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Meta Art Magazine (2009-2010) Anno 1 Numero 2 dicembre 2009



Fabio Viale

Marisa Vescovo

Flat Line





INDICE
Editoriale 1
di Lorenzo Monticone

MULTIVERSO
di Paolo Bonaccorsi 4

La chiesa del santo volto 6
di Mario Botta

Il maestro dell’incoronazione
di Viatosto e la Vergine
Annunciata di Villavecchia 12
di Bruno Vergano e Anna Rosa Nicola

ENZO ISAIA 18
di Tatiana Ansaldi

MNAF.
MUSEO NAZIONALE DELLA FOTOGRAFIA 31

Fratelli Alinari 34

LANCIA DI LANCIA - FPT 38

FABIO VIALE 42
di Tatiana Ansaldi e Marisa Vescovo

Fabio Giampietro 48
di Paola Buzzini

Frank O’Gehry 52

Hangar Bicocca 54

EDWARD HOPPER 60

MUSEO Borsalino 65

Twister 68
di Lucia Crespi

LA REDAZIONE CONSIGLIA
Museo Lucca 74
di Paola Buzzini

MOMA New York 76

L’avvocato risponde 78
di Giovanni Valente e Tatiana Ansaldi
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Margot Quan Knight
Luigi Fassi
n. 3 ottobre 2010


Fabio Viale
Arrivederci e grazie
2004

Fabio Viale
Putrella

Fabio Viale
Pietà
2006

FLAT LINE

Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un progressivo impoverimento del linguaggio plastico a favore dell’installazione, dell’immagine diffusa e debordante. Infatti gli artisti più giovani sono convinti di dover essere premiati dal consenso sociale ed economico soprattutto per la loro velocità nell’adeguarsi ai linguaggi della comunicazione omologante, che risponde al proprio bisogno di riconoscimento. Fabio Viale parte da un altro assunto: la necessità di rendere esplicita la sua autonomia creativa, quindi delegittima l’esperienza omogeneizzante del presente in nome di un orizzonte mobile, aperto alle possibilità del linguaggio plastico che permette di travalicare i confini del reale e diluirlo poi in un universo funzionale, che non si inquadra nella cornice di un vuoto esistenziale, e di disimpegno sociale, a dir poco allarmante. Pertanto la sua ricerca prosegue assegnando al materiale marmo un primato che da tempo aveva perduto - etichettato di vieto “classicismo” e quindi di vuoto “formalismo” - trattato dai più in modo banale e mortificante, al contrario Viale adotta affettivamente e creativamente, ma soprattutto concettualmente, questa materia antica, trattata dai più in modo banale e sciatto, per manipolarla, fluidificarla, accarezzarla, risemantizzarla, sino ad ottenere un materiale “nuovo” e dinamico, capace di assumere nel suo incarnato le novità che oggi si muovono nel campo mutante dell’arte, anche per ampliare spazi ambientali che includano insieme immagini, suoni seriali, simboli, archetipi, profumi, e, perché no, emozioni.

