Maneralight. Dopo una breve parentesi dedicata alla scultura, l'artista nel 1977 incomincia a sperimentare l'applicazione della fonte luminosa artificiale nei suoi lavori. Catalogo a cura di Maurizio Sciaccaluga.
Maneralight
Dopo una breve ma positiva parentesi dedicata alla scultura, Enrico Manera nel 1977 incomincia a sperimentare l’applicazione della fonte luminosa artificiale nei suoi lavori. Il suo studio, pieno di materiale elettrico, nel quartiere storico di Trastevere a Roma, diventa un luogo di incontro tra artisti e addetti ai lavori; sarà anche usato da Tano Festa, a cui Manera è legato da una salda e bella amicizia, come fissa dimora per alcuni mesi. Le prime applicazioni luminose nascono in concomitanza ai lavori scultorei; lo spunto è tratto da alcuni temi che il Puma aveva sviluppato negli anni sessanta.
La staticità monocromatica del giallo, dell’arancione, del verde e del rosso intervallata da accenni e abbozzi di linee quasi a voler indicare in nuce la ricerca di nuove strutture diventano in Manera la base per esplorare nuovi orizzonti: il Monocromo a led luminosi dinamicizza quell’azzeramento ideato da Schifano con una vivacità che oltrepassa la semplice volontà di meccanicizzazione luminosa del colore. L’uso della puntinatura elettronica nel Monocromo Rosso (1977) viene movimentato da imput che impongono segni primordiali e disegni infantili come cuori, quadrati e cerchi. L’idea dell’utilizzo della luce è recuperato attraverso l’impiego dei neon come già avevano sperimentato nelle loro opere artisti come Mario Merz in Italia e Dan Flavin in America; la loro idea di luce è totalmente differente da quella di Manera che risulta essere più incline a quella di Hollywood; nelle sue opere non si scoprono fredde indicazioni concettuali, la scelta del neon sottolinea un’inclinazione coerente al mondo della comunicazione e alla società.
È l’anno in cui nascono opere fondamentali quali il Transfert (1978) e la testa meccanica dedicata a Mario Schifano (1979) in cui l’artista era presentato con un’enorme cervello luminoso. Nelle sue opere è sempre presente l’ironia anche quando i temi si fanno sempre più scottanti e riflessivi; il riferimento corre verso opere come Hitler che lacrima sangue (1981) in cui il dittatore nazista, ritratto in primissimo piano, è rappresentato in una veste quasi mistico-religiosa (riproposto ultimamente con un grande neon che recupera il titolo di un film di Carpenter “A volte ritornano”). Oggi, a distanza di anni il lavoro di Enrico Manera assume i caratteri classici di una carriera compatta, se pur ricca di avvenimenti particolari, dalla ineccepibile linearità poetica e programmatica.
I suoi lavori esprimono l’idea di un work in progress costante, di un continuo girovagare all’interno di una struttura che percepisce solo sovrastrutture ridondanti e pericolose sempre pronto a far emergere quello che di contraddittorio in essa si sviluppa e si consuma. Enrico Manera ama spingersi al di là dei canoni prestabiliti con una semplicità disarmante e allarmante, come se avesse sempre un piede in avanti pronto per occupare ancora una volta territori inesplorati e quel futuro più prossimo che ultimamente gli risulta essere molto familiare.
Catalogo a cura di Maurizio Sciaccaluga con una intervista di Duccio Trombadori
Inaugurazione: 24 febbraio 2007
GAM Faenza
via Maestri del Lavoro, 1 - Faenza