Nomas Foundation
Roma
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Francesco Arena
dal 6/5/2008 al 6/6/2008

Segnalato da

Fondazione Nomas




 
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6/5/2008

Francesco Arena

Nomas Foundation, Roma

Il progetto apre con l'opera di un giovane artista italiano dal titolo 3.24 mq. Il dato numerico del titolo fa riferimento allo spazio della cella di un prigioniero. Come scrive Stefano Chiodi in catalogo: "La cella e' il rifacimento in scala 1:1 dell'ambiente ricavato all'interno di un appartamento in via Montalcini 8 a Roma, dove, tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 Aldo Moro avrebbe trascorso i suoi ultimi 55 giorni di vita prigioniero delle Brigate Rosse.


comunicato stampa

La Fondazione Nomas nasce dal cammino compiuto da due collezionisti romani, Raffaella e Stefano Sciarretta. Le loro parole esprimono con chiarezza le ragioni che li hanno spinti a concretizzare tale progetto: “Collezionare è un’esperienza che ci ha reso mobili, liberi, aperti fino a desiderare la creazione di un organismo che approfondisse il viaggio fin qui percorso. Nomas è punto d’arrivo e di partenza al tempo stesso, non soltanto per proseguire oltre, ma per sostenere i progetti di tutti coloro che attraverso l’arte contemporanea intendono suggerire altre strade e nuovi viaggi.”

Il progetto apre con l’opera di un giovane artista italiano, Francesco Arena, dal titolo 3.24 mq. Il dato numerico del titolo fa riferimento allo spazio della cella di un prigioniero. Come scrive Stefano Chiodi in catalogo: “La cella è il rifacimento in scala 1:1 dell’ambiente ricavato all’interno di un appartamento in via Montalcini 8 a Roma, dove, in base alle testimonianze di Anna Laura Braghetti, Prospero Gallinari e Mario Moretti, tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 Aldo Moro avrebbe trascorso i suoi ultimi cinquantacinque giorni di vita prigioniero delle Brigate Rosse. Trenta anni fa… La cella è un’opera d’arte politica…Un’opera politica, non un’opera sulla politica. Non sul detto, sul meccanismo visibile, sul gergo, i simboli, e neppure, anche se questo è il suo punto di partenza, sulla storia politica italiana. Piuttosto sulla politica come processo di cui l’arte è una componente (necessaria, è il postulato).”

La scelta dell’opera di Francesco Arena, oggi trentenne, è stata dettata da una riflessione: il tempo dei nostri giorni sembra scorrere troppo in fretta, tanto velocemente da travolgere anche la memoria del passato. Ricordare è talvolta un esercizio doloroso, ma indispensabile per mantenere viva la coscienza.

La cella

Stefano Chiodi

La cella è un parallelepipedo di legno. Sta dentro una cassa di legno di 270 x 120 x 250 cm., simile a quelle utilizzate per il trasporto di merci fragili o di opere d'arte. L'interno si compone di due vani: il primo, di 70 x 120 cm., attraverso una piccola porta dotata di serratura e spioncino funge da ingresso al secondo, di 200 x 120 cm., privo di altre aperture verso l'esterno. Le pareti sono di compensato, il pavimento di linoleum grigio. Il vano più grande è arredato con una branda richiudibile di 180 x 60 x 16 cm., completa di materasso, coperta, due lenzuola, cuscino e federa; un comodino di 30 x 40 x 80 cm. su cui sono poggiati una risma di fogli di carta in formato A4, una penna, una bottiglia di acqua minerale e un rotolo di carta igienica; un WC chimico di 40 x 40 x 30 cm., una bacinella di plastica, una ventola elettrica. Ciascun vano è illuminato da una lampadina. La porta di ingresso è dissimulata tra le assi che compongono il rivestimento della cassa. La sua superficie totale è di 3,24 metri quadrati.

