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Millepiani/Urban Anno 2009 Numero 1



Metamorfosi dell'urbano

Tiziana Villani

Istituzioni e diritti della nuova Polis





SOMMARIO millepiani/urban1

premessa 5
introduzione: Uni(di)versité:
Quali progetti per le città 2007-2008

Bruno Aubert–Florence Ferran
Paesaggi urbani in Europa 7

ANALISI

Françoise Choay
Identità culturale e identità antropologica:
l’Europa urbana di fronte alla mondializzazione 15

Thierry Paquot
Urbanizzazione planetaria
ed eco-urbanismo sensoriale 37

Tiziana Villani
Metamorfosi dell’urbano 55

Massimo Ilardi
Dieci tesi su territori e minoranze 69

Stefano Catucci
Prolegomeni
a un’architettura delle relazioni 77

Ubaldo Fadini
Intensità urbane 87

LINEE DI RICERCA

Claudia Mattogno
Paesaggi urbani
della contemporaneità 105

Paola Di Biagi
La città pubblica:
figura spaziale della contemporaneità
e dell’abitare quotidiano 119

Christophe Laforge–Martin Rascle
Paesaggi della periferia 127

ESPRESSIONI URBANE

Philippe-Alain Michaud
L’ultimo degli stiliti 139

recensioni & segnalazioni 161
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n. 4 2012

Neuro Habitat
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n. 3 2011

Tre alfabeti o l'urbanista postmoderno
Leonie Sandercock
n. 2 2010


Gordon Matta Clark
Bronx Floors Threshole
1972

Gordon Matta Clark
Clocks shower 1

Gordon Matta Clark
Splitting, 1974

La tendenza all’inurbamento è un indicatore ineludibile della trasformazione non solo del nostro pianeta, ma dell’intero modo di considerare le esistenze.
Alcune riflessioni risultano così necessarie per iniziare ad articolare l’insieme di questioni che questa rivoluzione richiede. In primo luogo occorre soffermarsi sullo stesso concetto di urbano, poiché la città, la città moderna non esiste più, al suo posto un arcipelago di configurazioni urbane, in massima parte, periferie, slums, insediamenti transitori hanno preso il suo posto. Soffermarsi su alcuni dati può agevolare la considerazione di questo fenomeno che velocizza, in modo impressionante, la trasformazione e la vocazione dei territori.
Nel rapporto del’International Monetary Fund, dedicato alla rivoluzione urbana, David E. Bloom e Tarun Khanna indagano quella che chiamano emergenza delle magacities, poiché i ritmi di inurbamento e di crescita delle aree metropolitane appare molto differenziato.( 1 )
Realtà come Tokyo, Mumbai, Sao Paulo, Mexico City crescono ad una velocità maggiore di altre, in ragione di tutta una serie di fattori economici, di trasporto, di infrastrutturazione, ma soprattutto dei flussi migranti.

Tuttavia, la crescita di queste realtà non può essere letta immediatamente come un correlato dello sviluppo economico, spesso questi movimenti di inurbamento diffusi sono l’esito di una concentrazione di squilibri, tendenze contraddittorie, approdi, tentativi di sopravvivenza e fuga da sistemi economici violentemente sganciati dai bisogni primari delle popolazioni. L’assenza di progettazioni avvedute di questi spazi urbani esplosi, non è una casualità quanto la scelta di privilegiare alcuni nodi su scala planetaria capaci di favorire la valorizzazione dei capitali finanziari a fronte di un più o meno dissimulato disinteresse per le condizioni di vita delle popolazioni, sia nell’ambito dei diritti, sia dei servizi anche più elementari.
La città industriale e poi quella terziaria e quaternaria, che si ponevano come centri nevralgici dei diversi modelli socio-economici, appaiono oggi messe in crisi dalla città esplosa e gravante su un ambiente sempre più depauperato delle sue risorse. Infatti, alla crescita urbana corrisponde un’omologazione delle colture, parimenti alla privatizzazione delle risorse sempre più concentrate nelle mani delle multinazionali.

