Museo di Castelvecchio
Verona
corso Castelvecchio, 2
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Collezioni restituite
dal 14/8/2001 al 30/9/2001

Segnalato da

Studio Esseci




 
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14/8/2001

Collezioni restituite

Museo di Castelvecchio, Verona

In corso dal 7 aprile. "A ripercorrere, seppur rapidamente, la genesi ottocentesca del Museo Civico, anche per Verona emerge chiaramente il ruolo non marginale che vi ebbero le collezioni dei privati. Simile affermazione non puo' tuttavia, almeno in una prima fase, essere interpretata in senso quantitativo, ma piuttosto come indicazione di una tendenza destinata ad accentuarsi e a divenire determinante dopo la metà del secolo. Infatti, le prime opere conferite alla nascente istituzione furono i dipinti di antica proprieta' comunale, subito seguiti da 197 quadri e stampe, tra i quasi 7000 di proprietà religiosa demaniati, che fu possibile sottrarre alle asportazioni francesi e austriache e alla vendita. Accanto ad essi presto si segnalano le donazioni di marmi e oggetti antichi di Silvio Fedele Fontana (1821), di medaglie napoleoniche di Gomberto Giusti (1827) e quelle di Santi Fontana (1837) e di Giuseppe Venturi (1841)." (Paola Marini).


comunicato stampa


A ripercorrere, seppur rapidamente, la genesi ottocentesca del Museo Civico, anche per Verona emerge chiaramente il ruolo non marginale che vi ebbero le collezioni dei privati. Simile affermazione non può tuttavia, almeno in una prima fase, essere interpretata in senso quantitativo, ma piuttosto come indicazione di una tendenza destinata ad accentuarsi e a divenire determinante dopo la metà del secolo. Infatti, le prime opere conferite alla nascente istituzione furono i dipinti di antica proprietà comunale, subito seguiti da 197 quadri e stampe, tra i quasi 7000 di proprietà religiosa demaniati, che fu possibile sottrarre alle asportazioni francesi e austriache e alla vendita. Accanto ad essi presto si segnalano le donazioni di marmi e oggetti antichi di Silvio Fedele Fontana (1821), di medaglie napoleoniche di Gomberto Giusti (1827) e quelle di Santi Fontana (1837) e di Giuseppe Venturi (1841).

Mentre la Pinacoteca viene inaugurata nel 1827 nelle sale della Loggia del Consiglio in piazza dei Signori, gli altri materiali trovano collocazione presso la Biblioteca Civica a San Sebastiano, istituita nel 1792 è aperta al pubblico nel 1802.

Le successive accessioni - tra cui la collezione archeologica Verità, acquistata nel 1842, i dipinti donati nel 1838 dalla Società Filarmonica, la statua dell’Arringatore dono di Gaetano Pinali (1844) e la collezione di medaglie di Luigi Albertini (1850), nonché i reperti perlopiù romani e medievali recuperati a seguito dei grandi lavori stradali della prima metà del XIX secolo - vengono distribuite tra la Gran Guardia, la Pinacoteca, la Biblioteca Civica, Palazzo Canossa, l’antico Museo Lapidario raccolto fin dal Settecento da Scipione Maffei nel cortile dell’Accademia Filarmonica e arricchito già nel 1817 dal dono degli eredi Moscardo.

Tempestivamente, dunque, l’istanza di Saverio Dalla Rosa, pittore e rilevatore dello stato del patrimonio artistico cittadino nel momento della sua più drammatica trasformazione, viene appoggiata e seguita nell’ambiente dei collezionisti e degli appassionati di cose d’arte. Nata con intenti didattici e didascalici, nell’ambito dell’insegnamento accademico delle arti figurative, la sua richiesta di istituire «a sussidio dell’arte e ad ornamento della città […] una pubblica galleria comunale» si traduce in breve nello stimolo a realizzare una raccolta più ampia e variegata volta a testimoniare la storia e l’immagine della città e a perpetuare l’erudizione, il gusto e la generosità dei donatori. Molti dei quali ritroviamo in posizioni di rilievo nelle istituzioni culturali cittadine.

