Nascita di Venere. In mostra una serie di disegni realizzati a china ed acquerello nel 1965, che sviluppano il motivo di un ciclo intitolato Fantascienza story e Paesaggio story e nei quali ricorre, ossessiva, la presenza del corpo femminile.
Nascita di Venere
Il disegno è la base dell’arte Un pittore scadente non sa disegnare. Ma un pittore che disegna bene sa comunque dipingere… Il disegno offre all’artista la capacita di controllare sia la linea che la mano. Sviluppa in lui la precisione della linea e del segno” Sono parole che Arsile Gorcky rivolge alla sorella nel 1943 sei anni prima della decisione di uscire di scena con il suicidio, dopo le tragedie consecutive che hanno devastato la sua vita – ultima, il grave incidente stradale in cui ha perso l’uso del braccio e della mano con cui dipingeva. L’artista armeno - che aveva, negli anni Trenta, aderito al surrealismo, ma diffidava di ogni automatismo espressivo, convinto che” la vera arte poggia sulla consapevolezza” – sta lavorando a disegni di straordinaria tensione, in cui le forme organiche – fusione inestricabile di osservazione della natura e di flusso della coscienza – danzano ritmicamente sulla carta, in preda a un processo di inarrestabile metamorfosi.
Davanti a questa splendida serie di disegni di Vittorio Cavicchioni, realizzati a china ed acquerello nel 1965 – che secondo le annotazioni dello stesso autore sviluppano il motivo di un ciclo intitolato “Fantascienza story e Paesaggio story” viene spontaneo pensare alle esperienze di due protagonisti dell’ arte americana: Arsile Gorky, appunto, e Willem De Kooning. C’è in questi disegni dell’artista reggiano, la presenza, quasi ossessiva, del corpo femminile, che egli ritrae con concitazione evidente, con la linea che scorre libera, e felicemente delinea contorni, per poi raccontare la disintegrazione della forma e dello spazio, l’affollamento dei segni, dentro il tumulto dell’anima. E’come se il pulsare dei sensi di fronte alla forza dirompente del corpo e della natura, sappia riconoscere, proprio attraverso lo sbriciolamento di ogni convenzione, le analogie segrete tra strutture fisiche e mentali, tra ritmo della vita e dell’opera, con l’occhio e la mano che gettano un ponte tra natura e interiorità. L’istinto si fa carne, in queste opere,sempre rette da una straordinaria armonia tra frammenti riconoscibili del corpo, apparente disordine dei segni e vertigine della dissoluzione della forma.
L’opera diventa il luogo della frantumazione del modo tradizionale di vedere le cose, ma anche il luogo magico in cui attraverso la concentrazione e la relazione di correzioni, trasformazioni, sperimentazioni, la forma tende a una ricostruzione:il disegno appare, in fondo, sospeso tra enigma e soluzione. Eppure, spira in questi lavori un senso imperioso della vita, intesa come fuoco, tensione, pathos, ardore, aggressività, vertigine, equilibrio misterioso tra osservazione, memoria,s ogno, istinto. Cavicchioni sapeva disegnare, lo si vede bene nella grande tela in mosta: sinfonia di forme ricostruite,incarnate in colori riscoperti, brividi di toni rosa e azzurri, vibrazioni e fughe di forme. Come diceva Camus dell’uomo, la pittura di Vittorio Cavicchioni è stata, per lungo tempo,”in cammino” dal realismo post-cubista alle suggestioni “informali” di De Stael e De Kooning, dai collages materici con carte e tele di sacco a quelli con lamiere metalliche e plastiche degli Omaggi a Sade e di Pianeta donna, fino alle rarefatte Meditations sur le paysage, prima della temporanea scelta di smettere la pittura, convinto che L’arte fosse ormai inutile e morta. Questa serie di disegni e queste tempere che escono dal buio dello studio ci dicono comunque che Cavicchioni è stato un protagonista autentico dell’arte, non solo e non tanto “reggiana” della seconda metà del Novecento, come, del resto, gia la mostra antologica che il comune di Reggio Emilia gli dedicò venticinque anni fa lasciava capire.
Ciò che forse non si capì da subito è che, al di là dell’angoscia latente che stava alle radici del vitalismo dirompente e della forza dissacratoria con cui ha frantumato e violato l’immagine tradizionale del corpo e della natura, c’era comunque sempre, in lui, un insopprimibile bisogno etico,” costruttivo”: preservare la libertà e l’eleganza del segno; puntare ad una nuova anatomia e architettura delle forme. Sembrano esplodere le sue immagini, perdersi nell’abisso del nulla in preda a un’agonia senza fine; eppure,quel difficile, doloroso transito gli è parso il solo modo possibile per vedere e per svelare la verità ultima delle cose, per recuperare una sensibilità ormai perduta, per costruire l’alfabeto e la grammatica di un modo di vedere meno approssimato, più aderente al ritmo dell’esistenza, più vicino alle miserie e agli splendori della vita.
Sandro Parmiggiani
Inaugurazione 13 ottobre 2007
Galleria Primo Stato
via dei Due Gobbi, 5 - Reggio Emilia
Ingresso libero