Con titolo. Baricchi parte da un ricordo, da un'antica conoscenza, da un'immagine ben conservata e ben nascosta in un angolo della memoria... Baricchi costruisce le immagini con due gamme di colori, i neri e i bruni, cui aggiunge a volte lampi di rosso fuoco.
Con titolo
a cura di Maurizio Sciaccaluga
I buchi neri
di Maurizio Sciaccaluga
Negli ultimi tre o quattro anni, quelli a cavallo del cambio di millennio, il ritorno della giovane ricerca artistica alla pittura ha assunto i contorni di una scelta radicale, definitiva, inconfutabile.
Ad attestare questo linguaggio come quello più consono ai tempi - forse anche per una naturale e polemica contrapposizione dell'arte visiva nei confronti del trionfo planetario della creatività digitale e virtuale - manca solo il riconoscimento da parte delle grandi manifestazioni internazionali, ma oramai è solo questione di tempo.
Anche chi - critici e galleristi in primis - osteggiava apertamente qualunque opera fosse dipinta, dedicando lodi infinite ai profeti del concettuale, si sta adesso affrettando a smentire le scelte passate, e non lesina affermazioni del tipo la pittura non è mai morta, oppure i quadri non spariscono mai dagli orizzonti della sperimentazione.
Concepiti negli anni Novanta, rielaborati alla luce degli ultimi sviluppi della cultura globale, i lavori che stanno ora conquistando esperti e pubblico sono spesso figli delle intuizioni di Hopper, Katz, Hockney, Richter e, in misura minore, Freud, e osservano il mondo attraverso lo schermo dei media. Si nutrono di cultura dell'etere, proliferano come un virus nel grembo caldo della pubblicità , della moda, del cinema e dello spettacolo.
Ma se tutto questo ritorno si esaurisse con il successo della nuova figurazione (per quanto ramificata), del glamour riveduto e corretto, della commistione tra le varie arti e i diversi linguaggi creativi - cioé con il boom delle linee di ricerca che più spesso oggi trovano spazio su quelle riviste specializzate attente all'olio, alle tele e al colore - non si potrebbe spiegare il recentissimo trionfo a tutto tondo, la fresca riuscita a trecentosessanta gradi della pittura.
Non si potrebbero motivare le conversioni di quelli che, in tanti e con gusti differenti, stanno nuovamente indirizzandosi verso i quadri.
In realtà , accanto al riconosciuto e manifesto indirizzo medialista, si sono sviluppati numerosi altri itinerari di sperimentazione, altrettanto al passo coi tempi e attenti al mondo circostante, che magari più in ombra e con linguaggi più introspettivi consentono alla pittura di dare voce a ogni sensibilità . E di sostituirsi in toto anche alle pratiche riflessive dell'arte concettuale.
Mirko Baricchi segue una di queste strade.
Ai maestri della pittura figurativa e della narrazione per immagini preferisce le lezioni della Transavanguardia e, ancor di più, quelle della Scuola romana degli anni Sessanta. Lezioni che stempera di ogni significato politico, teorico e tecnico affinché sulle sue tele restino soltanto, pure come flashback improvvisi richiamati da un inconscio irrequieto, le icone, svuotate di senso storico, di quelle ricerche, di quel passato artistico oramai alle spalle. Non guarda i colori roboanti o i toni pastello della pubblicità , non s'ispira agli stili e alle linee imposti di recente dalla moda all'immaginario collettivo, ma lavora ancora sull'impasto cromatico, sulle profondità infinite delle gradazioni scure, sul segno come memoria, poesia, evocazione. E all'uso descrittivo del colore tipico della tradizione contemporanea occidentale sostituisce quel gusto tutto centroamericano - conosciuto e provato sulla propria pelle durante una lunga permanenza in Messico - che tramite le sfumature descrive uno stato d'animo, una predisposizione o meno alla malinconia.
Baricchi parte da un ricordo, da un'antica conoscenza, da un'immagine ben conservata e ben nascosta in un angolo della memoria.
Un animale, un oggetto, la parte minima e insignificante d'un vecchio arredamento, insomma figure o cose la cui persistenza nella mente può essere difficile da spiegare, per via di ragioni che affondano le radici in esperienze e tempi completamente dimenticati, offuscati dagli anni trascorsi.