Questa crisi chiama in causa tutta una serie di problemi che attengono in primo luogo il sistema del consumo, dell’energia e della produzione di rifiuti.
In una sua puntuale analisi riguardante l’ipercrescita delle megalopoli del Terzo mondo, Mike Davis, precisa la connessione tra inquinamento, impoverimento e dilatazione delle periferie: “Con una quantità stimata in un miliardo di persone che abitano nelle periferie povere di tutto il pianeta (ci si aspetta che questa cifrà sarà raddoppiata nel 2039, la povertà urbana crea in se stessa dei nuovi ambienti epidemiologici e spiana la strada a infezioni come il virus dell’AIDS e l’influenza aviaria. Molto più che al tempo di Marx e Dickens, i quartieri poveri periferici costituiscono oggigiorno il problema sanitario e ambientale globale per eccellenza. E rappresentano, inoltre, la sfida più importante alla solidarietà umana”.( 2 )
Questo passaggio critico appare di difficile gestione proprio per la rapidità con cui si sta realizzando, esso provoca inoltre spinte sociali dominate dal trauma dell’insicurezza, della xenofobia e dell’incapacità di potersi riconoscere, in modo un po’ più stabile, in un territorio e all’interno del suo sistema di relazioni.
La disinformazione intenzionale aggrava questa situazione, studi inerenti i nuovi focolai epidemici nell’ambito delle periferie, al pari delle conseguenze prodotte dall’inquinamento, dallo stress, dai suoli e acque contaminate sempre che ancora disponibili, restano una riflessione per addetti, oppure rischiano di ottenere improbabili risposte tra cui basta menzionare le improbabili progettazioni dell’architettura contemporanea.
L’urbano finisce con il coincidere con la dimensione periferica. Questa affermazione non è priva di conseguenze, proprio perché occorre comprendere la pregnanza di questo termine. Periferico non è così solo lo spazio, ma anche le esistenze che vi si esprimono.

Desidero a questo punto insistere sulla differenza che intercorre tra il concetto di “periferico” e quello di marginale”. Se consideriamo l’urbano nel suo divenire periferico, ci accorgiamo immediatamente come questa accezione contenga in sé un elemento che è si di discriminazione, ma che contempla anche la sua estrema rilevanza in rapporto al sistema delle nuove gerarchie transterritoriali. La crescita della dimensione periferica innerva l’intero tessuto urbano, ne è la vocazione più propria, poiché in essa convive la produzione di nuova economia, la latitanza degli interventi pubblici, sistemi di sopravvivenza interstiziale e tecnologie di ultima generazione. Inoltre, in questi ambienti si addensano, si caricano, si reprimono e poi ancora si abbandonano le trasformazioni sociali, gli esodi, le terre di nessuno e poi i territori della sparizione e della smaterializzazione.
Particolarmente pregnante risulta l’analisi che il geografo M. Lussault, ha voluto dedicare alla redefinizione, anche concettuale, del sistema periferico: “La periferizzazione non si riduce ad un semplice fenomeno di estensione di una forma nell’esteso; essa costituisce un nuovo incrocio spaziale delle realtà sociali, che organizzano dei geotipi specifici, che si possono ritrovare in ogni posizione all’interno degli insiemi urbani. I geotipi periferici (suburbani e periurbani) sono caratterizzati dal fatto che sono meno densi e diversi da quelli centrali e peri-centrali, quale che sia la loro localizzazione”. ( 3 )
Dunque dobbiamo soffermarci sulla capacità, di questo fenomeno, di trasformare l’inter sistema urbano seppur nelle diverse configurazioni assunte nelle diverse realtà del mondo. Se l’urbano è per sua natura plastico, il periferico lo è in maniera ancor più accentuata. Le megalopoli asiatiche, latino americane, africane conoscono un “farsi” dei propri territori praticamente incessante. Possiamo così parlare di una geografia cangiante che non si limita a trasformare i territori nella loro materialità, ma che si intreccia sempre più profondamente con la precarietà del vivere. La crescita urbana come fattore capace di attrarre capitali, ricchezze e in definitiva maggior benessere è una narrazione che non regge più, soprattutto se vista alla luce del violento passaggio che, in aree come l’India e la Cina, si è prodotto dall’economia rurale a quella urbana.

