lo meno non sempre e del tutto compresi, dai loro colleghi la cui ispirazione, e il cui primario interesse, risiede invece tutto interamente nel solco dei differenti linguaggi visuali e nei segreti, nei trucchi, nell’impiego di quel medium specifico che è, per l’appunto, il linguaggio pittorico. La pittura è invece, per Daniele Giunta, io credo, puro strumento intellettuale, un grimaldello, un giuoco di prestigio, come lo è la lingua per taluni poeti, da poter usare e disfare a piacimento, da tenere a volte diluita, esile, leggera come un refolo di vento a primavera, altre volte più sedimentata e corposa, mescolata, quand’è necessario, a pigmenti, foglie d’oro, inserti d’altri materiali che ne impreziosiscano la trama, ma sempre, comunque, strumento quasi magico, di pura suggestione, che ci permette di penetrare appena, e di sfuggita, in un altrove, in un universo a noi disconosciuto, come quando s’apre la fessura d’una porta socchiusa a malapena verso un misterioso mondo di visioni, di suggestioni, di miraggi, di favole bizzarre ed enigmatiche, di storie leggere e appena accennate di cui non comprendiamo che la sagoma, come l’eco di remotissime leggende che ci risuonano, vaghe e suggestive, nella memoria. Quelle di Giunta sono, per l’appunto, favole, favole nere quasi sempre, come ci suggerisce lo stesso artista sottolineando la sua preferenza per questo strano genere oggi assai poco frequentato, oltre che con i soggetti e spesso i titoli delle sue stesse opere, che lascian pensare, istintivamente, a qualche bizzarra storia di fantasmi, di ragazze condannate a un tragico destino, di omicidi, forse, e di arcaici giochi di seduzione e di fantasie contorte, di frequentazioni ambigue, al limite del morboso, con qualche oscura zona dell’inconscio, poi di ambientazioni magiche e stregonesche – montagne nere e paesaggi segnati dall’oscurità, notturni della mente e della fantasia, dove il termine “notturno”, evocato dall’artista in qualche titolo e nell’evidente vocazione al buio, al nero, all´oscurità come metafora letteraria e psicologica, delinea una chiara linea di preferenza e di vicinanza tutta letteraria, d’accezione preromantica, evocata da poeti e narratori quale linea di demarcazione d’un secolo, l’Ottocento (quella “fraternità musicale con la notte e con la morte”, per dirla con Thomas Mann, quale “nota preponderante sopra tutte le altre del secolo decimonono”), che è stato non a caso l’ultimo secolo in cui era ancora possibile sognare – sognare favole e storie nere, anche -, giacché, dopo di questo, c’è stato il disastro reale, quella catastrofe sociale, politica ed estetica del Novecento, dove al sogno dell’oscurità si è sostituita la tragedia reale delle guerre senza fine, della violenza diffusa, delle dittature, del trionfo e poi della caduta delle ideologie, della definitiva perdita dell’innocenza per l’Occidente intero. Daniele Giunta, non a caso, ha deciso invece di invertire la marcia, di tornare indietro, agli albori del secolo della Notte, dei poeti preromantici e del trionfo dell’immaginazione, al secolo della scoperta dell’inconscio, della notte interiore e psicologica, della scoperta di quell’altro sguardo, lo sguardo interiore (l’occhio dello spirito, come lo chiamava Friedrich) contro lo sguardo convenzionale della realtà fisica ed esteriore - quello sguardo che porta a far emergere un’altra realtà rispetto a quella che siamo abituati a vedere tutti i giorni, una realtà “notturna” appunto, inconscia, venata di misticismo, di drammatico, di oscuro, di demoniaco, e d’innocenza anche, d’infantile desiderio di tornare a una purezza originaria che oggi siamo andati fatalmente perdendo, e di cui abbiamo, invece, estrema e drammatica necessità, per ritrovar noi stessi. Ecco allora, che ritornano, e prendon senso veramente, quelle preferenze di Giunta per “i visionari dell’800 e del ‘900” (con quel termine, “visionari”, citato non a caso da un artista che si riallaccia idealmente al filone degli artisti maledetti, quelli che Briganti definì, con termine felice, i “pittori dell’immaginario”, o della Notte), e poi per “i versi di