Associazione Barriera
Torino
via Crescentino, 25
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WEB
Blinded devil
dal 7/10/2009 al 14/10/2009
lun-ven 15-19, sab 10-13
338 7330453, 011 2876485

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7/10/2009

Blinded devil

Associazione Barriera, Torino

Il progetto presenta una sintesi del lavoro di co-produzione cinematografica realizzato dall'associazione interculturale G.V.K., mettendo in scena il processo di creazione, mediazione e costruzione di un linguaggio condiviso tra i partecipanti. Nel corso della serata Ten Century e Dr.Raw proporranno una performance di hip hop elettronico. A cura di a.titolo, Diletta Benedetto e Steve Della Casa.


comunicato stampa

a cura di a.titolo, Diletta Benedetto e Steve Della Casa

Giovedì 8 ottobre, alle ore 19 inaugura a Barriera il progetto blinded devil che presenta, in un’insolita veste espositiva, una sintesi del lavoro di co-produzione cinematografica realizzato a partire dal 2006 dall’associazione interculturale G.V.K., mettendo in scena non tanto il prodotto finale, quanto il processo di creazione, mediazione e costruzione di un linguaggio condiviso tra i partecipanti.

Il progetto espositivo è articolato come una sorta di contenitore degli elementi che compongono questo processo e prevede la proiezione di Akpegi Boyz, lungometraggio indipendente realizzato nel 2008, un salotto-instalazione con la prima puntata del web-serial blinded devil e una selezione di fotografie del “backstage” realizzate da Andrea Cantamessa.

Nel corso della serata Ten Century e Dr.Raw (autori della colonna sonora) proporranno una performance di hip hop elettronico e verrà offerto cibo nigeriano.

G.V.K. nasce da un incontro avvenuto nel maggio del 2006 fra il regista nigeriano Vincent Andrew e l’artista visivo torinese Simone Sandretti. Oltre ai due registi, fanno parte del gruppo Rose Okoh, in veste di produttrice e Marco Perugini, assistente tecnico e fonico.

L'associazione si pone come obiettivo principale la realizzazione di forme espressive visuali in grado di sintetizzare il lavoro di mediazione culturale, tecnica ed estetica generata dal confronto sperimentato quotidianamente al proprio interno.

Dopo la produzione cinematografica indipendente di alcuni lungometraggi, G.V.K. approda oggi alla proposta di un progetto artistico, blinded devil, che rappresenta uno dei possibili punti di raccordo tra la formazione artistica di Simone e la vocazione cinematografica in stile “Nollywood” di Vincent.

C’è il cinema africano che conosciamo attraverso i festival cinematografici o qualche rarissima uscita nei circuiti d’essai. Pochi film e registi di riferimento, e una vicinanza ideale e storica con un certo cinema d’autore sviluppatosi a partire dalle coordinate del “nostro” neorealismo e delle Nouvelle Vagues di tutto il mondo dai tardi anni Cinquanta e soprattutto dai Sessanta: un cinema importante, poetico, in qualche caso apertamente politico, che ci racconta l’Africa e le sue gioie e i suoi drammi estremi attraverso una narrazione originale, scelte sorprendenti, e una vitalità che riesce ogni tanto a superare la tragica mancanza di un sistema commerciale e istituzionale capace di supportare l’esistenza stessa del cinema nel continente attraversato, direbbero alcuni superficialmente, da problemi ben più urgenti. Un cinema importante, dunque, che però in Africa non ha un suo vero e proprio pubblico, e in Europa e nel mondo solitamente non riesce a coinvolgere davvero chi l’Africa l’ha lasciata, e dovrebbe in teoria seguire con attenzione quello che si organizza a proposito di essa: ne sono prova i molti appuntamenti organizzati in festival o rassegne che vedono un pubblico rigorosamente “bianco”, vanificando di fatto la potenzialità del cinema come acceleratore di una integrazione e multiculturalità non solo teorica. In questo c’entra la scelta dei luoghi - le rassegne open air, difatti, funzionano molto meglio - ma forse un problema è proprio nelle forme dei film stessi, nella misura in cui non riescono ad essere compiutamente cinema “popolare”, fatto di ricerca, poesia, riflessione, ma pur anche di azione, divertimento, e anche di star-system.