Nel caso di Viale pensiamo soprattutto al suo paziente lavoro sul marmo, sia bianco che nero, sino a renderlo leggero come una piuma, un’idea che ci riporta a un mondo come costituito da atomi senza peso che aleggiano nello spazio. Un fatto che ci colpisce proprio perché oggi abbiamo esperienza del peso delle cose. Ma non potremmo ammirare la leggerezza illusiva di questo linguaggio che ci restituisce lo spessore, la concretezza, dei corpi scultorei e delle sensazioni, se non sapessimo ammirare anche il linguaggio che ormai ha perso il suo peso: naturalmente pensiamo alla barca che si muove sull’acqua, ai palloncini sospesi, agli aerei (visti come gli aerei di carta dei bambini, magari moltiplicati dal gioco degli specchi), ai pneumatici, alla putrella improbabilmente incurvata, tutti rigorosamente in marmo.
Questi oggetti, che stanno tra nostalgia e paradosso, denunciano una giocosa connessione con uno humour che ha perso la sua comune e umana pesantezza corporea per mettere in dubbio l’io e il mondo e tutta la rete di relazioni che li costruiscono. Considerando la paradossalità, o unione dei contrari, dell’espressione artistica di Viale, ci troviamo di fronte a un lavoro che individua il suo climax in un gioco di cornici concettuali capaci di sovrapporsi, di scambiarsi, sospendendo il senso del lavoro dell’artista.
I paradossi che così si producono sono la materia prima della comunicazione umana, Viale conosce un modo di “dire” che corrisponde alla difficile arte di far stare in bilico le cose in una situazione che ogni volta si sdoppia, e dove il dentro e il fuori si danno continuamente il cambio. Penso in proposito all’opera: “Infinito”, due pneumatici funambolicamente scolpiti, inanellati in modo da formare un disegno “ad otto”, mentre la texture dei battistrada è perfettamente incisa, così da farci pensare anche al rumore che essi producono sulla pavimentazione della strada, portandoci, nel contempo, a sentire un profumo della gomma riscaldata. Essi soprattutto offrono uno scambio di comunicazione, veramente depistante, infatti la realtà pesante della materia non è disgiunta dalla spiritualità curva dell’”infinito”.

Anche “Flat line”, la putrella bianca incurvata ironicamente al centro, denuncia un lavoro sugli opposti che si elidono seduttivamente. Pertanto la percezione di queste opere non può essere frutto di una passiva contemplazione, ma piuttosto un processo attivo, e partecipato, lanciato in avanti. Sono queste “differenze”, o positive opposizioni - tra essenza concettuale ed esteriorità - a fondare il significato della scultura, significato che dipende dal rapporto di connessione tra le forme e lo spazio identitario dell’esperienza, la quale mette in causa visivamente l’esistenza dell’opera. Questo “sapere” di Viale corrisponde evidentemente alla capacità di stare a cavallo tra realtà e irrealtà, senza precipitare da una parte o dall’altra. In tutto questo va inoltre rintracciato un accordo che produce un certo tipo di armonia, tuttavia ci sembra un’armonia che ha luogo nel paradosso: ragione ed immaginazione non si accordano all’interno di una tensione, di una contraddizione, o di una dolorosa lacerazione (si pensi a “Stele”). L’unione dei contraddittori è per se stessa passione, impensabile senza il dolore di un lavoro pesantissimo (tecnicamente). È su questo punto caldo che si scopre l’origine e la destinazione dell’arte. Sicuramente Viale è consapevole che l’arte contemporanea rispecchia profondamente l’irriconoscibilità e l’impersonalità della vita che conduciamo, speculare al contesto sociale e spirituale che ci avvolge. Ma a suo modo anch’essa è un appello alla verità, a cui l’essere umano anela. La nostra coscienza estetica colloca l’oggetto - il grande tema del ‘900 è rappresentato dal proliferare degli oggetti che inzeppano il nostro universo quotidiano - in una sua autonoma purezza formale e qualitativa, non separandolo però da ogni legame col reale, e dal rapporto con quel mondo storico-simbolico nel quale pure l’oggetto artistico si carica di senso e vita.

Nominare la “cosa” significa accettare che essa non rientri sotto il dominio della comprensione catturante. L’ oggetto - mai svuotato concettualmente - è sottoposto da Viale ad un denudamento che richiede, a mio avviso, di essere interpretato come un processo di spoliazione spirituale: atto purificatore per effetto del quale l’oggetto appare rinnovato allo sguardo che lo contempla. Esso diviene dunque luogo specifico di una dinamica esplorativa tendente a sondare la possibilità di sempre nuovi e diversi significati, l’oggetto diventa soglia, finestra, varco di comunicazione attraverso il quale il nostro caotico mondo può transitare per affermare la forza del reale. La radice contemporanea di questo lavoro ci è sempre sembrata evidente, ma ora ci sembra anche capace di agganciare il passato col suo patrimonio inalienabile di “sapere”. La nuova serie di opere che Viale propone in questa personale si titola ironicamente “Souvenirs”, e si rivolge ai miraggi, e allucinazioni, della mente collettiva che condizionano il comportamento delle masse, affascinate dal culto per l’immagine e gli oggetti, un culto portato al parossismo negli anni Settanta, per cui l’individuo deve evitare la fonte scatenante situazioni fobiche, perché la fobia è irrazionale, non basata su riflessioni e giudizi logici. C’è angoscia nella fobia, perché è legata ad un disagio narcisistico, al cambiamento repentino di valori nel mondo della globalità e quindi si rivolge a chi sottrae qualcosa al patrimonio di tutti.