rapimento, estasi e amore” ma anche per i sentimenti a loro apparentemente opposti: “odio, vendetta, crudeltà”, “che non si escludono a vicenda”; e per tutta la cinematografia che a questa sensibilità e a questo immaginario è fatalmente collegata (il cinema noir. Bergmann, Greenaway, Kitano. Ferro3, La Pianista, Intervista col Vampiro); e poi per tutta la cultura e la letteratura giapponese, da cui Giunta è, con ogni evidenza, sedotto dal punto di vista culturale ma anche visivo, con la sua preferenza per l’adolescenza come stato di passaggio, e per una delicatezza di segno, di supporto (carte di riso, veline, strani mixaggi di pigmenti e di segni appena accennati sulla carta, che rimandano alla storia della cultura visiva orientale), che di questa delicatezza, di questa palese fragilità sono un chiaro indizio, non solo visivo, ma anche psicologico e fortemente metaforico. Non a caso, tra le letture di Giunta (sulle quali in passato ha impostato un ciclo di lavori) c’è anche il libro preferito da tutti gli adoratori di quel misteriosissimo stato di grazia che è il punto di passaggio tra infanzia e adolescenza, l’Alice nel Paese delle meraviglie del Reverendo Dogson, che è da sempre la Bibbia di chi è rimasto fatalmente imprigionato, seppure contro la propria volontà, dall’infanzia e dall’adolescenza come stato metaforico, e che in quell’idea di passaggio tra un’età e l’altra ha voluto vedere un’apertura, una fessura appunto, una sorta di ponte verso un altro mondo, un’altra dimensione, fatalmente magica, che è la stessa ricercata dai grandi poeti visionari, e dichiaratamente vagheggiata qua e là dallo stesso Giunta (“Dove trai ispirazione per le tue opere?”. “Sotto l’acqua”. “Perché dipingi?”. Per non affogare”). Ecco allora che anche Giunta, infine, come Alice, è passato attraverso una porta, un passaggio metaforico – acqua o specchio, fa lo stesso, c’è comunque l’idea di un passaggio tra uno stato d’esistenza e l’altro - e forse vi rimarrà per sempre, e per sempre con quella sensibilità fragile e un po’ malata di tutti i ragazzi non cresciuti (e noi con lui, per un istante almeno, guardando i suoi quadri), anche contro ogni evidenza e ogni raziocinio. Così anche noi, come Alice, potremo guardare, grazie a Giunta, per qualche istante la realtà esteriore con altri occhi, da un’altra dimensione, attraverso il diaframma magico, ma sottilissimo, d’una parete d’acqua o d’uno specchio; e anche noi, come Alice, guarderemo il fuoco nel caminetto, nella stanza dell’immaginazione, e come lei saremo felici di vedere che anche qui ce n’è uno, fiammeggiante e allegro come quello che avevamo appena lasciato: “Così, starò al calduccio anche qui come nell’altra stanza - pensò Alice – e anche meglio, veramente. Perché non ci sarà nessuno qui a mandarmi via dal fuoco. Che divertimento sarà, quando mi vedranno attraverso lo specchio e non potranno toccarmi!”
Sulla bellezza
di Siva
Il lavoro di Daniele Giunta è il risultato di una particolare e personale visione delle cose, di una filosofia che ricerca di completezza derivante dalla compresenza, da un lato, dell’osmosi con l’ambiente circostante, di chiara derivazione orientale, e dall’altro lato della fiducia nell’immagine mentale, definita e lineare, come nella tradizione occidentale.
Il lavoro di Giunta è essenzialmente finalizzato alla bellezza, all’armonia di elementi che sembrano comparire e scomparire ritmicamente in un flusso continuo, come nel respiro.
Tutto è leggerezza vibrante.
Giunta non rappresenta le cose solo nella loro apparenza, ma anche e soprattutto nelle loro potenzialità. Nella figura, nel paesaggio o nell’oggetto rappresentato s’intuiscono le possibilità di trasformazione che gli sono latenti.
Si tratta di un lavoro distante dall’atteggiamento artigianale fine a se stesso che porta molti artisti, ahimé anche giovani, a realizzare opere sovrapponendo grossi strati di colore putrescente, dai toni marrone sporco, opere vecchie, brutte e pesanti, che nulla hanno a che fare con la tradizione, cui si vorrebbero rifare. La tradizione invece ha sempre creato bellezza, anche nel rinnovamento.