Tuttavia l’esodo continua, imponendoci di considerane aspetti che talora vengono troppo frettolosamente liquidati, sia da letture neo-positiviste che da interpretazioni estetizzanti. Le aree rurali che vengono abbandonate sono nell’oggi spazi “perimetrati” dalle multinazionali del settore agro-alimentari; sementi, raccolti, sistemi di produzione sono standardizzati al pari degli altri settori economici e ad essi vi si può piegare solo una manodopera sempre più ricattata e sottopagata. In questo modo la città torna ad essere un’alternativa, anche grazie alla sua economia dei rifiuti che costituisce un settore sottaciuto (se non nell’ambito dell’emergenzialismo), della sopravvivenza di molti, moltissimi.
È grave l’ipocrisia che vuole relegare alla cronaca o a un malsano folklore questa dimensione che ci dice quale sia la nuova condizione di uomini che vivono come topi.
L’ “immondizia” non è solo un affare per i circuiti della malavita, né uno spreco causato da civiltà incapaci di stili di vita più austeri, come affermano con ipocrita falsa coscienza molte campagne mediatiche o di pseudo informazione; l’immondizia, i rifiuti sono il nostro ambiente parallelo.
Avanzi di cibo, di vestiti, di cose, ma anche di tecnologie che diventano così rapidamente obsolete, e ancora bottiglie di plastica, medicinali scaduti, materiali di scarto delineano il paesaggio di questa infinità discarica, che affetta in modo sempre più decisivo l’urbano. Se questo fenomeno sembra evidente nelle grandi aree urbane dell’Asia, dell’Africa e del Latino America, nondimeno esso attraversa anche il Nord del mondo rivelandone la fragilità ed una pari esposizione. Gli spazi “naturali” incontaminati, “a misura d’uomo” ormai non sono altro che disney cities pensati e creati per élites di ogni parte del pianeta. Si ripropone così il fenomeno della privatizzazione e securizzazione di queste enclave, richiamanodone le diverse tipologie Th. Paquot, afferma che: “Esistono dunque molti modi di privatizzare una città, ma il risultato è sempre lo stesso (poco importa quale) ossia impedire alla città di fare ‘società’, cioè di edificarsi a partire dall’insieme delle attività, della mescolanza sociale, della diversità culturale, di questi così arricchenti métissage. Questa esclusione suppone l’interdizione. E l’interdizione richiama la regolamentazione (da qui le restrizioni, ivi compreso il colore della facciata della propria casa o nella recinzione del proprio giardino!) e la sorveglianza”.( 4 )
Ma, fuori dalla città non c’è più nulla. Tutti i meccanismi di securizzazione dei territori urbani sono per questo destinati a fallire chiamando così in causa nuove procedure di controllo, che dovranno attivare meccanismi di privatizzazione di ogni spazio possibile come mai si era visto in precedenza. Non esistono più “spazi altri”, “luoghi di fuga” se non nelle pieghe di questa stessa esplosione urbana che sta rimodellando l’inero ecumene.

Maximum City!
Bombay, una delle più esplose città del mondo, dove si coniugano il cuore trainante dell’economia indiana in intensa crescita e gli slums più o meno abusivi, più o meno tollerati nell’insieme del tessuto urbano.
Suketu Mehta, nel suo ormai famosissimo e importante saggio Maximum City, che ha come orizzonte di riflessione le diverse pieghe e realtà della città di Bombay nel nostro tempo, ne parla in questi termini: «Arrivi da una sudicia strada di Bombay, e sei a Soho. Non si risparmia nulla per farne un luogo straniero, i camerieri, il cibo, gli arredi. Il primo mondo sbattuto in mezzo al terzo. In società incontro persone che sanno dirmi dove compare la migliore cioccolata di Parigi, ma ignorano dove si possa trovare un buon bhelpuri – l’equivalente locale del trancio di pizza a New York – a Bombay. Si potrebbe pensare che per andare da South Bombay al resto della città – l’area demarcata dal cavalcavia di Mahim, dal posteggio dei taxi a quello degli autorisciò – ci voglia un visto. Ciò non significa che questa gente appartenga di meno alla città perché la esclude con determinzione e quasi integralmente dalla propria vita. Bombay è sempre stata una città di esiliati interni: stravaganti parigini a Colaba, banchieri londinesi a Cuffe Parade. Se mai dovessero trasferirsi nelle città dei loro sogni, si sentirebbero dei naufraghi senza valore. Gli altri mondi possono essere replicati qui, in miniatura.».( 5 )
Per quanto questa lettura possa apparire di primo acchito un po’ forzata, contiene in realtà un’interessante verità; per quanto complessa e difficile da vivere la città, e non a caso la città esplosa, continua ad emancipare. Si emancipano vite segnate, assediate, senza prospettiva; nella città e nel suo caotico divenire tutto si rimescola e trova inaspettate soluzioni. Tutto questo non significa che segregazione, sfruttamento ed emarginazione non continuino a produrre negatività sociali, tuttavia e non a caso, proprio in situazioni di grande cambiamento come in India, è nell’urbano che si riconfigurano destini individuali e collettivi.
L’urbano in questo senso non potrà mai essere un Leviatano, nel senso indicato da Hobbes, in primo luogo perché le figure dell’urbano non potranno mai essere compiutamente totalitarie; si tratta infatti di considerare piani profondamente diversi, che si distinguono per la loro iscrizione nel dominio della Legge il primo e delle istituzioni il secondo. Vale la pena di richiamare ancora una volta la sottolineatura che Deleuze ha voluto compiere in proposito, assegnando alle istituzioni quella capacità di assicurare patti capaci di ridefinirsi in relazione al mutamento del contesto in cui si producono.
Scrive, infatti, il filosofo francese: “Occorre ritrovare l’idea che l’intelligenza è cosa sociale più che individuale, ed essa trova nel sociale l’ambiente intermediario, il terzo ambito ce la rende possibile. Qual’è il senso del sociale in rapporto alle tendenze? Integrare le circostanze in un sistema di anticipazione, e i fattori interni, in un sistema che regoli il loro apparire, rimpiazzando la specie. È proprio il caso dell’istituzione. Fa notte perché si va a dormire; si mangia perché è mezzogiorno. Non vi sono tendenze sociali, ma solamente dei mezzi sociali atti a soddisfare le tendenze, mezzi che sono originali perché sono sociali”.( 6 )
Le figure dell’urbano si inscrivono a pieno titolo nel sistema delle istituzioni, il bisogno di abitare produce la richiesta di territori urbani e dunque delle istituzioni chiamate a soddisfare tutte le esigenze connesse a questa rivendicazione.

