Brecce per l'arte contemporanea
Inaugura con questa mostra un ciclo di esposizioni a due a cura di Antonio Capaccio. Per ciascun autore un corpus coerente di opere, o una traccia esemplare, un passaggio cruciale del proprio itinerario artistico. "Un ragionamento a piu' tappe sulle molteplici forme del dialogo. Fra evidenze, somiglianze, divergenze, opposizioni, capovolgimenti."
Con questa mostra, s'inizia, presso la Galleria Anna D'Ascanio di Roma, un originale ciclo mostre a due. Si tratta di una iniziativa, curata da Antonio Capaccio, in collaborazione fra la Galleria Anna D'Ascanio e BRECCE per l'arte contemporanea.
Un ragionamento a più tappe sulle molteplici forme del dialogo.
Fra evidenze, somiglianze, divergenze, opposizioni, capovolgimenti.
Un itinerario inedito di intenzioni e prassi operative diverse fra contiguità storiche o generazioni differenti.
Per ciascun autore un corpus coerente di opere, o una traccia esemplare, un passaggio cruciale del proprio itinerario artistico.
Per ogni incontro una distinta modalità, un’altra piega del discorso, per mettere a confronto e disegnare corrispondenze, nessi, affinità.
Ciascuno il contrappunto dell’altro.
Ciascuno per se, anche.
Fra astrazione e solarità mediterranea, allusività, fisicità, materia, spirito analitico, pensiero, invenzione, trascendenza.
Seguendo libere intuizioni, associazioni, senza censure, sfuggendo alla divorante febbre storica che oggi rende sterile qualsiasi sincera riflessione critica.
Cos’è che instaura un rapporto? Qual è la misura di una relazione?
Se ogni opera coltiva una propria distinta essenza, se per ogni lavoro c’è un viaggio da compiere comunque in solitario, da dove viene allora il richiamo a una lingua comune che sembra poterci offrire la chiave di un senso ulteriore, e che trova nelle movenze del dialogo la propria necessaria incarnazione?
La forza generatrice di questo vero dialogo muove, a ben vedere, in una direzione diametralmente opposta a quella del dominio normativo dello Stesso.
A governarla non sono le leggi del riconoscibile, del compatibile, dell’omologo, del familiare. Né il linguaggio compiacente della legittimazione dell’io. Né la natura sopraffattiva e unidimensionale del progresso. Non ciò che è offerto, in maniera rassicurante, alla riconoscenza del branco: 'Provate a ascoltare - così Michaux - fra il pubblico in una mostra di pittura. A un tratto, dopo aver cercato a lungo, qualcuno mostrando col dito sul quadro: “È un melo”, dice, e tutti si sentono meglio.'
No. Quando tentiamo di aprirci un varco nei territori essenziali della dialogo,
dobbiamo orientare il nostro sguardo verso qualcosa che ci privi di certezza, ci metta in bilico sull’orlo di un vuoto, rovesciando quiete in inquietudine:
'Chi ama le strofe ama anche le catastrofi – Gottfried Benn -, chi è per le statue dev’essere anche per le macerie.'
È allora che siamo trascinati al dialogo.
Guardando fuori, allo spazio che separa, non confonde o sovrappone, alla distanza che divide e insieme mette in contatto e rinsalda la possibilità di un incontro.
All’altro che istruisce perché è distante.
Un fuori che potremmo intendere come tale anche quando, magicamente, assume la veste suasiva del somigliante:
“Vedete, ho copiato il vostro sonetto perché l’ho trovato bello e semplice… - scrive Rilke in risposta al giovane poeta che gli chiede consiglio - Vi offro questa copia sapendo quanto sia importante e istruttivo di ritrovare il proprio lavoro in una calligrafia estranea. Leggete questi versi come se fossero di un altro, e sentirete nel fondo del vostro essere quanto essi sono cosa vostra.”
È nel contatto con l’estraneo che ritroviamo una cifra più vera d’identità: vi ritroviamo la stessa sostanza alienante che incontriamo quando, tentati da un’interrogazione più estrema, crediamo di aver gettato la sonda in profondità e sentiamo di aver avvicinato la nostra più nuda apparenza:
'Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo.' - Borges.
A questa incertezza appartengono i territori della creazione.
L’aperto che accoglie, ospita, lascia che qualcosa lo attraversi, anche ciò che sembra più improbabile ed enigmatico.
La strada breve e infinita: 'Esiste un punto di arrivo – Kafka -, ma nessuna via; ciò che chiamiamo via non è che la nostra esitazione' Ecco, se questo è ciò che abbiamo desiderato, se questo è ciò che attendevamo, puntiamo l’arco che a una meta ci conduca, al segno quasi inafferrabile di una maestria.