L’arte di Giunta, e l’arte della bellezza in generale, non si presta all’analisi sociologica, o peggio all’emersione del negativo della società (in questo sono bravissimi gli artisti del vecchio, brutto, pesante), ma si mantiene indipendente dalla realtà contingente, distante dal vivere quotidiano.
Si tratta di un’arte che rivendica il diritto all’immaginazione, alla fantasticheria, al piacere estetico.
La tecnica di Giunta è sofisticata, richiede tempi di lavorazione lunghi. L’uso della carta di riso, esaltandone le qualità di trasparenza, e l’estrema cura dei particolari rendono i dipinti leggeri nel vibrare dei segni e delle campiture, e nello stesso tempo complessi nelle microvariazioni (che si possono apprezzare solo dopo un’attenta osservazione delle opere).
Negli ultimi lavori la carta di riso è stata sostituita dalla seta bianca, che con le sue iridescenze cangianti esalta ancora di più la mutevolezza dei soggetti rappresentati, ne rende possibile la perpetua mutazione sotto l’azione della luce.
Direi che grazie alla seta i soggetti di Giunta ottengono ciò che vogliono… confondersi, azzerarsi nella luce, che è completezza.
Tale rifiuto di ogni definizione, di ogni delimitazione definitiva, in fondo è perfettamente nello spirito della nostra epoca, che rifugge ogni schieramento ed ideologia, a favore invece dell’evasione leggera e della libertà nella contraddizione (oggi più che mai la contraddizione è vista in positivo, mentre le prese di posizione nette appartengono più ad altre epoche, che per fortuna ci siamo lasciati alle spalle).
La superficie dei lavori è sempre liscia, non c’è mai un’esagerazione nell’uso della materia.
E’ una pittura d’estrema eleganza che non scade mai nell’eccesso.
In molti dipinti di Giunta vediamo figure femminili, fugaci come spettri, che riprendono un archetipo della donna idealizzata, impalpabile, bianca e leggera, irraggiungibile, semidivina, come le donne amate dai Trovatori nella letteratura cortese.
In altri suoi dipinti vediamo delle stanze o dei paesaggi (molto indefiniti), meno legati ad una meta esterna (seppur irraggiungibile) ma più introspettivi, spiragli aperti nell’interiorità dell’artista.
Rêverie – Sogno o realtà?
Nella mostra Il mondo della bellezza trasparente l’artista presenta i personaggi di un mondo fantastico, dove riaffiorano gli archetipi dei personaggi delle fiabe.
Ecco quindi i Distruttori segreti, spettri dall’azione prettamente negativa, che agiscono nell’oscurità; poi le Knife Play e le Knife Faith, che nonostante l’apparenza innocua ed angelica nascondono un pugnale rosso, con il quale combattono le forze del male; infine, la Regina di luce, che non teme le forze del male, in virtù della sua completezza assoluta.
Ma esiste davvero un confine tra sogno e realtà?
Vi assicuro che tutti questi personaggi esistono davvero, le Knife Faith possono essere le eleganti signore che passeggiano in Via Montenapoleone, dagli occhi affilati come la lama di un pugnale, gli occhi dei Distruttori segreti sono le luci dei lampioni dei Giardini Pubblici di notte (soprattutto quelli nei pressi del laghetto abitato da enormi pesci) e la Regina di luce può essere qualunque persona ci dia una sensazione di estremo piacere, di serenità.
Non c’è distinzione tra sogno e realtà negli occhi di chi ha lo sguardo libero dalle convenzioni sociali, che ci fanno vedere le cose non per quello che sono (cioè segni, linee, colori, luce, ecc…) ma solo per la loro funzione riconosciuta dalla massa.
Sta emergendo un gruppo di giovani artisti, tra i quali c’è Giunta, che dopo tutta la noia e le brutture degli ultimi decenni sta rivalutando il bello, il piacere, il sogno ad occhi aperti, la creazione attraverso il sonnambulismo, la libertà di utilizzare qualunque immagine (di qualunque tipo, epoca e luogo) per creare un proprio alfabeto libero dalle convenzioni.
Sono questi gli artisti che stanno portando una vera evoluzione nell’arte contemporanea, una ventata fresca.
In questi giovani c’è entusiasmo e saranno loro a dominare la scena artistica del futuro.
La bellezza velata
Perché la bellezza è più potente quando è velata?