Dunque, il problema delle istituzioni è centrale affinché i modelli di trasformazione urbana non soggiacciano unicamente ad una logica di mercato, ma contemplino l’urgenza di soddisfare la domanda di « cittadinanza». In proposito dobbiamo considerare la trasformazione economica che si produce nell’urbano, e che ridefinisce le soggettività, i tempi, gli insediamenti rendendo eccentriche le istituzioni tradizionali.
Scrive a riguardo A. Petrillo: «Oggi però le città non governano più i flussi economici in un ambito locale, ma, nel momento in cui si staccano dall’ambito territoriale d’appartenenza – diventando ‘relativamente indifferenti’ al loro retroterra in virtù dei cambiamenti nelle modalità produttive e dell’evoluzione tecnologica –, si proiettano in qualità di protagoniste sui mercati mondiali, entrando in diretta e serrata concorrenza tra loro. Questa competizione, specie per quel che riguarda centri di media-grande importanza, coinvolge solo limitatamente gli stati nazionali.
Vi sono studi che sottolineano come esista attualmente una stretta relazione tra la rete mondiale dell’economia e la rete mondiale delle città. Le città sarebbero ‘nodi geografici’ di primaria importanza di un transnational network, di un’economia capitalista transnazionale che si andrebbe ormai chiramente delineando». ( 7 )
Eppure questa rete costituita da nodi, e che appare fortemente gerarchizzata, ha prodotto un altro fenomeno più complesso e caotico: quello della disseminazione dell’urbano su scala planetaria. Forse allora questi nodi gerarchici sono da intendere come collocati all’interno di un ecosistema che si dilata, muta, produce nuove configurazioni spaziali e nuove soggettività. Questo processo sembra inarrestabile, in ragione, non solo dei flussi migratori e della crescita demografica su scala ecumenica, quanto in rapporto al movimento di assorbimento delle aree rurali o dei parchi al contesto urbano. La standardizzazione degli usi di questi spazi ne ha provocato lo spopolamento rendendoli compiutamente omologati alle strategie di concentrazione sempre più forte del capitalismo finanziario attuale. Ad esso concorrono non solo le tecnologie, ma anche i nuovi sistemi di comunicazione che diffondono su scala planetaria informazioni, programmi e notizie più o meno uniformate. Anche in questo caso non si diffondono saperi, quanto si mette a conoscenza il “pubblico” di eventi spesso offerti in modo preconfezionato.
In questo senso, la drammatica sottolineatura di Paul Virilio, riguardo al carattere ipnotico di quella che lui definisce “la fede percettiva” può essere utilmente richiamata: “Vero illuminismo uscito dalla velocità delle onde elettromagnetiche, l’energia cinematica comprende la supremazia del ritmo di un morphing delle sensazioni sulla morfologia dei punti di vista, in cui l’importanza accordata all’effetto di realtà del TRASFORMISMO delle sequenze perviene, dopo la standardizzazione industriale delle opinioni come dei prodotti, a questa sincronizzazione postindustriale delle emozioni, che ha come orizzonte questa MONDIALIZZAZIONE DEGLI AFFETTI che non sarà altro che il culmine della tirannia del tempo reale; modellizzazione dei comportamenti di cui l’attuale mondializzazione non è che l’abbozzo, nell’attesa un domani dell’IMPNOSI collettiva di una pura presentazione che supplirà ad ogni rappresentazione (estetica, etica)…”.( 8 )

