L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Art'O (2005-2009) Anno 11 Numero 26 autunno 2008



Il teatro della memoria futura

Annalisa Sacchi

Su The sound of silence di Alvis Hermanis



cultura e politica delle arti sceniche


PRIMA PAGINA
Le teatre 1

ARS MEMORANDI
Il teatro della memoria futura
Su The sound of silence di Alvis Hermanis
di Annalisa Sacchi 4

Salve oscurità, mia vecchia amica
di Gianni Manzella 7

Il ricordo impossibile. Frammenti da Lev di Muta Imago
di Adele Cacciagrano 16

Realtà, rappresentazione, ricordo
I percorsi della memoria in Studio Azzurro
di Elena Marcheschi 22

The sleeping beauty: la memoria della Bellezza e l’immagine icastica
di Giulia Palladini 27

L’immagine come traduttore: dalla memoria condivisa alla memoria intima
di Viviana Gravano 32

Anamorfosi temporale e topologia dell’archivio: introduzione al future archive di Manuela Zechner
di Carla Bottiglieri 42

Selling the future
Un progetto di Antoni Muntadas 49

Memoria (g)locale
di Elfi Reiter 55

L’attore tra etica e estetica: al di là del talento – prima del talento
di Rino Sudano – a cura di Fabio Acca 60

Memorie in atto. Autobiografia, tradizione e trasmissione in Schritte verfolgen II di Susanne Linke
di Susanne Franco 69

Repeticija majbutnogo: la memoria di Kurbas secondo Nelli Kornijenko
di Erica Faccioli 74

Eisner l’ebreo
Romanzi a fumetti ebraico-americani e Fagin l’ebreo di Will Eisner
di Andrea Plazzi 78

ARS OBLIVIONALIS
WBNR – What Burns Never Returns
di Alessandro Carboni 88

Bodyspacescape
di Enrico Pitozzi 91

Tra arte e tecnologia. Opere immateriali e memoria del video
di Laura Barreca 98

Cancellare. Tracce di memoria in António Lobo Antunes
di Marco Dotti 103

DARK ROOM
Roma/Amor, ovvero il rovescio dello spazio teatrale
di Fabio Acca

ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

My Complement, My Enemy, My Oppressor, My Love. Kara Walker
Giulia Grechi
n. 28 autunno 2009

Teatro Superstite
Marco Pustianaz
n. 27 primavera-estate 2009

Deep Trance Behavior in Potatoland di Richard Foreman
Giulia Palladini
n. 25 primavera 2008

Il critico come etnografo?
Viviana Gravano
n. 24 autunno-inverno 2007

Alla ricerca del gesto perduto
Gianni Manzella
n. 23 primavera 2007

Da Slumberland al Parador
Monica Nannini
n. 22 inverno 2006




HELLO DARKNESS, MY OLD FRIEND / I'VE COME TO TALK WITH YOU AGAIN / BECAUSE A VISION SOFTLY CREEPING / LEFT ITS SEEDS WHILE I WAS SLEEPING?/
AND THE VISION THAT WAS PLANTED IN MY BRAIN?/ STILL REMAINS?/
WITHIN THE SOUND OF SILENCE