Nel 1852, l’acquisizione da parte del Comune, a seguito della rinuncia imperiale, dell’eredità dei conti Alessandro e Giulio Pompei imprime una svolta decisiva alla vicenda. Da un lato, il cinquecentesco palazzo familiare alla Vittoria, opera di Michele Sanmicheli, offre una concreta soluzione al problema della sede museale, essendo definitivamente tramontata l’ipotesi di utilizzare allo scopo la Gran Guardia. Dall’altro, la composizione di quelle raccolte, imperniate su quadri da cavalletto e anche di tema profano, di dimensioni ridotte rispetto alle grandi opere religiose che avevano costituito il primo nucleo della pinacoteca, comincia a riequilibrarne decisamente il carattere. Tale tendenza si confermerà con l’acquisizione delle raccolte di due esponenti di primo piano della borghesia cittadina d’epoca austriaca, Cesare Bernasconi (1869) e più tardi Andrea Monga (1904 per le antichità e 1911 per i dipinti, i disegni, le stampe).

All’arrivo di nuovi doni, come alcuni gessi di Canova e marmi, da parte di Giovanni Pindemonte (1858), segue l’acquisto del ritratto di Pase Guarienti nello stesso anno, e delle collezioni naturalistiche di Abramo Massalongo (1863), successivamente incrementate da numerose altre nello stesso settore. Nel 1866, il dono di 92 epigrafi di Antonio Smania celebra l’annessione del Veneto all’Italia.

Almeno fino agli anni trenta del Novecento e oltre si susseguono con ritmo regolare doni e lasciti in gran numero (Orti Manara, Lazise-Gazzola, del ripostiglio numismatico della Venèra, Alessandri, Buri, Antonio Pompei, Camploy, Zannoni, Grossule, Balladoro, Messedaglia, Canossa, Da Prato, Forti, Dall’Oca, eccetera), intrecciandosi con sporadici acquisti (ad esempio la raccolta Muselli e alcuni dipinti) e con il continuo recupero di quanto le calamità naturali, come l’inondazione dell’Adige del 1882 e le trasformazioni architettoniche e urbanistiche espellono dal tessuto della città. La tradizione si allenta man mano che ci si avvicina a tempi a noi più vicini, ma mantiene una sua vitalità, espressa da lasciti e doni come quelli Gazzola (1956) e Cuppini (1992), fino a quelli recentissimi Prati e Dal Forno, nonché dagli acquisti dell’Associazione Amici di Castelvecchio e dei Civici Musei d’Arte di Verona, della Banca Popolare e della Fondazione Cassa di Risparmio di Verona Vicenza Belluno e Ancona.

Certamente molti nomi avremo dimenticato in questo rapido excursus, ma non lo spirito di orgoglio e di identificazione che ha spinto tanti cittadini ad affidare al museo le opere appassionatamente scelte e riunite, né la memoria e la riconoscenza da coltivare e alimentare.

Il gran numero e la varietà dei materiali pervenuti si sono fino dal primo momento scontrati con il limite degli spazi e delle risorse, un filo che lega la museografia ottocentesca con quella attuale. E’ questo un problema che si trovarono ad affrontare sia i direttori del museo della prima generazione, artisti, conoscitori e collezionisti come Dalla Rosa, Bernasconi, Alessandri, sia gli archivisti e bibliotecari di seconda generazione (Biadego, Sgulmero, Avena), sia gli storici dell’arte e gli archeologi (Gerola, Magagnato, Franzoni, Marinelli).