E poi c’è un altro cinema africano, conosciuto ai più (esperti e appassionati di cinema compresi) soltanto per intuizione, dalle copertine dei DVD (e fino a pochi anni fa delle VHS) che riempiono alcune vetrine soprattutto nei quartieri “multietnici”, come San Salvario o Porta Palazzo a Torino.
È quella produzione immensa, magmatica, sfuggente a ogni “controllo” che sia merceologico che sia storico-critico, che sotto il nome di “Nollywood” (come Hollywood nigeriana) sta cominciando a essere annotata dai nostri media come fenomeno di costume prima ancora che realtà cinematografica. Il problema di questa sottovalutazione (o non-valutazione), è che siamo lontani dal cinema di Bollywood, “indigeribile” per il pubblico occidentale per le durate estenuanti, l’accumulo di balletti, coreografie, stilizzazioni a sfida del kitsch, ma in fondo accattivante, “glamour”, sognante e consolante. I film di Nollywood, pure lunghissimi, parlatissimi, e lontani dagli standard del cinema mainstream sia “commerciale” che “d’autore”, sono una realtà “scomoda”, contraddittoria, disturbante, sia nelle storie di malavita e violenza affrontate - senza tirare in ballo un misticismo horror che rappresenta davvero un perturbante “altro” – sia nella crudezza della videocamera e del montaggio grezzo, realistico al limite della “camera a circuito chiuso”, scabroso, brutale, capace di mettere in discussione ciò che resta del “politically correct” e le certezze aprioristiche in tema di società e cultura. In fondo, il riferimento corretto ad altre cinematografie non è Bollywood, ma il filone della “Blaxploitation” dei primi anni Settanta, ispirato e destinato ai ribollenti quartieri neri delle metropoli americane. Rispetto a quei film, la fotografia e i plot sono ancora più “poveri” e basic, ma si sa, i tempi si sono fatti ancora più duri.

Un cinema, insomma, che non può trovare una chiave di lettura nella critica tradizionale e nei suoi approcci, ma chiede di scendere in campo, di esserne parte. Come spettatori, o ancora meglio come co-realizzatori, mettendosi in gioco, affrontando pienamente quella realtà che si può poi riassumere tornando alla semplice realtà del cinema come arte e industria al tempo stesso (dove per industria si intende per esteso anche un “artigianato” che sa “industriarsi”, appunto). Stiamo parlando di quello che in fondo è il cuore dell’esperienza produttiva G.V.K.: un salutare incontro di mondi e retroterra culturali diversi nel segno del fare concretamente cinema, immaginando subito un’idea di produzione, promozione e distribuzione che non si chiuda nel velleitarismo, nell’hobby dopo-lavoristico, nel circuito per “addetti ai lavori” e già-convertiti. E risulta ancora più interessante che questa esperienza venga presentata “in Barriera”, in un corto-circuito teorico-pratico che ci ricorda che è “in periferia” che si muove il nuovo e la sperimentazione. (Steve Della Casa)

Che cosa riesca a convincere un giovane artista e regista torinese, che ha studiato Herzog e Pasolini, produce video-happening post-situazionisti e ha una laurea in filosofia e una in scultura, ed un ex-barbiere nigeriano che vive a Torino, ha studiato cinema al Drama Club di Lagos e sogna di portare Nollywood in Italia a incrociare i loro destini professionali in un progetto di co-produzione cinematografica low-cost, si può spiegare forse soltanto facendo riferimento alla mitologia afro-occidentale del destino, quella del “puoi svegliarti anche molto presto all'alba, ma il tuo destino si è svegliato mezz'ora prima di te”.

Questo, del resto, non è che il primo degli elementi anomali sui quali ci si inciampa addentrandosi nel progetto artistico costruito dai due registi. Simone Sandretti e Mr. Vincent Andrew non sono soltanto in due: sono riusciti a mettere insieme un gruppo di lavoro (quasi) organizzato, democratico, dialettico, che dalla primavera del 2006 si dedica alla produzione e alla distribuzione indipendente di cinema, generando profitto.

L’aspetto più convincente dell’interesse di questo caso di economia creativa, con al centro un esperimento di produzione autenticamente interculturale, è che il risultato del lavoro di quel gruppo non ha nulla a che fare con le peggiori connotazioni dell’aggettivo “etnico”. Non rappresenta un’espressione dello sguardo antropologico posato dall’intellettuale artista occidentale sugli aspetti curiosi di un gruppo di concittadini esotici. Né soltanto, viceversa, racconta l’epopea della vita nel contesto migratorio dal punto di vista di chi è costretto lontano dal proprio paese d’origine.

La produzione che ha preso forma tra le mani e gli obiettivi dei due registi esprime davvero il tentativo di mediare due linguaggi, due visioni estetiche, formali e tecniche del cinema, dell’arte visuale, del mondo.