Fergus Kilpatrick, eroe dell’indipendenza irlandese, muore assassinato in un teatro il 6 agosto 1824, alla vigilia di una rivolta decisiva.
Le circostanze del delitto non vengono chiarite, si sospetta nella polizia inglese il mandante. Indagando sulla vicenda, Ryan, bisnipote di Kilpatrick, scopre che il braccio destro dell’eroe, un certo Alexander Nolan, era stato uno studioso di teatro, traduttore di Shakespeare ed esperto di festspiele svizzeri, quelle colossali rappresentazioni di massa che riproducono eventi storici nei luoghi in cui una volta occorsero.
Alcune circostanze precedenti l’assassinio gettano sul caso un’ombra di mistero. Si sa, ad esempio, che come Cesare che si dirigeva al Senato alle Idi di Marzo, Kilpatrick ricevette una lettera che l’avvertiva dell’agguato. Pare poi che si fossero sparse voci dell’incendio della torre di Kilgarvan, luogo dov’era nato l’eroe, e che tali voci prefigurassero la sciagura allo stesso modo in cui Calpurnia, moglie di Cesare, aveva sognato del crollo della torre che il Senato decretò al marito. Un mendicante poi, il giorno fatale, aveva scambiato con Kilpatrick parole che Shakespeare, due secoli prima, attribuì a Macbeth.
“Che la storia avesse copiato la storia era già abbastanza stupefacente; che la storia copi la letteratura, è inconcepibile…”.
Nella trama perfetta di Borges, alcuni giorni prima dell’omicidio, Fergus Kilpatrick aveva sospettato la presenza di un traditore nel consiglio per l’indipendenza, e aveva incaricato Nolan di scoprire chi fosse. Quel traditore, con avvitamento edipico, era lui stesso. Accettando la sentenza di morte Kilpatrick aveva però pregato il suo vice di non inficiare le sorti della rivolta smascherandolo pubblicamente. Nolan orchestrò allora una trama d’azioni per cui si credesse che l’eroe fosse stato assassinato dai nemici. Mancava il tempo. Nolan non poté inventare un dramma: studioso di Shakespeare, si limitò a citare alcune battute, alcune circostanze e certi gesti delle sue tragedie. L’eroe eseguì.
Il teatro fu il luogo decisivo, l’unico possibile, per la conclusione in cui Kilpatrick fu trapassato dalle pallottole, contemporaneamente citando la fine teatrale di Cesare e prefigurando l’omicidio a teatro di Lincoln quarant’anni dopo.
La chiave dell’enigma, il disegno nel tappeto, Ryan lo decifra perché ha memoria, ricorda le battute di Shakespeare, e così scopre la fonte delle citazioni, smascherando il carattere finzionale della storia. Il suo ultimo pensiero corre al fatto che Nolan avesse previsto tutto ciò, avesse disseminato indizi perché potesse essere svelata la finzione dell’evento, che appartiene alla storia solo come deposito di un altrove immaginario, di un teatro, di una rappresentazione.
Ciò che costituisce lo specimine del racconto di Borges è il fatto che, in questo caso, la citazione si presenta in due domini non omogenei, non si tratta cioè di un processo che induce la ri-emersione di un’immagine, di un gesto, di una frase entro il perimetro di un fatto comune: il fatto comune dell’arte, della letteratura, del teatro, determinando un metalinguaggio. È invece un caso in cui la storia copia la letteratura, in cui la verità storica viene assediata e collassa al cospetto dalla finzione teatrale.
Ma Borges dichiara dall’inizio del suo Tema del traditore e dell’eroe che si tratta di una trama a cui prima o poi vorrebbe mettere mano, un’ipotesi, un abbozzo di opera: ci troviamo dunque di fronte a un racconto che descrive l’intenzione di scriverne un altro che dovrebbe avere come oggetto un fatto (pseudo)storico a sua volta fondato sulla citazione di elementi estrapolati dall’invenzione drammatica.
The sound of silente di Alvis Hermanis funziona così, utilizzando gli stessi piani: la scena teatrale ricostruisce un ambiente, una sorta di comune sessantottesca o di squat, con una perizia che sulle prime potrebbe apparire filologica. Mangiadischi, radio e radioline, ferri da stiro, una macchina fotografica, un proiettore, sono estratti da un catalogo vintage che raggiunge una sorta di parossismo nell’abbigliamento, nelle parrucche, nelle acconciature degli interpreti. A questo livello, The sound of silente sembrerebbe una ricostruzione in qualche misura storica, lo spaccato, vagamente nostalgico, di un possibile ’68. Siamo cioè nella stessa situazione del racconto di Borges, laddove la cornice finzionale inquadra un evento di una storia possibile. Anche qui però, come in Borges, l’antefatto fornisce un indizio straniante. Si riferisce alla circostanza per cui, nel 1968, a Riga, era previsto il concerto, che non ci fu, di Simon&Garfunkel. Quello che appare in scena non è così la ricostruzione di un passato, ma la cattura di un’essenziale impurità, tra dettaglio autentico e proliferazione di una galassia di immagini che ri-fondano un ‘68 solo sognato: è l’ambiguità della memoria, la sua costruzione postuma, la sua apparenza (pseudo)storica, la sua trama finzionale, il cui inganno, come in Borges, è palesato attraverso l’evidenza citazionale. Dove Nolan usa Shakespeare, Hermanis ricrea intere sequenze da Il laureato, Hollywood Party, Blow up. Entrambi invitano lo spettatore non alla contemplazione, ma all’indagine.