La cella è il rifacimento in scala 1:1 dell'ambiente ricavato all'interno di un appartamento in via Montalcini 8 a Roma, dove, in base alle testimonianze di Anna Laura Braghetti, Prospero Gallinari e Mario Moretti, tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 Aldo Moro avrebbe trascorso i suoi ultimi cinquantacinque giorni di vita prigioniero delle Brigate Rosse. Trenta anni fa. «Un cubicolo lungo tre metri e largo meno di uno, quanto una comune porta di appartamento, stipiti compresi. All'interno “solo una branda, un water fisiologico e un condizionatore per il ricambio dell'aria”. Le pareti sono insonorizzate, l'isolamento acustico è completo, il prigioniero può richiamare l'attenzione dei suoi carcerieri attraverso un microfono. L'intercapedine è stata ricavata alzando un tramezzo con un pannello di gesso fra uno studio e un salone ed è occultata alla vista da una libreria poggiata sul muro»1.

La cella non è una ricostruzione fedele. Nulla vi è “autentico” e neppure si tratta di un set, di una scenografia, non ci viene permesso di interpretare il prigioniero, o il carceriere. La cella si presenta in forma neutra, anonima, definitivamente compiuta: se ne sta appartata, immobile. Non serve, non dimostra, non sostiene, non invita all'azione. Ha il pudore degli oggetti nuovi. La loro strana pulizia. E incongruenza. Sta in attesa. («Una cosa certa è che mi interessava e mi interessa ancora un idea di struttura, di contenitore. La cella è contenuta in una cassa da imballaggio, come una matrioska: la cassa, la cella, il prigioniero, la trasformazione, la storia che viene fuori e si propaga. Dico struttura intendendo una costruzione invisibile che mettendo in ordine le cose ne dà una visione.»).

La cella è un'opera d'arte politica. Si intitola 3,24 mq; è stata realizzata nel 2004 da Francesco Arena. Un'opera politica, non un'opera sulla politica. Non sul detto, sul meccanismo visibile, sul gergo, i simboli, e neppure, anche se questo è il suo punto di partenza, sulla storia politica italiana. Piuttosto sulla politica come processo di cui l'arte è una componente (necessaria, è il postulato). Un'opera sul divenire politico dell'arte in un'opera, sul trasformarsi del parallelepipedo in cassa e poi in cella, e poi ancora in cassa, e poi in parallelepipedo, sul suo disfarsi e rifarsi costante per chi guarda. Un'opera la cui materialità è il combustibile per alimentare domande su ciò che vediamo, su come conosciamo e giudichiamo ciò che vediamo, sulla connessione tra passato e presente, tra il piano dell'arte e quello dell'esperienza quotidiana, sui codici assimilati e sul loro potenziale di trasformazione. («Quest'opera provoca reazioni diverse, c'è a chi piace e chi la odia; io non l'ho mai pensata come un'opera che parla di un idea della politica, sono partito da Moro, ma anche da un luogo, e poi ho iniziato a pensare che in realtà 3,24 mq potessero raccontare una trasformazione, costante come la trasformazione del pensiero che nasce nella testa, nel cranio, e da lì prende forme diverse.»)

Una cassa di legno come scultura, allora, e come sua sconfessione. Come epicentro di una dialettica senza scioglimento, “immobile”. Due sono i fili da tirare. Il primo: la cella nella sua funzione primaria di dispositivo di sorveglianza, e nel caso specifico di «prigione del popolo», attraverso cui produrre un'altra verità, o meglio un'aberrante, definitiva Verità. Come suo presupposto, l'isolamento fisico e mentale del prigioniero, esibito in forma di tableau nelle due polaroid che gli furono scattate durante il sequestro2; quindi la cella come dispositivo, come macchina celibe la cui vittima è saldamente afferrata e resa inoffensiva, e sulla cui carne si imprime, come nella Colonia penale di Kafka, la lettera della sentenza fatta supplizio. Ma anche la cella come luogo di una trasformazione progressiva la cui posta è l'annullamento del corpo, e da cui pure continua a filtrare la parola, l'azione ristretta al linguaggio, nella duplice forma, passiva/attiva, dell'interrogatorio e della lettera. Trasformazione dell'uomo di potere in ostaggio, del politico in “uomo comune”, in una regressione che è al tempo stesso per Aldo Moro la conquista, creaturale e tragica, di una distanza e di una superiorità morale sui suoi carcerieri e sul Potere.