Sicuramente perché il mistero è alleato della bellezza.
Quando qualcosa è nascosto, lontano, irraggiungibile, velato, indefinito, sicuramente stimola la fantasticheria, appaga i desideri più di ciò che è contingente; ci riversiamo i nostri sogni e le nostre utopie.
L’oggetto indefinito diventa nostro, prende la forma che vogliamo… diventa il nostro oggetto del desiderio.
E cosa c’è di più bello dell’oggetto del desiderio (che mantiene vive le nostre erezioni, sia fisiche che intellettuali, nella nostra epoca di appiattimento estetico?!).
In tal senso, sono esemplari i lavori in cui Giunta utilizza l’immagine di Kate Moss, già oggetto del desiderio nell’immaginario collettivo, aumentandone le potenzialità, anzi svelandone quelle latenti nella sua natura, definendola solo in alcuni punti, in altri sciogliendola nell’ambiente circostante (a volte paesaggio, altre volte interno, altre volte ricami di fantastiche decorazioni, come portali verso altre dimensioni), ma soprattutto rendendola vibrante come la luce di una candela… come le suore di clausura che ho visto dieci anni fa!
Viaggio iniziatico PARTE I
Anni fa, ne saranno passati una decina, entrai in una chiesa in cui non ero mai entrato, incuriosito dall’edificio austero.
Non sapevo che la chiesa in cui ero entrato fosse solo una piccola navata laterale collegata ad uno spazio più grande, riservato alle suore di clausura di un monastero annesso.
Mi trovavo quindi nello spazio riservato ai fedeli, dal quale si poteva solo intravedere lo spazio delle suore, tanto lontane da sembrare tanti piccoli punti bianchi su fondo nero, tremanti come le luci delle candele che mi stavano attorno.
L’illuminazione era affidata esclusivamente alle candele.
Non distinguevo più suore e candele.
Sentivo il canto celestiale delle suore-candele (che mi sembravano più di mille), il suono più bello che abbia mai sentito; ad oggi non ho sentito mai nulla di simile.
Il mistero crea suoni belli.
Viaggio iniziatico PARTE II
E’ notte.
Davide Coltro mi porta a bere una birra all’autogrill.
Il viaggio in tangenziale di notte ci piace, immaginiamo foreste fantastiche e paesi con i colori dell’arcobaleno.
In quell’ oscurità.
Viaggio iniziatico PARTE III
E’ notte fonda.
Daniele deve andare ad Arona, paese dove è nato, e mi chiede se voglio accompagnarlo, così la notte successiva mi porterà ad Orta S. Giulio, sul lago d’Orta, che non avevo ancora mai visto.
Partiamo con le strade deserte; non abbiamo dormito, quindi la stanchezza ci rende rilassati: tutto si unisce in un unicum spazio-tempo.
La luce gradualmente prende il posto della totale oscurità.
La luce comincia a rivelare le cose, che sono ancora indefinite, stanno rinascendo…
E’ questa la luce preferita da Daniele, la più vicina al suo lavoro ed alla sua sensibilità.
Dal finestrino dell’automobile vedo i suoi lavori meno figurativi: foreste che si arroccano su montagne, sentieri fantastici, ambienti umidi.
Ora quei lavori acquistano nella mia mente una forma nuova, li vedo legati a questo ambiente, tra il Piemonte e la Lombardia, che è l’ambiente della sua infanzia e della sua interiorità.
Arriviamo ad Arona, sul lago Maggiore, quando la luce è ormai troppa per noi.
Viaggio iniziatico PARTE IV
La notte successiva siamo ad Orta S. Giulio.
Daniele mi indica l’isola di S. Giulio, nel mezzo del lago, dove risiedono delle suore di clausura.
Daniele mi dice che è dalla sua infanzia che è affascinato dall’isola, suo personale simulacro del mistero.
Fantastichiamo sulle suore di clausura ed in particolare sulla badessa che, ci scommetterei, è bella come Kate Moss.
Immagine: Distruttori segreti. 100x100. Inchiostro e matita su seta 2007
Inaugurazione mercoledì 7 febbraio 2007 ore 18.00
Galleria Bianca Maria Rizzi
Via Molino delle Armi, 3 20123 Milano
Orari: martedi' - sabato 15.00/19.30, lunedì e al mattino su appuntamento