The sound of silente è lo spettacolo di una collettività sognante che unisce gli interpreti al pubblico per mezzo di una memoria paradossale non del passato che fu, ma della sua decantazione nella costruzione di una memoria condivisa e fondata sulla citazione della moda, del cinema, della musica.
Non solo la manifestazione fenomenica della collettività sognante del ’68 (o sognante il ’68) non riesce in alcun modo ad essere cancellata dal ricordo, ma essa lo caratterizza in modo più decisivo di quanto non sia mai accaduto in ogni altra epoca del passato, come se lì fosse contenuta l’impronta, l’arcano di ogni giovinezza. Non assistiamo così al manifestarsi di una memoria personale, siamo di fronte all’elaborazione scenica di un mito (d’oggi).
Proviamo allora a contemplare quest’opera di lontano, sottraendoci alla vista della sua evidenza più palese (l’utopia, la liberazione sessuale, la vita di gruppo, la ricerca di una felicità possibile) per guardarla in tralice e nella sua struttura.
Innanzitutto si tratta di un lavoro in cui gli interpreti non proferiscono una parola, e una certa forma di testualità migra dalle canzoni di Simon&Garfunkel che saturano lo spazio, emesse da dischi e radio e poi anche da barattoli, da libri, da tubature, come se tutta la scena fosse una gran cassa armonica, un luogo di captazione e di attrazione di onde sonore. Ma se nella prima parte lo spettacolo emana una specie di beatitudine, una giovinezza leggera dell’azione, solo a tratti cortocircuitata da brevi innesti perturbanti, nella seconda delle ombre dolenti si addensano sulla scena, precipitando in una morte conclusiva. Esclusa la testualità, il pathos si stacca dal movente psicologico dell’agire e aderisce alle immagini e ai gesti. È lì che Hermanis cerca un campo energetico in cui ogni situazione e occasione si intensifichi all’estremo, e gli intrecci minuti, quotidiani, su cui si sviluppa l’azione raggiungano una tensione patetica perché un destino ha galvanizzato questo gioco, ed è un destino che lo spettatore conosce e può prefigurare.
Da queste premesse e per i motivi che cercherò di esprimere di seguito, mi pare derivi il sospetto che questa scena corrisponda nel modo più sorprendente alla forma tragedia, che tenti essa stessa di captare la forma attuale del tragico.
Innanzitutto perché, attraverso l’edificazione di un immaginario visuale, gestuale e musicale condiviso, The sound of silence diviene un luogo d’appropriazione simbolico-immaginaria dell’esistenza collettiva, sebbene non più fondata su un’identificazione legata alla polis.
Un simile immaginario è poi una creazione mitica, un catalogo che è la memoria di quei miti d’oggi descritti da Roland Barthes , anche se il rammemorare dello spettacolo, come cercherò di dimostrare nell’ultima parte, risale ben oltre gli anni sessanta.
La musica pop e nostalgica di Simon&Garfunkel è lo specchio di quel mondo mitico, il nucleo sonoro di una visione che cerca qui la sua manifestazione: più profondamente, Simon&Garfunkel sono il coro di una simile tragedia, sono il primo elemento che connette il pubblico alla scena, sono il logos aberrante di uno spettacolo in cui nessuna parola è detta, i cui eroi sono muti e innocenti e anonimi come un’umanità pre-adamitica, come un tempo prima della nominazione.
Il destino, infine. Se il mito d’oggi, com’è stato analizzato da Barthes, è una creazione incessante della borghesia, specie nei suoi istanti rivoluzionari, questo destino trova il suo pieno significato nello spirito elementare dell’appianamento, della normalizzazione.
Allora nella nuda e palese compagine del quotidiano si annida il destino tragico, che ci fa percepire un moto d’oppressione all’idea che la vita si svolga così. Connesso alla borghesia, questo destino, non eroico, non terribile, non luttuoso, questo destino tragicamente banale, è immancabilmente quello del matrimonio, della famiglia, della casa.
Ma Hermanis ci riserva un finale ulteriore, e lì vi balena per un attimo l’eroe come la tragedia attica lo immaginò. Questo eroe viveva, nel tempo in cui il mito moderno del ’68 prendeva spessore e corpo in occidente, dall’altra parte della cortina, forse proprio a Riga, e aveva l’aspetto sbiadito di un impiegato anonimo. È quest’uomo qualsiasi che, alla fine, muore come Ofelia di una morte acquatica, si sacrifica per gli altri, perché quel ricordo impossibile di un passato che non è stato, rimanga in equilibrio sulla scena almeno fino alla fine della canzone, fino all’uscita del coro.

