Hortus conclusus. Personale di pittura. "Le immagini che uso, le immagini di cui abuso. Forme alle quali aggiungo o tolgo qualcosa per fare in modo che ogni opera sia in realta' un autoritratto allo specchio." (G.Arruzzo).
Hortus conclusus
Caro Alberto,
ti confesso che essendo allenato a parlare più per immagini che a parole ho paura di
demolire i sei mesi di lavoro che ho impiegato per preparare la mostra con questo
breve testo. Tra l'altro, siccome con le parole si giustifica tutto, non ho mai
sopportato chi parla troppo del proprio lavoro, mi è sempre sembrato che chi
esibisce questo atteggiamento abbia timore che le proprie opere non dicano il
necessario da sole.
Ora mi ritrovo qui, sul palco, a correre il rischio di suonarmela e cantarmela. E se
poi non avessi una bella voce?
Da secoli gli artisti sono il prodotto di una società viziata. L'arte è necessaria
solo per chi la sente come l'unica ragione che giustifica il proprio esistere. E'
qualcosa di simile all'istinto di sopravvivenza. Il pubblico, l'osservatore, è molto
importante in questo processo, garantisce questo istinto.
Ho bisogno del pubblico e di questo palco, in fondo. Come ho bisogno dell'altro, di
ciò che non sono io. Ecco perché spero sempre di ricompensarlo in qualche modo con
il mio lavoro. Perché non sono un artista avaro. Ed ecco perché le immagini che
cerco o dalle quali vengo trovato, sono così importanti. È tutta una questione sul
donarsi e sul perdonarsi. Una muta intesa. Una relazione fatta di gesti. Qualcosa
che ho trovato per me ma che voglio condividere col pubblico, con l'osservatore, se
lui vorrà.
Concepire un opera d'arte come vivisezione dell'io.
Le immagini. Le immagini che uso, le immagini di cui abuso. Forme alle quali
aggiungo o tolgo qualcosa per fare in modo che ogni opera sia in realtà un
autoritratto allo specchio. Ogni elemento che uso è sempre autoreferenziale: i libri
sono il primo oggetto d'ispirazione, sono loro che autoalimentano il fuoco. Il fuoco
che consuma la candela. La candela come allegoria del tempo che ci è dato in
prestito. Il teschio come fine ultimo di una pittura intesa come una forma di
nostalgia.
Ogni quadro come il risultato di una rapina. In questo momento, non ci avevo mai
pensato prima, mi sento un po' Robin Hood. Ma non si tratta di togliere ai ricchi
per dare ai poveri. In questo caso siamo tutti sullo stesso livello: l'opera è fatta
per metà dall'artista e per metà dall'osservatore (non dico nulla di nuovo, lo so,
ma quando lavoro tengo sempre presente questo principio), anche se tutte le scelte
che faccio sono prima di tutto filtrate da me, non scordo mai che è il pubblico che
le dovrà digerire.
E qui si ritorna al dono.
Non trovi, caro Alberto, che mentre in tutta Europa la pittura è, come di fatto
dovrebbe essere considerata, una disciplina artistica (brutto termine. ma non ho
trovato niente di meglio) al pari di tutte le altre, ultimamente in Italia (proprio
qui, pensa te!), si respiri una brutta aria? Come se la pittura fosse la Cenerentola
delle altre espressioni artistiche. senza considerare che a sua volta l'Italia è la
Cenerentola degli Stati Uniti d'Europa. È come se esistessero due caste ben definite
di artisti: da una parte i propriamente definiti "concettuali" e dall'altra quella
dei pittori. Non sempre divisi tra serie A e serie B ma pur sempre due caste. Come
dire che i primi che pensano al loro lavoro e non hanno la necessità di toccarlo
sono gli adulti, mentre i secondi che spesso si sporcano le mani col colore sono i
bambini della situazione.
Ma non vorrei essere frainteso: io adoro tanta di quell'arte propriamente detta
concettuale, anzi, a dire la verità, amo più quella di tanta pittura (come vedi,
caro Alberto, anch'io cado nell'errore di usare la stessa dicotomia alla quale ci
hanno abituato) ma devo essere sincero, mi sembra assurdo che la pittura, solo
perché ha bisogno di chiodi per essere appesa (come un crocefisso), debba essere
spesso difesa da chi la pratica, come se si cercasse di mantenere in vita un
cadavere. Dal mio punto di vista, dal mio eremo di montagna, dalla provincia in cui
vivo, il concettuale come la pittura sono entrambi morti da più di un secolo ormai.
Anche se, devo ammettere che, alla fine dei giochi, tutta questa necrofilia mi
piace, mantiene in vita sia me che la mia arte e come ben sai, non potrei farne a
meno.
I soggetti che uso e che ho anche usato in questa prima personale torinese, non sono
buttati lì così a caso. Per me l'opera è uno specchio: riflette me stesso ma anche
se stessa.
Hortus Conclusus, prende spunto da questa riflessione, da questa ideale posizione di
difesa.
Se il risultato del dipingere è il dono per fare in modo che questa relazione
avvenga, occorre che ci sia in primis un atto d'amore. Un sacrificio. Un atto di
possesso che divenga salvezza per tutti i partecipanti al convivio. Uccidere il
cadavere già morto della pittura per farla propria attraverso un gesto che deve
essere mantenuto privato e difeso nelle quattro mura dello studio. Il giardino
segreto appunto. Scappare dalla peste nera che dilaga nella grande città per potersi
decameronianamente proteggere in campagna, passando il tempo a raccontarsi storie.
Non c'è ironia in tutto questo.
Caro Alberto, come tu ben sai, questa esaltazione dell'alto medioevo è stata
prerogativa di alcuni movimenti artistici a me molto cari: i Preraffaelliti, i
Nazareni, l'Arts and Crafts fino al Liberty toccando l'apice della fusione tra arte
e artigianato, stile ed erotismo, con quella punta di ingenua retorica che a
ripensarci ora fa sorridere ma che io adoro.
In questa mostra molta della bibliografia contenuta nelle mie opere è stata presa da
artisti di quel periodo, unita a suggestioni che proprio Torino, città deputata ad
accogliere la mia personale, mi ha ispirato.
La Torino del Re e quella della Sindone. La Torino dell'industria e quella
dell'editoria. La Torino bianca dell'oratorio e quella nera della magia. La Torino
del Museo Egizio e quella dell'Arte Povera.
Ho cercato di fondere tutte queste suggestioni creando un dialogo basato sul duplice
piacere di unire l'atto creativo alla ricerca storica.
Ora sai cosa ti dico caro Alberto? Per come è mia abitudine, ho parlato fin troppo
del mio lavoro e spero di averlo fatto con una bella voce.
Quindi per il momento ti saluto.
Yo!
G.
Inaugurazione: sabato 10 novembre 2007 dalle 21.00 alle 24.00
Alberto Peola
29, via della Rocca - Torino
Orario: da lunedì a sabato dalle 15.30 alle 19.30 mattino su appuntamento
Ingresso libero