Galleria Anna D'Ascanio
Roma
via del Babuino, 29 (II piano)
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Giorgio Morandi e Antonio Recalcati
dal 4/3/2009 al 11/4/2009
lunedi' - sabato 15-19.30

Segnalato da

Brecce per l'arte contemporanea




 
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4/3/2009

Giorgio Morandi e Antonio Recalcati

Galleria Anna D'Ascanio, Roma

A confronto le 'nature morte' di Morandi con un importante ciclo di terecotte, del 1990, di Recalcati. Prosegue il ciclo a cura di Antonio Capaccio. Per ciascun autore un corpus coerente di opere, o una traccia esemplare, un passaggio cruciale del proprio itinerario artistico.


comunicato stampa

a cura di Antonio Capaccio

Un ciclo di mostre a due.
Un ragionamento a più tappe sulle molteplici forme del dialogo.
Fra evidenze, somiglianze, divergenze, opposizioni, capovolgimenti.
Un itinerario inedito di intenzioni e prassi operative diverse fra contiguità storiche o generazioni differenti.
Per ciascun autore un corpus coerente di opere, o una traccia esemplare, un passaggio cruciale del proprio itinerario artistico.
Per ogni incontro una distinta modalità, un’altra piega del discorso, per mettere a confronto e disegnare corrispondenze, nessi, affinità.
Ciascuno il contrappunto dell’altro.

Ciascuno per se, anche. Fra astrazione e solarità mediterranea, allusività, fisicità, materia, spirito analitico, pensiero, invenzione, trascendenza. Seguendo libere intuizioni, associazioni, senza censure, sfuggendo alla divorante febbre storica che oggi rende sterile qualsiasi sincera riflessione critica.

Dopo la mostra di Franco Meneguzzo e Giulio Turcato, il ciclo prosegue con Giorgio Morandi e Antonio Recalcati. Verranno messe a confronto le 'nature morte' di Morandi con un importante ciclo di terecotte, del 1990, di Recalcati. Da giovedì 5 marzo fino al 12 aprile.

Cos’è che instaura un rapporto? Qual è la misura di una relazione?
Se ogni opera coltiva una propria distinta essenza, se per ogni lavoro c’è un viaggio da compiere comunque in solitario, da dove viene allora il richiamo a una lingua comune che sembra poterci offrire la chiave di un senso ulteriore, e che trova nelle movenze del dialogo la propria necessaria incarnazione? La forza generatrice di questo vero dialogo muove, a ben vedere, in una direzione diametralmente opposta a quella del dominio normativo dello Stesso.

A governarla non sono le leggi del riconoscibile, del compatibile, dell’omologo, del familiare. Né il linguaggio compiacente della legittimazione dell’io. Né la natura sopraffattiva e unidimensionale del progresso. Non ciò che è offerto, in maniera rassicurante, alla riconoscenza del branco: Provate a ascoltare - così Michaux - fra il pubblico in una mostra di pittura. A un tratto, dopo aver cercato a lungo, qualcuno mostrando col dito sul quadro: “È un melo”, dice, e tutti si sentono meglio.
No. Quando tentiamo di aprirci un varco nei territori essenziali della dialogo,
dobbiamo orientare il nostro sguardo verso qualcosa che ci privi di certezza, ci metta in bilico sull’orlo di un vuoto, rovesciando quiete in inquietudine.

Chi ama le strofe ama anche le catastrofi – Gottfried Benn -, chi è per le statue dev’essere anche per le macerie.
È allora che siamo trascinati al dialogo. Guardando fuori, allo spazio che separa, non confonde o sovrappone, alla distanza che divide e insieme mette in contatto e rinsalda la possibilità di un incontro.

All’altro che istruisce perché è distante.
Un fuori che potremmo intendere come tale anche quando, magicamente, assume la veste suasiva del somigliante.
“Vedete, ho copiato il vostro sonetto perché l’ho trovato bello e semplice… - scrive Rilke in risposta al giovane poeta che gli chiede consiglio - Vi offro questa copia sapendo quanto sia importante e istruttivo di ritrovare il proprio lavoro in una calligrafia estranea. Leggete questi versi come se fossero di un altro, e sentirete nel fondo del vostro essere quanto essi sono cosa vostra.”
È nel contatto con l’estraneo che ritroviamo una cifra più vera d’identità: vi ritroviamo la stessa sostanza alienante che incontriamo quando, tentati da un’interrogazione più estrema, crediamo di aver gettato la sonda in profondità e sentiamo di aver avvicinato la nostra più nuda apparenza.

Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo. - Borges
A questa incertezza appartengono i territori della creazione.
L’aperto che accoglie, ospita, lascia che qualcosa lo attraversi, anche ciò che sembra più improbabile ed enigmatico.
La strada breve e infinita.

Esiste un punto di arrivo – Kafka -, ma nessuna via; ciò che chiamiamo via non è che la nostra esitazione
Ecco, se questo è ciò che abbiamo desiderato, se questo è ciò che attendevamo, puntiamo l’arco che a una meta ci conduca, al segno quasi inafferrabile di una maestria.
Per cui, finalmente, il vero maestro è sempre l’Altro.

MORANDI RECALCATI
È vero che, scorrendo, la vita ci libera di molte cose, fa spazio, ci riduce all’osso, a un resto, sempre più stretti al poco che, consumato e trasformato, ancora resiste. Avviene con lentezza, a strappi, o tutto insieme, e non importa se è ciò a cui aspiravamo, o se tutto accade inconsapevolmente, o nostro malgrado. La verità è una sola. Ci sbarazziamo delle cose comunque, pure di quanto avevamo immaginato nostro per sempre. Ci restano le briciole – l’essenziale? -, materiale friabile, provvisorio.

E anche quando proviamo a invertire la rotta, volgendoci verso il lato inconscio e oscuro, per tentare di afferrare, se fosse possibile, un nodo originario, ecco che le nostre costruzioni vanno in pezzi, e una scena anteriore, più nuda, si rivela, e poi un altro richiamo, ancora più remoto e vuoto, che manda in frantumi di nuovo ogni cosa, e così via, a ritroso, collezionando macerie. Cosa si nasconde ancora più in là? E quanto conviene spingersi oltre? Per scoprire quanto l’avanzo che siamo divenuti somiglia alla mancanza che ci ha generato?
“…le mie ciotole rotte, - Recalcati - i miei vasi feriti, pieni di crepe, ammaccati e spezzati, che in qualche modo erano tenuti insieme, sono come la nostra vita e i ricordi che ci portiamo dietro.” Arginati in una materia tenace e refrattaria, essi sono i resti persistenti della combustione. Vi si deposita un senso aspro e difforme: “I miei vasi non sono frammenti incollati, ma nascono rotti, rovinati, come se una strana sofferenza li avesse spezzati e il tempo li avesse nuovamente congiunti.”

“ Ho paura delle parole. – Morandi – Ecco perché dipingo.”

Scatole, brocche, bottiglie sulla scena. A resistere, anch’esse. Residui minimi, ma in un groviglio composito, fragile e instabile, di identità e opposizioni. Sull’orlo di un precipizio. Basta poco e si finisce in un tumulto di forze segrete e enigmatiche. Storie, avventure, grumi psichici. Morsi, ritagli.

Il Moderno è Storia che va a finire o è già resurrezione?

Di certo, in esso, passione originaria e passione residuale sembrano rivelare un’identica forza attrattiva, confondendosi spesso in un unico dispotico sentire: “Un annaffiatoio, un erpice abbandonato nel campo, un cane al sole, - Hugo von Hofmannsthal - un povero cimitero, uno storpio, una casetta di contadini, tutto ciò può diventare il vaso della mia rivelazione. Ognuna di queste cose e le mille altre simili su cui di solito l’occhio scivola con naturale indifferenza, può assumere all’improvviso per me, in un certo momento che non è affatto in mio potere provocare, un carattere nobile e commovente che tutte le parole mi sembrano troppo povere per esprimere.(…), che il mio occhio indugia sui brutti cuccioli o sul gatto che striscia flessuoso tra i vasi di fiori, e che tra tutti i poveri e rozzi oggetti d’una vita contadina cerca quell’uno, la cui forma poco appariscente, la cui presenza da nessuno avvertita, la cui muta essenza può diventare fonte di quel misterioso, ineffabile, sconfinato rapimento.”
(Antonio Capaccio)

Vernissage 5 marzo ore 18.00

Galleria Anna D'Ascanio
Via del Babuino, 29 - Roma
Orario: dal lunedì al sabato ore 15.30-19.30, mattina e festivi su appuntamento
Ingresso libero

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