AND IN THE NAKED LIGHT I SAW /?TEN THOUSAND PEOPLE, MAYBE MORE?
PEOPLE TALKING WITHOUT SPEAKING?/ PEOPLE HEARING WITHOUT LISTENING?/
PEOPLE WRITING SONGS THAT VOICES NEVER SHARE?/ AND NO ONE DARED?/DISTURB THE SOUND OF SILENCE??


Si ricorda per immagini. Ma si ricorda per suoni, anche, e Walter Benjamin associò una volta l’impressione di déjà vu non a qualcosa di visto, ma a un piombare nel passato a causa di un suono: “Il déjà vu è stato descritto spesso. Ma l’espressione è proprio indovinata? Non si dovrebbe parlare di circostanze che ci colpiscono come un’eco, il cui suono originario sembri essere stato emesso nell’oscurità della vita anteriore?” .
Non “già visto” dunque, ma “già sentito”, come se l’impressione auditiva fosse la più intensa, quella più capace di far vibrare i vasti quartieri della memoria.
Allo stesso modo il sogno, diceva Freud, pensa per immagini ma anche per suoni, e in questa scena sommamente onirica è la musica che detta all’immagine la sua figurabilità, scolpisce i gesti, disegna la trama delle relazioni, costruisce la traiettoria di quanto noi, poi, come nel lavoro del sogno, ricorderemo e proveremo a mettere in parola; è la musica una di quelle porte – di cui parlerò nell’ultima parte – attraverso cui passa la veggenza di The sound of silence, la sua memorabilità a venire.
All’inizio dello spettacolo, due ragazze penetrano nell’ambiente, azionando una serie di radio e giradischi dai quali immancabilmente, e ripetutamente, escono le note della canzone famosa che dà il titolo al lavoro. È il primo atto del riconoscimento, l’ingresso loro e il nostro nel teatro della memoria. Non a caso, la ripetizione continua della prima strofa di The sound of silence è la stessa della formula magica, delle pratiche di incantamento, ma anche dell’esercizio mnemonico, la chiave d’accesso allo spettacolo che contemporaneamente fa esorbitare altre visioni, altri ascolti, che apre (al)la memoria personale. Questa musica così familiare è però orchestrata secondo una logica – un’intelligenza verrebbe da dire – delle intensità, che percorre tutta la gamma timbrica dal fortissimo al diminuendo al piano al pianissimo, producendo di quando in quando delle deflagrazioni erratiche del suono captato da antenne, da libri, da barattoli, da una bocca spalancata...
Ma è poi a un sussurro ineffabile che tutta la scena anela, come quella canzone che parla di un impossibile suono del silenzio messo in musica, poiché cantare dispensa dal dire, cantare è un modo di tacere.
Quattro anni prima che Simon&Garfunkel incidessero The sound of silente, un filosofo francese di origine ebraica, che aveva fatto parte della Resistenza e avrebbe avuto un ruolo attivo nel ’68 parigino, scriveva, citando Mallarmé ([…]Du doigt que, sans le vieux santal/ Ni le vieux livre, elle balance/ Sur le plumage instrumental,/ Musicienne du silence ), dell’ineffabile musica del silenzio.
Vladimir Jankélévitch parlava di una musica penetrata da tutte le parti dal silenzio, e silentio, ad silentium, per silentium: dal silenzio al silenzio attraverso il silenzio ne sarebbe stato il motto.
Per arrivare al silenzio, la musica passa dal quasi-niente, dalla soglia dell’udibile, l’appena sensibile alla frontiera tra il materiale e l’immateriale che è il pianissimo. Afferrare l’istante liminale in cui la musica diventa silenzio o quello, del tutto simmetrico, in cui dal silenzio sorge la musica sembra essere il gesto decisivo di The sound of silente. L’estinzione progressiva della musica, o al contrario il sorgere istantaneo di questa micromusica, sono tanto sommessi da farci chiedere se udiamo davvero quel suono o lo stiamo prolungando nel ricordo, se quello che percepiamo è la distanza stessa, addirittura l’assenza della musica dalla quale penetra – solo per noi, grazie a noi, attraverso il nostro ricordo – il suo fantasma, la sua apparizione sonora.
L’opera in pianissimo solleva la materia del ricordo, fa diventare materiale una reminiscenza che non appartiene a nessuno e che tutti riconoscono. E allo stesso tempo la musica sembra plasmare istantaneamente l’immagine delle figure in scena, quasi che queste fossero modellate e modulate dal materiale sonoro, fossero soffiate in scena come la piuma che, fin tanto che rimane in aria, continua a catturare le note di Simon&Garfunkel. È questo soffio, quest’aria la sostanza attraverso cui si trasmette il ricordo, come sembrava suggerire Walter Benjamin: “Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco delle voci ora mute?” . La musica rende possibile questo appuntamento segreto tra le generazioni che sono state e la nostra, materializzando in scena un tertium che è un fantasma onirico, attualizzazione insieme di un ricordo e di una proiezione, anamorfosi di un’immagine del desiderio.
Il silenzio, come diceva Jankélévitch, fa apparire il contrappunto latente delle voci passate e di quelle che verranno, abitualmente offuscate dal tumulto del presente, a un tempo rivelando la voce inudibile dell’assenza, di solito ricoperta dal chiasso assordante delle voci presenti: “La musica, silenzio udibile, cerca quindi del tutto naturalmente il pianissimo del ricordo, che sussurra come un amico lontano all’orecchio mentale dell’uomo” .