Il secondo filo: la cella come scatola, come contenitore mobile, come involucro di un “contenuto” (l'opera preziosa, ma assente, che dovrebbe proteggere), che essa ricopre enigmaticamente come lo stampo nasconde la forma negativa al suo interno. La cassa insomma come scultura alterata che mette in vista la propria filogenesi, che si lascia aprire, violare, visitare, che rinuncia al distacco, alla redenzione di una forma. Come pausa in un continuum (e dunque 3,24 mq come 4'33'' di John Cage. L'opera è lo spazio di silenzio in cui proiettare i nostri pensieri, i nostri rumori, le nostre incertezze3). Come strumento, come ricalco imperfetto, come deriva: è una trascrizione nello spazio tridimensionale di una descrizione verbale e di un elenco di misure, una ricreazione arbitraria, proiettiva, ambigua. In quanto tale convoca senza risolverla l'ambivalenza delle serie artistiche tra cui si colloca - ready-made e unità plastica minimalista, oggetto pop e dispositivo concettuale. Elenca, non prende posizione. Ci impedisce in altre parole di annetterla stabilmente a un'estetica. Piuttosto, il suo funzionamento sembra svolgersi a basso livello: isola, scherma, protegge, confina, chiude, imprigiona. La serie funzionale si dipana in parallelo a quella metaforica, la raddoppia, la rinforza, ma anche la smentisce, la mette tra parentesi. La sua è un'azione decostruttiva e insieme terapeutica.

Col suo duplice movimento di espansione/contrazione, la cassa confina ed elabora, provoca una domanda e si mette in cerca di risposte. Il suo statuto è incerto, contraddittorio come la sua struttura. La forma necessita qui in effetti di un testo, di un ancoraggio implicito. E quest'ancora - la storia, o le storie possibili - è a sua volta instabile come la struttura che dovrebbe zavorrare. L'oggetto-cassa appare allora sdoppiato, tallonato dalla sua ombra, inquietante come un revenant. La sua trasformazione in cella, il suo popolarsi di dettagli “fedeli”, non avviene pacificamente, ma è il risultato di un trauma, di uno scontro. Inatteso. Ci impone la parabola di morte del prigioniero Aldo Moro e ci impedisce di arretrare, di osservarla a distanza, di trasformarla in una redenzione. Ci attira al centro di un groviglio, dove l'atto di vedere non riesce più a elevarsi al di sopra del corpo, della terra e del tempo che la imbeve; dove le forme si restringono nella prospettiva demoniaca dei dispositivi efficienti, dell'economia mondana dell'arte. Dove lo spettatore è sempre complice, e lo spazio perde la propria supposta neutralità. La cella è il segnaposto di un processo, un condensatore: segnala l'impossibilità di comprendere la storia senza ritrovare la sua interna conflittualità, il pericolo che avvolge costantemente il destino individuale, e insieme la necessità, politica quanto estetica, di proiettare lo sguardo nell'ombra, nel negativo, nell'assente che corrode la pienezza saziata del presente. Un parallelepipedo di legno è una cella.

* I passi virgolettati tra parentesi sono di Francesco Arena.
http://www.francescoarena.com

Inaugurazione 7 maggio, ore 19

Fondazione Nomas
viale Somalia, 33 - 00199 Roma

IN ARCHIVIO [41]
Chiara Camoni
dal 19/11/2015 al 25/2/2016

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