Quel che Virilio sottolinea, attiene la patologizzazione del sistema degli affetti, in ragione del quale le esistenze sembrano domandare uniformità e adattamento ed in realtà si allontanano lacerate dai propri istinti. L’unica accoglienza contemplata è quella dell’omologazione che volutamente cancella il bisogno sociale di differenziazione, articolazione e variazione.
Un esempio clamoroso di come tutto questo avvenga nell’urbano, riguarda l’edilizia pubblica volutamente “grigia”, ripetitiva, anonima e dunque “marchiante”, capace di rendere angosciante il vivere quotidiano. È insito in questo discorso il voler sottolineare il tentativo di cancellare il tempo vita in ragione di un’immagine tempo violenta e così votata alla crisi.
Vivere nell’esplosione urbana
Stremati, sempre di corsa, in ansia, patologizzati, ma anche immersi in una nuova dimensione relazionale, affettiva, lavorativa e culturale, gli uomini e le donne del Terzo Millennio per una serie infinita di motivi sono urbani. La città tende a diventare un’esperienza totalizzante.
L’intero tempo vita è dominato da un’esperienza dello spazio-tempo velocizzata e polverizzata in una serie di frammenti che a stento riescono a connettere il lavoro, il riposo, l’informazione, la solitudine, l’amicalità in un insieme appena accettabile. Il tempo si azzera divorato da infinite esigenze e lo spazio si restinge annichilito dall’infinita corsa che tritura tutto e tutti in un insensato vortice. Il tempo dilatato dell’attesa, della sospensione e dell’ozio non è che un vago sentimento di smarrimento.
Se non si produce e consuma non si ha diritto a nulla, non si può sostare, abitare, mangiare, pensare, si diventa immediatamente non-uomini, sgradevoli rappresentanti di una sottospecie di viventi incapaci di interagire con la “realtà”, poiché la realtà stessa non può che essere una e inconfutabile.
Ma che cosa significa oggi esistere, pensare, creare in questo contesto? Davvero le esperienze più determinanti attengono unicamente i piani del rischio, della precarietà e del controllo? È davvero esaurita la forza emancipatrice dell’urbano in ragione di una psicopatologia soverchiante e diffusa?
Certamente, non intendo svalutare nessuna di queste letture delle quali sono stata peraltro partecipe, tuttavia mi preme sottolineare alcune insorgenze, altre possibilità di espressione che si stanno producendo nella città esplosa e che rischiano di essere sottaciute da un eccesso di nichilismo di maniera.
Per affrontare questo movimento, possiamo partire da una considerazione di grande importanza: la metamorfizzazione delle esistenze nell’impatto con le tecnologie, che sia pure a bassa o alta intensità, hanno riconfigurato la stessa idea di vita.

L’uomo vitruviano è l’antesignano di questa interpretazione, il mondo nel quale si inscrive può essere oggi visto come quell’ambiente tecnologicamente modificato che scrive questa metamorfosi non solo sul suo corpo, ma nella sua stessa carne. In questo intreccio di relazioni che moltiplicano linguaggi e modalità di esistenza il virtuale, qui inteso come produzione di reale, svolge una funzione specifica il cui segno è profondamente contraddittorio.
Se il virtuale è ciò che si dà in potenza, esso riguarda in modo peculiare l’urbano in rapporto all’esponenziale crescita delle tecnologie della comunicazione.
Riferendosi ad Internet e ai protocolli attuati dal Wide Web Consortiunm, M. Castells, afferma: “Senza voler giudicare a priori l’efficacia di queste nuove istituzioni, il risultato davvero sorprendente è che Internet ha raggiunto una relativa stabilità della governance, senza soccombere né alla burocrazia del governo americano né al caos di una struttura decentralizzata. Se questo risultato è stato raggiunto, lo si deve principalmente ai gentiluomini dell’innovazione tecnologica: Cerf, Kahn, Berners-Lee e molti altri che si adoperano sinceramente per tenere aperta la rete ai loro pari, considerandola la via per imparare e condividere. In questo approccio comunitario alla tecnologia, la piccola nobiltà meritocratica ha incontrato la controcultura utopista nell’invenzione di Internet e nella difesa dello spirito di libertà che sta alla sua fonte. Internet è, prima di tutto, una creazione culturale”.( 9 )
In potenza questa tendenza potrebbe, se riferita al contesto dell’urbano, mettere in campo tutta una serie di saperi chiamati a ripensare il problema dell’abitare, dei rifiuti, degli spazi pubblici a partire da un consenso condiviso di quelli che sono i nuovi cittadini. Procedere in questo modo significa rielaborare il divorzio che si è consumato tra sapere e conoscenza, tra immaginario e reale.