AND THE PEOPLE BOWED AND PRAYED?/ TO THE NEON GOD THEY MADE?/ AND THE SIGN FLASHED OUT ITS WARNING?/ IN THE WORDS THAT IT WAS FORMING?/ AND THE SIGN SAID,
"THE WORDS OF THE PROPHETS ARE WRITTEN ON THE SUBWAY WALLS?/
AND TENEMENT HALLS"/ AND WHISPERED IN THE SOUNDS OF SILENCE

The sound of silente è uno spettacolo che potrebbe essere citabile in ciascuno dei suoi momenti, e quindi, nella visione benjaminiana della storia, uno spettacolo capace di essere interamente salvato (contrariamente al pregiudizio ricorrente circa lo statuto ontologico dell’effimero come assenza integrale della performance dopo la sua manifestazione). Non siamo infatti tanto di fronte a un teatro della memoria in quanto passato, del ricordo, quanto a un teatro della memoria del futuro. Ovvero, a un teatro della memoria destinato allo spettatore, a quello che lui, dopo la visione, ricorderà. In definitiva, si apre dinanzi a noi un luogo d’elaborazione di una mnemotecnica.
Quello che vorrei dimostrare, è che The sound of silente rimetta in movimento, attraverso una serie di elementi precisi, un sapere antichissimo, che percorre la storia del pensiero e si insinua in quella del teatro come un fiume carsico, un sapere legato a certe tecniche: un’ars memorandi, l’arte millenaria di potenziare le doti e la “capienza” della memoria naturale.
“Gli uomini – scriveva l’anonimo autore di un trattato quattrocentesco sulla memoria – inventarono arti diverse e numerose per aiutare e potenziare l’opera della natura. Constatando la labilità della memoria, legata alla fragilità della natura umana, escogitarono un’arte mediante la quale fosse possibile ricordarsi di molte cose che, per via naturale, non potevano essere ricordate. Nacque così la scrittura e poiché in tempi successivi gli uomini si resero conto di non poter portare sempre con sé le scritture e che non sempre scrivere era possibile, inventarono, fino dai tempi di Simonide e di Democrito, l’arte della memoria artificiale” . Una simile arte rappresenta, fuori dal dominio del suo utilizzo, fuori cioè da un tempo in cui la memoria era ausilio essenziale in assenza della stampa, un fossile culturale. Tale non sembra però essere se ci posizioniamo nel perimetro del teatro o, come ha dimostrato di recente Carlo Severi, in quello dell’antropologia della memoria in rapporto ai “popoli senza scrittura” . Non mi è possibile qui sviluppare ulteriormente quest’ultimo punto che meriterebbe un’attenzione specifica: tenterò piuttosto di abbozzare uno schizzo breve e del tutto incompleto dei tratti generali dell’ars memorandi, da ricondurre – attraverso la fase rinascimentale in cui i teatri di memoria furono edificazioni reali, architettoniche – alla scena che qui ci interessa.
Bisogna risalire ad Aristotele per incontrare i primi indizi di una possibile tecnica del ricordare connessa al principio di regolarità, alla legge dell’associazione, alla relazione tra memoria e luogo. Ma perché le prescrizioni che organizzano l’ars memorandi trovino la loro forma compiuta è necessario aspettare che a Roma un anonimo maestro di retorica compili, ad uso dei suoi studenti, un manuale rimasto noto col nome dell’uomo cui venne dedicato: l’Ad Herennium. Dalla sua composizione (86-82 a.C.), questo testo attraverserà il Medioevo e il Rinascimento rimanendo la fonte imprescindibile per chiunque lavorasse sull’ars memorandi. Esso definisce come la memoria artificiale si basi su “luoghi” e immagini: “constat igitur artificiosa memoria ex loci set imaginibus”, tale risulta essere il fondamento essenziale di ogni mnemotecnica. I luoghi devono essere ordinati in un percorso lineare, una sorta di strada sulla quale vengono disposti: si tratta di elementi facilmente evocabili dalla memoria, come angoli, archi, intercolumni, case. All’interno di questi loci vengono disposte delle immagini. Tanto più tali immagini saranno straordinarie, impressionanti o insolite, meravigliose o ridicole, tanto meglio assolveranno al compito di essere imagines agentes, ovvero di permettere la fissazione mnemonica.