Non dipinge queste immagini, non gli costruisce un corpo fatto di segni e colore, non le rende evidenti e tangibili. Invece di richiamarle dal passato, recuperandole anche in quanto a fisicità , ne sottolinea la lontananza, l'appartenenza a un periodo oramai finito e impossibilitato a tornare. La silhouette di queste presenze si staglia sul quadro come l'unica zona di quiete in un impasto mosso, in continua evoluzione. Si riconoscono un gatto, un monumento equestre, un uccello o una sedia, ma queste figure, in un contesto vibrante, sono gli unici elementi dipinti con toni cromatici fermi, che assorbono la luce e il movimento, che non tradiscono ripensamenti e intensità nella pennellata. Sono descritte in assenza, ritagliate e strappate via dal quadro, lasciate indietro. Semplicemente non ci sono, rappresentano il tassello indispensabile e mancante per la ricostruzione di una storia antica, che non si riesce a ricomporre con esattezza. Una storia personale, vissuta in prima persona, ma tanto lontana non non avere nemmeno più i contorni nitidi. Una storia ora irreale, priva di colore, giocata quasi esclusivamente sui toni del bruno e del nero. Ci sono i luoghi dell'azione, come il dolce declivio collinare alle spalle del gatto di Con titolo, ci sono i protagonisti reali o immaginari della vicenda, quali i diavoletti infantili in alto sulla tela, non mancano parole e frasi che sembrano tornare alla mente da un tempo remoto, ma il prim'attore della vicenda non c'è più. Forse non vuole essere presente, forse non può farlo, il fatto è che tutto il quadro, spesso, ruota attorno a una negazione, a una perdita, a un malinconico rifiuto. L'artista non rimpiange tempi felici, non ricorda momenti migliori, non si lascia vincere dallo spleen, ma prende appunti sulla malinconia provocata dal trascorrere del tempo, annota la sparizione del mondo e del suo senso, descrive quella cancellazione progressiva che è la vita.
Baricchi costruisce le immagini con due gamme di colori, i neri e i bruni, cui aggiunge a volte lampi di rosso fuoco.
Dal nero profondo e buio, dove si intravede solo qualcosa, dove si nascondono i fantasmi dell'adolescenza e i sogni non realizzati, emergono ogni tanto i relitti e i frammenti del passato.
Si tratta di giocattoli, animali, luoghi consueti dove si sono consumati i desideri giovanili.
Le campiture, le sfumature e i disegni ocra sono i ricordi che si affacciano alla mente, e si contrappongono ai neri come le memorie alle dimenticanze. Quando il buio scompare del tutto appare evidente quali e quante parti manchino per poter ricostruire il puzzle per intero, ma nei passaggi intermedi la speranza di poter recuperare in toto il passato è forte, illusoria. Ed è sottolineata da quei segni rossi, da quel fuoco di passione che, per un attimo, rivitalizza le vecchie storie. La narrazione, nei quadri dell'artista spezzino, non è mai continua, logica, consequenziale. Non esistono un inizio e una fine, una causa e un effetto, non c'è un verso nella lettura del racconto. Anzi, non c'è nemmeno il racconto. Tutto è evocato a momenti, per lampi, come quando vicende che si credevano dimenticate tornano a farsi sentire, a ferire, a emozionare come un tempo. Non è facile dare ordine, perché un'immagine ne chiama immediatamente una diversa, un fatto rimanda a un altro, e a un altro ancora, e il passato si confonde.
Le date si mescolano, più personaggi si combinano in uno solo.
Baricchi porta su tela proprio questo sgorgare puro e spontaneo delle reminiscenze, per flash, per sovrapposizioni, per associazioni d'idea. Non ricostruisce un mondo preciso, ma lo stato d'animo di un momento lontano, cui si amalgama la nostalgia che sempre accompagna il ricordo. Il suo lavoro è un buco nero, una cavità tra tempi diversi, un condotto tramite cui unire il presente con ciò che non esiste più.
opening : Martedì 9 aprile 2002 dalle ore 18.30
Silbernagl Undergallery - via Borgospesso 4 Milano tel 02-76014944