Spetta all’ispettore onorario Cesare Bernasconi il trasporto e l’allestimento delle collezioni a Palazzo Pompei, dove vengono effettuati diversi lavori, tra cui la copertura a vetri del cortile, prima dell’inaugurazione (1857) e della definitiva apertura al pubblico. Con l’acquisto e la sistemazione dell’adiacente casa Carlotti, può dirsi compiuto il primo ordinamento, sancito dall’uscita del Catalogo degli oggetti d’arte e d’antichità del Museo Civico di Verona, curato nel 1865 da Bernasconi e Balladoro. I dipinti erano divisi cronologicamente per scuole, vi era una sala di stampe e una sezione dedicata alla galleria di Giulio Pompei; ampio spazio aveva il medagliere, mentre bronzi, terrecotte, vetri, marmi e sigilli, prevalentemente ma non esclusivamente archeologici, erano custoditi in scaffali vetrati al pianterreno, dove si trovavano anche le sale dell’Accademia di pittura e scultura.
(...)
La sala della Banca Cattolica nella sistemazione del 1925.
Anche nell’ultima sala, allestita a spese della banca Mutua Popolare di Verona, mobili, ceramiche da farmacia, bronzetti si alternano a quadri e ad affreschi murati nel fregio. Si può ben comprendere come difronte a tanta scomposta disseminazione dell’affollato ma decoroso equilibrio delle sale di Palazzo Pompei, negli anni Cinquanta si sia avvertita l’esigenza di un radicale riordino, condotto dal direttore Licisco Magagnato in collaborazione con l’architetto Carlo Scarpa (1956-1964 e segg.). Razionalizzare il percorso di visita, ripulire dalle recentissime arbitrarie superfetazioni e valorizzare le strutture originali del castello, presentare in sequenza logica, tematica e cronologica lo sviluppo delle collezioni, esaltandone i valori formali e le valenze comunicative e didattiche erano alcuni degli obiettivi, pienamente raggiunti, di quel restauro che resta a quarant’anni di distanza un esempio fondamentale dell’architettura e dell’arte italiana del XX secolo. Il diradamento delle opere, al fine di renderne apprezzabili al meglio le qualità, portava con sé la necessità di organizzare depositi idonei e di procedere ad un’ulteriore diversificazione delle sedi. Va in tal senso l’apertura nei primi anni Settanta del Museo degli affreschi intitolato a Giovanni Battista Cavalcaselle alla Tomba di Giulietta, nel luogo dell’antico convento delle Franceschine, la cui chiesa divenne altresì dopo il 1987 il luogo di esposizione delle grandi pale dal Cinquecento al Settecento che non trovavano spazio a Castelvecchio e dopo il 1989 accolse anche sculture ottocentesche recuperate in occasione della mostra Il Veneto e l’Austria. In questa direzione si muove la proposta di mostre a rotazione delle collezioni restaurate, soprattutto pittoriche, avanzata da Magagnato per la Gran Guardia nel 1979, ripresa da Marinelli a Castelvecchio e a San Francesco al Corso nel 1987 e da noi proseguita con Cento opere per un grande Castelvecchio del 1998, con la mostra dedicata alla collezione dei disegni, con la serie delle mostre curate annualmente a partire dal 1999 da Margherita Bolla nella cappella di San Gerolamo al Museo Archeologico e con questa Collezioni restituite ai musei di Verona.

E’ difficile dire quanto tutto ciò, soprattutto i fatti più recenti, si inserisca in un piano sistematico e quanto sia il frutto di pragmatiche cure, di risposte semplici a problemi complessi in una storia dinamica fatta di cambiamento di posizioni – critiche gestionali, amministrative –, di urgenze a volte drammatiche, di continuo arricchimento.

La presente iniziativa si caratterizza nel riproporre le raccolte archeologiche a fianco di quelle pittoriche, etnografiche, di arti “minori”, in una struttura espositiva che mira a recuperare il concetto di nucleo collezionistico e, ancora indirettamente, le figure dei collezionisti, molti dei quali divennero anche donatori. Si tratta di un primo passo verso uno scavo più mirato e approfondito in quest’ultima direzione, una sorta di ritorno delle origini che, come è avvenuto in molte città italiane, si rende necessario come premessa di una nuova fase di espansione e di riassetto generale di quella che oggi usa chiamare l’offerta museale di Verona.

E’ evidente che in un simile contesto la figura del collezionista è affiancata con sempre maggiore autorevolezza e propositività dall’associazionismo culturale, dagli istituti di credito e dalle fondazioni bancarie, divenuti interlocutori primari delle amministrazioni pubbliche e delle direzioni museali nel definire un progetto futuro adeguato alle straordinarie risorse, alla memoria, alla tradizione di ricerca, alle speranze e alle aspettative di chi ne utilizza le innumerevoli opportunità.

(Paola Marini)

Museo di Castelvecchio, Verona

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Giorgio Vigna
dal 10/10/2013 al 5/1/2014

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