Frances Yates è stata la prima ad avanzare l’ipotesi che l’arte della memoria intercetti il teatro a livelli diversi, sospettando, già nella sua analisi dell’Ad Herennium, che ci fosse una scena nel pensiero dell’autore, per il quale la memoria è fissata attraverso alcune maschere (singulis personis). Scrive la Yates: “L’uso del termine persona (maschera) per l’immagine di ‘memoria per le cose’, è interessante e curioso. Implica forse che l’immagine mnemonica potenzia il suo effetto d’urto esagerando il suo aspetto tragico o comico, come fa l’attore indossando una maschera? O suggerisce invece che la scena era una probabile fonte di impressionanti immagini di memoria?” .
È però a partire dal Rinascimento che il teatro diviene un termine irrinunciabile di confronto per l’ars memorandi, sin da quel gran progetto fallito che fu il Teatro di Giulio Camillo detto il Delminio, di cui non rimane che l’Idea (1556).
Camillo immagina, (e forse ne realizza un prototipo in legno) un teatro in cui lo spettatore che vi viene ammesso sia in grado di padroneggiare, d’un sol colpo, tutto il sapere, grazie a un sistema di luoghi e immagini bastanti a “tener a mente e ministrar tutti gli humani concetti, tutte le cose che sono in tutto il mondo” . In questo caso lo spettatore occupa la scena, mentre le gradinate sono affollate di un complesso sistema di loci (porte e volte) in cui vengono inserite delle immagini.
Anche se si tratta di un teatro mentale, Camillo nel disegnarlo ha in mente quelli romani descritti da Vitruvio, dai quali mutua la pianta e l’uso delle porte, che nel teatro reale erano cinque e occupavano la frons scenae. Ma il teatro di Camillo non ha palcoscenico: la sua scena si affolla sulle gradinate, e dunque le porte, cui vengono attribuite specifiche proprietà memorative, diventano sette e sono trasferite nelle corsie dell’auditorium.
Camillo rappresenta solo un caso tra quelli, numerosissimi, che nel Rinascimento testimoniano della relazione tra memoria e teatro: dal Theatrum vitae humanae (1565) di Theodor Zwinger alle Inscriptiones vel tituli theatri amplissimi (1565) di Samuel Quicchebergs, al Theatrum Mundi (1581) di Pierre Boaistuau, all’Universae Naturae Theatrum (1597) di Jean Bodin al Theatrum Scholasticum (1610) di Johann Heinrich Alsted, fino al caso forse più rilevante, il Theatrum orbi descritto da Robert Fludd nella sua Ars memoriae (1619).
Su un piano generale, tutti questi esempi descrivono il luogo ideale in una scena che ha però a che vedere con un’astrazione teatrale, non con un’entità materiale, sebbene ciò testimoni come nel Rinascimento la “cosa” (immagine, parola, concetto) faccia appello alla scena per fondare il suo memorabile. Tutti questi esempi meno uno, il Theatrum Orbi di Fludd, nel quale forse è possibile intravedere il profilo reale di un teatro della storia. È lì, nel crocevia tra ars memorandi e scena materiale, che si incunea la straordinaria ipotesi della Yates, la sua possibile ricostruzione della scena del più famoso dei Teatri del mondo: il Globe Theatre di William Shakespeare (e forse un qualche Nolan aveva previsto tutto ciò).
Robert Fludd era un filosofo ermetico tra i più noti del Rinascimento inglese, seguace della tradizione ermetico-cabalistica di Ficino e di Pico della Mirandola. Scrisse un testo monumentale, ingombrante sin dal titolo: Utriusque Cosmi Maioris Scilicet et Minoris, Metaphysica, Physica atque Technica Historia, che contiene uno studio sulla “scienza della memoria artificiale”.