Soggettività tecnologicamente modificate
La trasformazione tecnologica che caratterizza il nostro tempo affetta non solo l’ambito materiale, ma in modo più decisivo, i processi di produzione delle soggettività. Per comprendere in che modo questi processi non possano essere analizzati svincolandoli dal contesto ambientale, seguirò alcuni passaggi che possono restituirci un primo abbozzo di analisi.

• Le esistenze non si autodeterminano, piuttosto sono una produzione estremamente plastica della dimensione ambientale in cui si declinano.
• La produzione di soggettività crea ambiente e viceversa, il che significa che dobbiamo cogliere questo movimento nella sua più propria dimensione relazionale
• Le relazioni non sono mai statiche, piuttosto appaiono soggiacere ad intensità diverse che contemplano anche situazioni di blocco
• L’ambiente tecnologicamente modificato incontra nell’urbano, e soprattutto nella sua variegazione, la caratterizzazione più propria
• Il sistema di relazioni indicato può così essere definito come ecosistema urbano che nell’oggi coincide, nelle sue manifestazioni dirette e indirette, con l’ecumene.

In base a queste considerazioni possiamo soffermarci su alcuni passaggi che nell’oggi riguardano la complicazione dell’ecosistema urbano e delle soggettività che vi si producono. Tale complicazione riguarda il potenziamento, ma anche la valorizzazione di una corporeità che nell’urbano incontra la propria protesi. Questo potenziamento/svilimento incide sulle espressioni delle soggettività. L’uso delle reti di informazione, di trasporti, di abitazioni dotate di elettrodomestici e sistemi di controllo, piuttosto che video, telefonia e molto altro ci inducono a sperimentare una spazialità capace di coniugare locale e globale, materiale e immateriale, velocità e immobilità. Questo meccanismo segna in modo decisivo alcune espressioni dell’esistere, che avevamo considerato come scontate.
Il biologico si trasforma in biotecnologico aprendo il campo non solo al miglioramento delle pratiche tecno-scientifiche, ma all’intero statuto del bìos. Dalla riflessione attinente la produzione di soggettività, nel senso indicato da Foucault, si passa alla considerazione della produzione di vita. Questo fattore chiama immediatamente in causa la sfera ambientale, e nella nostra analisi, l’ecosistema urbano.
Infatti, la produzione di vita richiede in parallelo una considerazione di produzione di urbanesimo inteso nella sua formazione di spazi, risorse, energie, abitare che pongono il problema non solo della disponibilità di questi, ma anche problemi di accessibilità e ripartizione.
Il potenziamento delle tecniche di produzione di vita si coniuga con la tendenza all’inurbamento prima considerata, che è una tendenza quanto mai contraddittoria e articolata. Non a caso, tale processo appare ingovernabile. Per questo motivo l’architettura è in crisi perlomeno nella sua variante estetizzante. Ancora per questo motivo, indagini e statistiche risultano strumenti inefficaci anche nel solo voler monitorare tale trasformazione. Tutte queste discipline sembrano essersi ritratte nel sistema delle narrazioni.
Forse allora si deve ripartire da una lucida presa d’atto dello stato delle cose. Crescita demografica, prolungamento della speranza di vita, rivoluzione urbana devono far ricorso alle tecnologie, non solo per quanto riguarda la disponibilità di risorse, beni, informazione, ma soprattutto per favorire la considerazione di una sfera biotecnologia che ripensi lo statuto di cittadinanza, ossia i diritti costitutivi di una nuova polis su scala ecumenica che dovrà confrontarsi con le sue molte articolazioni, ma che potrà definire diritti di base inalienabili.
Se invece, si continuerà ad insistere sui processi di privatizzazione, esclusione, gerarchizzazione l’ecosistema urbano non potrà che essere uno spazio di guerra infinita, come testimonia la storia recente.
Vanno interpretate in tal senso le riflessioni che Donna Haraway da un lato e Vandana Shiva dall’altro, svolgono partendo da approcci apparentemente diversi, ma che convergono sulla necessità di riformulare quelli che in questo testo abbiamo chiamato i diritti della nuova polis.( 10 )