Per cui, finalmente, il vero maestro è sempre l’Altro.
Franco Meneguzzo è nato nel 1924 a Valdagno, in Veneto, ed è morto all’inizio di ottobre di quest’anno. Il padre possedeva una piccola miniera di carbone. Da ragazzo, Meneguzzo abbandona il ginnasio per continuare gli studi privatamente. Matematica, italiano, francese, latino. Studia anche pianoforte e composizione restando per un certo tempo incerto sulla sua vocazione fra pittura e musica. Diventa partigiano in montagna. È fatto prigioniero dai fascisti. Dopo la guerra fa l’operaio al Lanificio Marzotto di Valdagno. Preferisce i turni di notte per dedicare le ore del giorno alla sua attività di ceramista. Nel 1947 entra nel consiglio di fabbrica e diviene anche, fino al 1951, funzionario del Partito Socialista. Nei primi anni Cinquanta lavora come scenografo alla RAI di Milano. Fonda con Bruno Danese, nel 1955, una ditta per la produzione e la vendita di ceramiche (:DEM, Danese e Meneguzzo). Soprattutto come ceramista, nel corso della sua vita, Meneguzzo ottiene i maggiori riconoscimenti. Il pittore sta un poco più in là, appartato, meno visibile. È la sponda più celata di un’opera che ha altre evidenze.
Ma, in questa privazione, l’arte ritrova forse una sua prerogativa necessaria. La salvaguardia dal rumoroso e fazioso mondo ha garantito a questo lavoro una più intima e segreta sincerità. Le opere in mostra – realizzate tutte fra il 1950 e il 1960 - appartengono alla stagione della prima maturità creativa dell’artista, che si definiva un uomo delle caverne che traccia graffiti sulle pareti di una caverna. La sua pittura ha solidità corporea. È peso e materia. Terra, campo e mattone. Tessera, incastro e cesura di una costruzione perseverante. Come schermo che serva a reggere e a contrastare l’inerzia e l’opacità del mondo. Lungo un tracciato dal quale, sembra, l’autore non avrebbe potuto declinare in nessun caso. Vi si avverte un tormento mai interamente risolto. Peso e materia. C’è tuttavia una porzione importante di questa materia che occorre padroneggiare tenendola nascosta. È ombra, profondità. Il lato oscuro ma inevitabile. Che ognuno si porta dietro, a suo modo. Dato che ciò che amiamo o disprezziamo nella nostra esistenza prima o poi rivela una propria pesantezza insostenibile. Allora, nel sopravvivere, andando avanti, ci liberiamo pezzo a pezzo di tutto il peso possibile, o, credendo di farlo, spesso dimentichiamo, tradiamo, perdiamo coscienza come sabbia da una tasca bucata. Mai il setaccio è per ciascuno diverso.
Tutto quanto desideriamo e che sembra rendere la vita bella, prima o poi rivela un proprio peso insostenibile. Così, per scacciare questo rischio, occorre divenire rapidi e lesti a cambiare la direzione del nostro cammino, a capovolgere le prospettive, ogni volta che l’appetito si tramuta in avversione, la voluttà in disgusto. Bisogna andare con un bagaglio leggero leggero, e senza più nessuna certezza, e nemmeno più un residuo di morale, o forse ancora solo una traccia, nascosta fra i fluttui estremi di una reattività a pelle, l’ultimo puntello alle nostre voglie, ai nostri imprevedibili, cangianti desideri. Che niente si fa più catturare veramente. Tutto si muove e corre. E inseguendo il dio delle cose che sempre fuggono, fino a divenire noi sfuggenti come le cose stesse, ci si insinua fra le pieghe di una sostanza instabile e dinamica, sfiorando con destrezza la superficie più sensibile, la buccia morbida dell’esistenza.
La stessa cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio. – Eraclito - Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come il fuoco, quando si mescola ai profumi e prende nome dall'aroma di ognuno di essi. La pittura è reticolo, carne, nuvola, cencio, fumo, olezzo, crosta lunare, graffio. Il peso della materia si dissolve nell’artificio volubile del simulacro. Di questa dissoluzione - nell’inseguimento perpetuo dell’infinità delle cose, della loro varietà senza fine - è l’astrazione l’impronta più vera, lo specchio, la tana da cui pesca il mago, il maestro, il funambolo, il dissoluto, il cieco. ( Antonio Capaccio)
Galleria Anna D'Ascanio
Via del Babuino, 29 - Roma
Orario: lunedi' - sabato 15-19.30
Ingresso libero