Attraverso una composizione creativa e quotidiana dei conflitti che percorrono il lavoro di tutto il gruppo, italiani e nigeriani, nel confronto sul metodo con cui affrontare praticamente ogni passo, prende forma una grammatica visuale inedita. Personaggi fortemente tipizzati, di matrice nollywoodiana, si sottraggono alla retorica didascalica e paradigmatica delle loro storie per inventare finali diversi, incrociare elementi che deviano il corso delle aspettative e intrecciare aspetti surrealisti o da Cinéma Verité. Influssi provenienti dalla storia del cinema nord-occidentale, masticata dalla maggior parte dei partecipanti italiani al progetto, si mescolano con l’immaginario estetico del regista nigeriano e della componente africana della troupe, ridimensionando la propria impronta intellettuale, smorzando la presunzione etnocentrica della propria legittimità storica e interagendo con i temi archetipici della filmografia nollywoodiana. Prostituzione, spaccio, tradimento, riscatto sociale, punizione e redenzione imbarcano in un certo senso complessità, abbandonando una parte della marcata referenzialità culturale che si portano dietro e riportando al pubblico occidentale un’immagine non stereotipata della vita nel contesto migratorio.

La scelta di una tecnologia rigorosamente low-cost, che rimette in gioco il ruolo del rumorista, rende indispensabile quello del trovarobe, fino a contemplare -per le scene in movimento- l’uso di una carrozzella al posto del carrello, e di una filosofia di circuitazione copyleft, che permette a chi lo desidera di scaricare le puntate di un serial gratuitamente dalla rete, non sembra essere casuale. Il prodotto finale del gruppo di Vince e Simone, infatti, vuole essere aperto, accessibile, partecipato. Affermando che un modello di lavoro piccolo, ”vernacolare”, costruito dal basso può attivare meccanismi sociali, economici e culturali interessanti ed estremamente innovativi; in grado di compensare, in parte, la rinuncia perpetrata dal mainstream al difficile confronto interculturale. (Diletta Benedetto)

Simone Sandretti non è nuovo a progetti collaborativi. Fin dai tempi del gruppo Olocolor’s, la cui fondazione risale a oltre dieci anni fa, Simone ha perseguito con ostinazione, e con l’irruenza che lo contraddistingue, la pratica artistica condivisa. Non in chiave progettuale, ma come piattaforma per l’attivazione di un processo creativo virtuoso capace di rivelare le proprie potenzialità in corso d’opera. Da cosa nasce cosa. Vero guastatore sulla scena urbana, Simone ha cercato di rompere, in forma anche provocatoria, il sonno della ragione di una scena artistica spesso autoriferita e incline al soliloquio. Si è dunque mosso in quello che Robert Rauschenberg ha definito “the gap between art and life”, suo malgrado con risultati alterni. L’esperienza di G.V.K., nata dall’incontro con Vincent Andrew, segna il passaggio per Simone a un grado superiore di consapevolezza. Non si tratta solo dell’accesso a una dimensione operativa più strutturata e complessa, quella del cinema, che è davvero, e non solo nelle intenzioni, opera collettiva, ma della vera e propria rottura di una cornice, insieme professionale e culturale.

Un caso esemplare di interazione tra culture (quella nigeriana del Delta State e quella italiana, e torinese), tra modi differenti di concepire e di fruire il cinema, una sperimentazione linguistica e creativa, un originale modello di produzione: tutte queste cose è Given Kindly with Vividness, che infatti, nonostante la vocazione carbonara e in assenza di mezzi economici ha già attirato l’attenzione della stampa nazionale e della televisione ben prima di essere nota a Torino, nella città dove è nata e ha trovato il set ideale. Un’esperienza nella quale il processo produttivo – cui è strettamente legata una drammaturgia in progress - è dal nostro punto di vista importante quanto il prodotto finale (dal casting on the road alla “mensa” africana, il cui sapore, inteso anche in senso metaforico, G.V.K. cerca di restituire nella presentazione a Barriera).

Nel gap tra arte vita qui c’è la fiction, declinata nel linguaggio immediato e popolare di Nollywood, una narrativa che trae spunto dalle vicende esistenziali dei nigeriani espatriati, raccontando uno spaccato sociale della quotidianità di una grande città del Nord Italia. Storie di mala-vita e di riscatto sociale, che per il pubblico italiano sono anche propedeutiche alla conoscenza di un mondo la cui nozione è di solito limitata alla (e dalla) cronaca nera. Questo non è solo cinema indipendente low-cost, non è solo un’operazione artistica di grande forza, come risulta evidente in un prodotto “ibrido” quale è blinded devil, ma anche un ponte comunicativo dall’immenso potenziale. (Luisa Perlo / a.titolo)

Info e ufficio stampa
Diletta Benedetto diletta.benedetto@gmail.com 338 7330453-347 5866616

Inaugurazione 8 ottobre ore 19

Associazione Barriera
via Crescentino, 25 Torino
orari: lun/ven 15-19; sabato 10-13
ingresso libero

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