La città costituisce tutt’oggi, come si è detto, un luogo di approdo fosse pure per occupare un brandello di marciapiede o cercare tra montagne di rifiuti qualcosa da riutilizzare. L’urbano si articola in una trama territoriale che intreccia ricchezze e povertà, luoghi di dominio e spazi di esclusione. Eppure tutte queste dimensioni assediano la medesima realtà e vi si incontrano prossime, anche quando i tentativi di perimetrazione e securizzazione dei diversi quartieri e zone appaiono particolarmente aggressivi.
La fisicità del fenomeno urbano non può così prescindere non solo dalla considerazione della sua dimensione virtuale, ma anche dal suo rilevante portato simbolico.
Quest’ordine simbolico non è riferibile unicamente all’economia della merce, ma anche ad una produzione di immaginario che sottende quelle che potremmo definire le “nuove attese di vita”.
In una bella e accorata analisi della trasformazione di New York, e soprattutto del Bronx, a partire dagli anni del Modernismo, Marshall Berman scrive: “Per più di un secolo, New York ha svolto la funzione di centro internazionale di comunicazioni. La città non si è limitata a fungere da teatro, ma è diventata essa stessa una produzione, una rappresentazione multimedia il cui uditorio è rappresentato dal mondo intero. Ciò ha contribuito a dare particolare risonanza e profondità a molto di ciò che vi viene fatto e creato.
Lo sviluppo edilizio e sociale di cui ha goduto New York nel corso del secolo passato deve essere visto in gran parte come un’azione simbolica e un fatto comunicativo: non è stato concepito ed eseguito semplicemente per soddisfare necessità economiche e politiche immediate, bensì, e in misura per lo meno uguale, per dimostrare al mondo intero ciò che l’uomo moderno può costruire e come la vita moderna possa essere immaginata e vissuta”.11 La città è così anche un’esperienza comunicativa, attraverso questa modalità gli stili dell’urbano sono riusciti a diffondersi ed affermarsi in ogni piega del territorio.
Comunicano le forme, gli edifici, gli skyline, ma anche i linguaggi, i brand, i rumori, il traffico, le immagini, la pubblicità. Una bolgia infernale all’apparenza, e al contempo un’esperienza d consolazione, di nuovi incontri, di altre possibilità.

Il valore simbolico del vivere nell’urbano si traduce spesso nell’esperienza di attraversare una pagina collettiva in cui si incrociano esistenze di diversa provenienza, ma questo rende le città, nelle sue forme più caratterizzanti, dei corpi esposti, territori di guerra, spazi di contesa.
Ci può servire anche il solo considerare rapidamente l’11 settembre a New York, l’emergenza dei rifiuti a Napoli, le favelas sterminate di Rio de Janeiro per comprendere come non si tratti solo di eventi determinati da fatti contingenti, ma come questi segni esprimano in modo radicale la verità di “quel che ci accade”, di ciò che chiama in causa il nostro tempo e le esistenze nella loro complessità.
La potenza dell’immaginario riguarda le istituzioni, come ben sottolinea C. Castoriadis: “L’essere-società della società sono le istituzioni e le significazioni immaginarie sociali che tali istituzioni incarnano e fanno esistere nell’effettività sociale.
Sono queste significazioni a dare un senso – un senso immaginario, nell’accezione profonda del termine, ossia creazione spontanea e immotivata dell’umanità – alla vita, all’agire, alle scelte, alla morte degli uomini come al mondo che creano e nel quale gli uomini devono vivere e morire. La polarità non è tra l’individuo e la società – perché l’individuo è società, un frammento e nello stesso tempo una miniatura o, meglio, una sorta di ologramma del mondo sociale – bensì tra psiche e società. La psiche dev’essere bene o male, domata, deve accettare una ‘realtà’ che le è dall’inizio fino alla fine radicalmente eterogenea ed estranea. Questa ‘realtà’ e la sua accettazione sono l’opera dell’istituzione. I Greci lo sapevano già; i moderni, per lo più in funzione del cristianesimo, lo hanno nascosto”.( 12 )