Nell’analisi della Yates, “Fludd erige quello che è forse l’ultimo grande monumento della memoria rinascimentale. E come il suo primo grande monumento [il Teatro di Camillo, Ndr], anche il sistema di memoria di Fludd assume il teatro come propria forma architettonica” .
In breve, il sistema di memoria immaginato da Fludd, sempre fondato su immagini e luoghi, opera per mezzo di edifici che vengono da lui definiti teatri: sono, più precisamente, dei palcoscenici, ancora più precisamente, dei palcoscenici elisabettiani (e, se ammettiamo le conclusione della Yates, in una riproduzione di Fludd compare l’unica ricostruzione del palcoscenico elisabettiano par excellence, quello del Globe), a due piani, dove, come nei teatri classici, si aprono cinque porte.
“Ciascuno dei teatri dovrà avere cinque porte distinte l’una dall’altra e pressappoco equidistanti” .
L’utilizzo mnemotecnico delle cinque porte dei teatri, secondo la spiegazione fornita da Fludd poco più avanti, è che esse debbano servire come cinque loci di memoria.
Al di là dei teatri a due piani Fludd indica anche alcuni teatri secondari, a un piano solo, più simili a stanze a cui sia stata eliminata una parete per permettere la visione. Questa forma del palco come stanza per la memoria era presente anche nella Mnemonica, sive ars Reminiscendi che John Willis fece pubblicare a Londra un anno prima del colossale studio di Fludd, in cui l’autore descrive un sistema di memoria formato da sequenze di teatri o “depositi”.
Ora, la scena di Hermanis è precisamente una frons scenae con cinque porte allineate, disposte a una distanza costante l’una dall’altra. Ciascuna porta immette nella porzione di palco che idealmente definisce una stanza: abbiamo così cinque stanze, cinque magazzini di memoria.
Le porte funzionano, contemporaneamente, per “incorniciare” l’azione (che si trova compresa nell’intervallo tra due o stagliata contro una di esse) e per definire un ambiente o camera: sembrano così saldate le due indicazioni di Fludd, quella relativa al palco che deve contenere cinque porte equidistanti e quella che definisce un teatro di memoria come una semplice stanza o, come in Willis, come un sistema di stanze allineate. È con queste porte sullo sfondo, è all’interno di queste stanze, che la figura dell’attore e il suo gesto si caricano fino a saturarsi di memoria, fino a essere integralmente citabili.
Perché infatti un’immagine sia agente, essa deve poter essere citabile. Lo è tanto più, in quanto è citazione di un patrimonio visuale riconoscibile ed evocabile a piacimento, come ha sottolineato la Yates nel definire che l’ars memorandi usi per i suoi luoghi di memoria l’architettura contemporanea e per le sue immagini l’arte figurativa contemporanea .
Allo stesso modo, in The sound of silence il gesto dell’attore è citazione di un immaginario condiviso: lo spettacolo utilizza, come nei sistemi mnemonici, un patrimonio riconoscibile, un deposito di immagini tratte dall’arte visiva o in questo caso dalla cinematografia che il pubblico immediatamente può riconoscere.
Dalle cinque porte che si aprono sulla scena entra così nel cervello dello spettatore, e lì vi si pianta (and the visione that was planted in my brain still remains..), il ’68, Robert Fludd, il teatro di Camillo, il Globe Theatre, insieme agli spettacoli che ancora non abbiamo visto.
Per questo motivo The sound of silence è lo spettacolo che contiene, del teatro, la sua preistoria e la sua storia futura, mentre la memoria dello spettatore, come l’Angelus novus di Benjamin, rivolge il suo sguardo sulle rovine della scena passata, di tutta la scena passata, e intanto è sospinta inarrestabilmente verso il futuro in cui la ricorderà.


Ad Andrea, Gianni, Gilda, Giulia, Joe, Ludovica, Nick, Stefano, Valentina, Vanda, Viviana