Sappiamo ormai che c’è, nella società attuale, un aumento della magia catturante degli oggetti. Viale immagina di essere un cleptomane, posseduto dalla volontà irresistibile di rubare “parti” eccezionali di opere d’arte, ormai assunte alla storia e al mito, e quindi è desideroso di possederle feticisticamente, di farle sue, non solo simbolicamente. Sulla linea di queste idee de-situanti l’artista immagina di aver rubato il corpo del Cristo morto, posto sulle ginocchia della Vergine nella “Pietà” in San Pietro, e poi pene e testicoli al “David” di Michelangelo. Sappiamo che la Madonna tiene in grembo il figlio morto come se fosse un bambino dormiente, ed essa è giovane come quando Cristo era veramente bambino. Forse Michelangelo ha voluto rappresentare una visione, o piuttosto una “previsione”, la prefigurazione reale, che la Vergine ha della “passione” del figlio. Quello che Viale ha scolpito è un corpo perfetto, completamente rilassato, in caduta obliqua, alienato dal corpo della madre, che sembra invece, forse, voler fuggire da lei, come avviene per molti giovani odierni afflitti da troppo amore. Nei meandri molli della memoria l’autore non cerca propriamente modelli di valore da dissacrare, bensì modelli di confronto da verificare, simboli capaci di rappresentare le origini dell’esistere e dell’agire. Viale stana quei miti che descrivono, o prescrivono, azioni, ma non ipotizzano comportamenti univoci, perché essi esprimono i nostri sentimenti, le nostre sensazioni, e perciò ogni cosa è suscettibile di essere sentita, o conosciuta, secondo una pluralità di prospettive. In questo caso le icone vengono usate allo stato ultimo, quello della citazione, del già fatto, una scelta mentale, che avviene per amore, o per riconoscimento di dati da trasformare e restituire attraverso l’immagine. Il piacere dell’artefice è legato al fatto di sentire il marmo nei tempi lunghi della mano. La volontà di acconsentire alle proprie motivazioni ideologiche all’interno del linguaggio plastico, si accompagna all’erotismo della scoperta di nuovi significati e nuove intensità, in un rapporto libero e disinibito con le opere del passato, aiutato da una capacità concettuale preparata a dominare l’irrazionale, cercando soluzioni formali alle antinomie della nostra cultura.

Le sculture esatte di Viale, sono di un nitore straniante, mentre le immagini sono icastiche, ma non rifiutano le sfumature del pensiero e dell’immaginazione. La concretezza del mondo oggettuale è tradotta nei dettagli di un “totale”, che non è altrimenti possibile immaginare se non come particolare, nello stesso tempo astratto e tangibile. Viale è consapevole che l’arte è illusione, e allora talora ricorre alla comunicazione delle proprie motivazioni creative attraverso un vitalismo (si veda l’installazione “Opera Rotas”), che demolisce la logica e la razionalità in nome della spontaneità, della discrezione - mai vittima dunque dell’idolatria del guadagno e del successo ad ogni costo - e attraverso l’uso abile e giocoso dei media apre al proprio lavoro straordinarie capacità di crescita, di conoscenza, quindi restituisce l’opera al valore del reale, al sentimento estetico delle cose, che prendono corpo in una veste nuova, sfidando con un sorriso arguzia e discrezione.