In questo senso l’immaginario riferito all’urbano, continua a rimandare alla nozione del “buon vivere possibile” frutto della polis sin dalle sue origini. Infatti, sarebbe in parte fuorviante non rilevare come ancor oggi l’urbano, anche su scala planetaria, e nel suo prodursi per arcipelaghi e movimenti caotici, sia il frutto del percorso della città greca in cui la considerazione del “bene comune”, riuscendo a prescindere dalla determinazione dell’elemento religioso, costituiva l’incessante movimento delle istituzione chiamate ad interrogarsi sul progetto collettivo.
L’esplosione urbana si inscrive in questa genealogia, interrogarsi sulla creazione di nuove istituzioni chiamate a garantire il miglior vivere possibile, è questione del presente.
Periferie, migranti, sostenibilità, reddito di cittadinanza, spazi pubblici devono essere ripensati nel tempo dell’incontro tra le diverse etnie, nel tempo della monopolizzazione delle risorse, del controllo dei territori e delle esistenze, al fine di reinventare una nuova paideia.
La città non è uno spazio neutrale, piuttosto è la dimensione in cui è ancor oggi possibile l’esercizio di quella parresia, intorno alla quale rifletteva M. Foucault, ossia il compito primo della filosofia, che con la città nasce e con la quale intreccia il proprio divenire. La parresia, precisa il filosofo francese non si confonde con l’esercizio del potere, “Far giocare il logos nella polis – logos nel vero senso della parola, parola ragionevole, parola che persuade, parola che può confrontarsi con altre parole, e che non vincerà se non per il peso della propria verità e dell’efficacia della sua persuasione – , far giocare questa parola vera, ragionevole, agonistica, questa parola di discussione nel campo della polis, è in questo che consiste la parresia. E questa parresia, ancora una volta, non è né l’esercizio di un potere tirannico, né il semplice statuto di cittadino che può donarla”.( 13 )
Ancor più urgente appare il richiamo a questa pratica nel presente, a fronte di un processo di mediatizzazione che intende omologare la trasformazione urbana unicamente sul versante delle proprie patologie e dei propri timori.
Istituzioni, parresia, devono riconsiderare la sfida del progettare il miglior modo di vivere possibile chiamando in causa il conflitto sempre più marcato tra i meccanismi di mercificazione e privatizzazione e la necessità di spazi collettivi condivisi.



Note

1. Rapporto dell’International Monetary Fund, settembre 2007.
2. Davis M., Planète bidonvilles, in “Sin Permiso”, rivista on line www.sinpermiso.info, settembre, 2005, p. 5.
3. Lussault M., L’homme spatiale. La construction sociale de l’espace humain, Paris, Seuil, 2007, p. 333.
4. Paquot Th., Terre urbaine. Cinq défis pour le devenir urbain de la planète, Paris, La Découverte, 2006, pp. 54-55.
5. Metha S., Maximum City,Torino, Einaudi, 2004, pp. 36-37, ed anche G.D. Robert, che così descrive la città nel suo famosissimo romanzo: “la città mi sembrava meravigliosa. Accanto a romantici edifici inglesi dell’epoca del Raj svettavano moderni grattacieli ricoperti di vetrate a specchio. Catapecchie fatiscenti pencolavano sopra a sontuosi bazar colmi di frutta, verdura e sete preziose. Da ogni negozio e da ogni taxi di passaggio proveniva una musica diversa. I profumi erano deliziosi, inebrianti. E in vita mia non avevo mai visto tanti volti sorridenti come in quelle strade caotiche. Ma soprattutto Bombay era libera, e comunicava una sensazione di libertà esilerante. Dovunque guardassi percepivo quello spirito di libertà, e mi accorsi di esserne contagiato nel profondo. Il moto di vergogna che avevo provato vedendo per la prima volta gli slums e i mendicanti si dissolse quando compresi che quegli uomini e quelle donne erano liberi. Nessuno cacciava i mendicanti dalle strade. Nessuno sfrattava gli abitanti degli slum. Per quanto penose fossero le loro esistenze, erano liberi di viverle negli stessi giardini e negli stessi viali dei ricchi e dei potenti. Erano liberi. La città era libera. L’amavo”. Roberts G. D., Shantaram, Vicenza, Neri Pozza, 2005, p. 31.
6. Deleuze G., Instincts et institutions, in L’île déserte et autres textes, Paris, Minuti, 2002, p. 27.
7. Petrillo A., La città perduta. L’eclissi della dimensione urbana nel mondo contemporaneo, Bari, Dedalo, 2000, pp. 97-98.
8. Virilio P., L’Université du desastre, Paris, Galilée, 2007, p. 56.
9. Castells M., Galassia internet, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 42-43.
10. Cf. Haraway D., A Cyborg Manifesto. Science, Technology and Socialist-Feminism in the Late Twenthy Century, New York, Routledge, 1991, e Vandana Shiva – Maria Mies, Ecoféminisme, marchandise - La dérive des droits de propriété intellectuelle (Protect or plunder?), Éditions de l’Atelier et Éditions Charles Léopold Mayer, 1999.
11. Berman M., L’esperienza della modernità, Bologna, il Mulino, 1985, p. 357.
12. Castoriadis C., La democrazia come procedura e come regime, in Spazi eccentrici. Mappe del molteplice sociale, (a cura di F. Riccio), Pisa, BFS, 2003, pp. 144-145.
13. Foucault M., Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, Paris, Gallimard-Seuil, 2008, p. 98.